Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 febbraio 2023, n. 3970

Lavoro, Decreto di decadenza dall’impiego, Mancato superamento del periodo di prova, Dispensa dal servizio, Intento discriminatorio o illecito del datore di lavoro pubblico, Prova delle finalità discriminatorie, Rigetto

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’appello di Torino ha respinto l’appello di F.D. avverso la sentenza del Tribunale di Cuneo che aveva rigettato il suo ricorso, volto ad ottenere, nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (in seguito MIUR), la dichiarazione di illegittimità del decreto (recante n. 310 del 21.7.2017) del Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di Fossano A di «decadenza dall’impiego», con condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perse sino alla dì della reintegrazione.

2. La Corte territoriale, riepilogati i fatti di causa, ha rilevato che, al di là del richiamo alla «decadenza dall’impiego», il tenore complessivo del decreto n. 310/17 non lasciava dubbi sul fatto che la volontà espressa fosse quella di pronunciare la dispensa dal servizio per mancato superamento del periodo di prova; ha aggiunto che il decreto era stato comunicato, entro il 31 agosto dell’anno di riferimento, all’indirizzo mail della destinataria, ancorché la disposizione dell’art. 14 d.m. n. 850/2015 non ne prevedesse la necessità e comunque non comminasse alcuna invalidità per l’inosservanza delle formalità di comunicazione; ha escluso che la valutazione negativa del periodo di prova fosse qui dipesa da una finalità illecita o discriminatoria, ed ha evidenziato, a riguardo, «l’insindacabilità» della valutazione discrezionale sull’esito negativo anche della seconda prova, la quale aveva verificato l’incapacità didattica della docente neo-assunta sulla scorta del giudizio dei tutor, dei dirigenti e del Comitato di valutazione scolastico.

3. Per la cassazione della sentenza F.D. ha proposto ricorso sulla base di sette motivi, ai quali ha opposto difese con controricorso il MIUR.

4. La Procura Generale ha depositato memoria ed ha concluso per l’infondatezza del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo mezzo contiene denuncia di violazione degli artt. 439 d.lgs. n. 297 del 16.4.1994, 1175 e 1375 cod. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) per avere la Corte di merito ritenuto che l’adozione del provvedimento di decadenza, in luogo di quello di dispensa dall’impiego, concreti una mera svista e non già un’irregolarità sostanziale, tale da pregiudicare il raggiungimento dello scopo cui l’atto era preordinato.

2. Il secondo mezzo contiene denuncia di violazione o falsa applicazione degli artt. 1, comma 118, della legge 13.7.2015, n. 107 e 14 d.m. 27.10.2015, n. 850 per avere la Corte di merito affermato, in contrasto con la lettera dell’art. 14 d.m., cit., che il termine indicato in tale ultima disposizione si riferisce ai provvedimenti di conferma in ruolo e di ripetizione del periodo di formazione e prova e non anche al provvedimento di non conferma in ruolo.

3. Con il terzo mezzo è denunciata violazione degli artt. 1 e 3 d. lgs. 7.3.2005, n. 82, consistente nell’avere la Corte di merito ritenuto che l’onere di comunicazione del provvedimento di decadenza dall’impiego alla ricorrente fosse stato validamente adempiuto a mezzo posta elettronica semplice.

4. Con il quarto mezzo è denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione dell’art. 2697 cod. civ. per avere la Corte distrettuale ritenuto – a fronte dell’espressa contestazione della ricorrente – che l’amministrazione avesse fornito, a livello presuntivo, dimostrazione della ricezione del provvedimento di decadenza dall’impiego, senza verificare se l’amministrazione, gravata del relativo onere, avesse effettivamente fornito prova della data della ricezione.

5. Con il quinto mezzo si denuncia violazione degli artt. 115 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ. (artt. 360 nn. 3-4 cod. proc. civ.) per avere la Corte di merito: a) omesso di considerare che era pacifico, per difetto di contestazione, il fatto che nei confronti della ricorrente fosse stata tenuta fin dall’inizio dell’anno scolastico una condotta discriminatoria sfociata nell’illegittimo provvedimento di decadenza dall’impiego; b) erroneamente affermato che la ricorrente non aveva adempiuto all’onere di fornire prova della condotta discriminatoria ancorché avesse formulato istanze istruttorie in tal senso.

6. Con la sesta critica si denuncia, ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame con cui la ricorrente aveva censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva escluso che la dispensa dal servizio era stata determinata dal perseguimento dell’illecita finalità discriminatoria per difetto di prova, senza avere ammesso le richieste istruttorie volte a fornire dimostrazione di tale finalità.

7. Il settimo (ed ultimo) mezzo contiene denuncia di violazione degli artt. 2697 cod. civ. e 421 cod. proc. civ. (art. 360 nn. 3-4 cod. proc. civ.), consistente nell’avere la Corte torinese confermato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva rigettato la domanda di declaratoria di illegittimità del provvedimento di dispensa dal servizio, per difetto di prova delle finalità discriminatorie, senza attivare i poteri istruttori ufficiosi del giudice.

8. Il primo motivo non è fondato.

Il giudice d’appello evidenzia che il «tenore complessivo dell’atto non lascia adito a dubbi circa il fatto che si sia trattato di un errore materiale e che la volontà del dirigente scolastico fosse quella di decretare la dispensa (e non la decadenza) dal servizio»; trattasi di affermazione che si traduce in un’indagine di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che per l’eventuale violazione dei canoni legali di ermeneutica qui non evocati dal ricorrente.

9. Il secondo motivo è inammissibile laddove denuncia, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 14 del d.m. n. 850/2015.

L’art. 1, comma 118, della richiamata legge n. 107/2015, ha inteso attribuire all’amministrazione centrale un potere di direttiva, che limita l’autonomia delle singole istituzioni scolastiche, al fine di garantire la necessaria uniformità in una materia che, da un lato, rientra fra quelle rimaste riservate al Ministero ai sensi dell’art. 15, lett. b) del d.P.R. n. 275/1999, dall’altro, quanto ai tempi e ai modi dell’esperimento e della formazione, coinvolge direttamente i singoli dirigenti scolastici (cfr. in fattispecie analoga C.d.S. atti norm. n. 137/2008). Ai sensi dell’art. 17 della legge n. 400/1988 con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenze del Ministro «quando la legge espressamente conferisca tale potere» e in tal caso il decreto deve recare la denominazione «regolamento», deve essere adottato previo parere del Consiglio di Stato, deve essere sottoposto al visto ed alla registrazione della Corte dei Conti ed infine deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Le richiamate condizioni non ricorrono nella fattispecie (il d.m. non reca la dizione regolamento, non è stato sottoposto al parere del Consiglio di Stato, non è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale), sicché, esclusa la natura normativa, del decreto non può essere denunciata la violazione ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. e valgono i medesimi principi affermati in relazione alla violazione delle circolari e delle direttive che, si è detto, non contengono norme di diritto e sono riconducibili alla categoria degli atti unilaterali negoziali o amministrativi con la conseguenza che la loro interpretazione costituisce un apprezzamento di fatto, istituzionalmente riservato al giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale (Cass. n. 32726/2021; Cass. n. 18723/2016; Cass. n. 8296/2006; Cass. n. 4942/2004; Cass. n. 1114/2002).

10. Il terzo e il quarto motivo sono infondati.

Sostiene la ricorrente di non avere avuto conoscenza del provvedimento di dispensa dal servizio comunicato mediante mail.

Ma in proposito, analogamente a quanto avviene per le dichiarazioni negoziali ai sensi dell’art. 1335 c.c., sussiste una presunzione di conoscenza da parte del destinatario: il quale, ove deduca di non averne avuto cognizione, è onerato lui della dimostrazione delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione correlate all’utilizzo dello strumento telematico (Cass. 24 giugno 2020, n. 12488; Cass. 31 ottobre 2017, n. 25819; Cass. 21 agosto 2019, n. 21560). Tuttavia, in ordine a tale essenziale aspetto, nulla la D. ha allegato.

Peraltro, dal vizio della comunicazione non potrebbe mai discendere, come opina la ricorrente, la stabilizzazione del rapporto, effetto, questo, che intanto può prodursi, in quanto vi sia stata una valutazione favorevole dell’esito della prova, e pertanto quell’effetto non può essere di certo conseguito in conseguenza di vizi formali dell’atto di recesso o del procedimento (cfr., in motivazione, Cass., Sez. L, n. 31091/2018 e, da ultimo, Cass., Sez. L, 8.3.2022, n. 7587). La stabile immissione nei ruoli del personale scolastico presuppone, in sostanza, la valutazione positiva espressa a completamento dell’esperimento, che è condizione necessaria per la conferma in ruolo (art. 440 del d.lgs. n. 297/1994) e in difetto della quale il docente può essere dispensato dal servizio o restituito al diverso ruolo di provenienza (art. 439 d.lgs. ult. cit.).

11. Infondato è altresì il quinto motivo.

Rispetto alla prova delle presunte finalità discriminatorie, qui del tutto mancata come afferma la Corte distrettuale, si mostra sterile il richiamo al principio di non contestazione. Se la stessa ricorrente ammette, invero, che il MIUR aveva replicato che «i fatti dedotti dalla D. (a riscontro della condotta discriminatoria) non si (erano mai) verificati», è logico arguire che non poteva farsi gravare sul datore di lavoro pubblico, come opina la deducente, l’onere di enunciare «un diverso svolgimento» di quei medesimi fatti la cui verificazione era stata in radice negata.

12. Il sesto e il settimo motivo non sono fondati.

13. Non sussiste l’omessa pronuncia, la quale ricorre solo qualora risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto, e non è configurabile nel caso in cui, anche in mancanza di una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (cfr., fra le tante, Cass. n. 12652/2020 e Cass. n. 2151/2021).

La Corte territoriale ha espressamente esaminato il motivo con il quale era stata riproposta in appello la questione della discriminazione: come evidenziato nello storico di lite, il giudice d’appello, all’esito di un puntuale vaglio critico delle risultanze istruttorie, ha escluso qualsiasi intento discriminatorio o illecito del datore di lavoro pubblico, il quale, con dovizia di argomenti, aveva specificamente sottolineato limiti e criticità durante il periodo di prova della docente neo-assunta, come meglio evidenziati dalla tutor D. e dalla Dirigente D. nelle loro relazioni (cfr. alle pagg. 18 e ss. della motivazione).

Per il resto, quanto alla natura del potere che il datore di lavoro pubblico esercita e ai limiti del sindacato giudiziale, valgono i medesimi principi affermati per l’impiego privato e, pertanto, il giudizio discrezionale che l’amministrazione esprime, una volta decorso il periodo di prova, non è sindacabile nel merito né è necessario provarne in sede giudiziale le ragioni, poiché l’illegittimità del recesso è predicabile solo qualora il potere venga esercitato per finalità diverse da quelle che la prova tende ad assicurare o senza il necessario rispetto delle regole formali e procedimentali imposte dalla legge e dalla contrattazione collettiva (Cass. n. 6334/2019).

Anche l’obbligo di motivare il recesso non esclude né attenua la discrezionalità dell’ente nella valutazione dell’esperimento, non incide sulla ripartizione degli oneri probatori, né porta ad omologare il mancato superamento della prova al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, essendo finalizzato solo a consentire la «verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa», fermo restando che grava sul lavoratore l’onere di dimostrare il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite o la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento medesimo (Cass. n. 21586/2008 e Cass. n. 19558/2006).

A ben vedere, la ricorrente più che dolersi dell’omessa pronuncia sulla domanda diretta all’accertamento dell’illecita finalità discriminatoria, si lamenta – specie nello sviluppo argomentativo del suo settimo motivo – della mancata attivazione dei poteri istruttori d’ufficio da parte del giudice di primo grado e d’appello, quantunque sollecitati; ma tale vizio, laddove fosse (in ipotesi) trasmodato nell’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti, avrebbe potuto al più essere dedotto, non già a sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., ma esclusivamente con l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., strumento qui, tuttavia, precluso vertendosi in un caso di impugnativa della c.d. “doppia conforme”, v. Cass. n. 23021 del 2014.

14. Va disatteso anche l’ultimo rilievo della ricorrente in ordine alla violazione dell’art. 421 cod. proc. civ. per il mancato esercizio dei poteri officiosi da parte del giudice d’appello.

E’ ben vero che nel rito del lavoro, il giudice, ove si verta in situazione di “semiplena probatio”, ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti, dovendo, quindi, motivare sulla mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi là dove sollecitato dalla parte a integrare la lacuna istruttoria;

senonché, nel caso in esame la Corte non ha ammesso le prove perché le ha ritenute, con un giudizio di opportunità rimesso a un apprezzamento meramente discrezionale a essa riservato, generiche e inidonee (cfr. Cass. n. 22628/2019), il tutto a fronte di un quadro istruttorio (costituito dalla sola documentazione dell’appellante, essendo il Miur rimasto contumace) congruo, appagante e privo di incertezze probatorie. Peraltro, la parte ricorrente, nell’illustrazione della censura, avrebbe dovuto specificare, con riferimento agli elementi ricostruttivi desumibili dagli atti, quali di questi erano idonei ad integrare, con carattere di decisività, la esistenza di una “pista probatoria” qualificata rispetto alla quale appariva doverosa un’integrazione istruttoria mediante l’esercizio dei poteri officiosi sul profilo della discriminazione, i cui esatti contorni, non evidenziati neppure nei capitoli di prova non ammessi in primo grado, sono rimasti, anche a livello di allegazioni, oscuri e indefiniti.

Per non sovrapporre la volontà del giudicante a quella delle parti in conflitto di interessi e non valicare il limite obbligato della terzietà, è necessario, infatti, che l’esplicazione dei poteri istruttori del giudice venga specificamente sollecitata dalla parte con riguardo alla richiesta di una integrazione probatoria qualificata (cfr. Cass. 29/09/2015 n. 19358, Cass. 10/12/2008 n. 29006, Cass. 18/06/2008 n. 16507, e già Cass. 07/05/2002 n. 7119).

15. Risulta, infine, inconferente anche il richiamo all’art. 2697 cod. civ., poiché la violazione di tale disposizione è censurabile per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece ove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), come nella specie laddove chi ricorre critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa la non configurabilità di forme di discriminazione, opponendo una diversa valutazione che non può essere svolta in questa sede di legittimità.

16. In via conclusiva, il ricorso deve essere rigettato, con addebito delle spese del giudizio di legittimità alla D., che è parte soccombente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro €. 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

 

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 febbraio 2023, n. 3970
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: