Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 febbraio 2023, n. 4060
Lavoro, Personale assunto localmente dalle rappresentanze diplomatiche, Licenziamento disciplinare, Disciplina applicabile, Principio della tempestività della contestazione, Rigetto
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto, ex art. 1, comma 60, della legge n. 92 del 2012, da A. Z. D. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza emessa a definizione della fase sommaria e ritenuto legittimo il licenziamento intimato allo Z. dal Consolato Generale d’Italia in Lagos con atto del 28 luglio 2017.
2. La Corte territoriale ha premesso, in punto di fatto, che la sanzione disciplinare espulsiva era stata inflitta ai sensi dell’art. 166, comma 1, lettere a) e d) del d.P.R. n. 18/1967 per «incapacità professionale» nonché per «fatto grave che dimostri piena incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio».
I fatti contestati erano stati accertati all’esito di ispezione eseguita su segnalazioni e rapporti della Polizia di frontiera di Fiumicino e Malpensa, che aveva riscontrato irregolarità nel rilascio di visti italiani da parte del Consolato. In particolare, l’esame a campione aveva permesso di accertare che numerosi visti erano stati rilasciati sulla base di documentazione falsa ed inattendibile. Sulle relative pratiche risultava apposta annotazione positiva da parte dello Z. il quale, evidentemente, aveva omesso di svolgere la necessaria attività istruttoria, atteso che «la natura fraudolenta della documentazione non poteva sfuggire neppure ad una lettura superficiale».
2. Il giudice del reclamo, per quel che in questa sede rileva, ha evidenziato che la responsabilità dello Z. non poteva essere esclusa per il solo fatto che l’istruttoria delle pratiche non fosse stata affidata al dipendente con formale ordine di servizio. Lo stesso reclamante, infatti, aveva ammesso, nel ricorso introduttivo e nell’atto di opposizione, che anche per le pratiche relative ai visti sportivi egli provvedeva ad apporre sulla copertina le sigle OK, in caso di completezza della documentazione, o R, qualora i documenti fossero dubbi o incompleti. D’altro canto, l’istruttoria disciplinare aveva consentito di accertare che si trattava di servizio assegnato al ricorrente, il quale, all’esito dell’esame, sottoponeva le pratiche alla valutazione del responsabile dell’ufficio visti.
La Corte distrettuale ha aggiunto che il ricorrente aveva rinunciato all’audizione dei testi da lui indicati e, nel sostenere infondatamente che la falsità della documentazione non poteva essere percepita, aveva finito per ammettere che l’esame delle pratiche rientrava nella sua competenza.
3. Il giudice del reclamo, poi, ha escluso l’eccepita violazione del principio di immutabilità della contestazione ed ha rilevato che i fatti contestati giustificavano il recesso del rapporto, perché sintomatici dell’incapacità del dipendente, il quale non aveva adempiuto adeguatamente gli obblighi di servizio.
4. Infine la Corte capitolina ha ritenuto inapplicabile l’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001 ed ha rilevato che il rapporto intercorso tra le parti era disciplinato dal Titolo VI del d.P.R. n. 18/1967 che, per quanto non espressamente previsto, all’art. 154 rinvia, non al richiamato decreto legislativo, bensì alla legge locale.
5. Per la cassazione della sentenza A. Z. D. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi, ai quali ha opposto difese con controricorso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
La Procura Generale ha concluso ex art. 23, comma 8 bis del d.l. n. 137/2020, convertito in legge n. 176/2020, per il rigetto del ricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente denuncia violazione dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, degli artt. 154 e 164 del d.P.R. n. 18/1967, degli artt. 18 e 57 della legge n. 218/1995. Premette che i fatti, noti al Ministero già il 16 febbraio 2017, erano stati comunicati il 24 marzo 2017 al Consolato Generale di Italia in Lagos, che solo il 26 aprile successivo aveva provveduto alla contestazione dell’addebito. Sostiene che doveva essere rilevata la tardività dell’atto di avvio del procedimento disciplinare, in ragione dell’evidente violazione del termine di quaranta giorni imposto a pena di decadenza dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001. Rileva che gli artt. 164 e 166 del d.P.R. n. 18/1967 non stabiliscono termini e forme del procedimento disciplinare, sicché, in difetto di un’espressa previsione, deve trovare applicazione la disciplina dettata per l’impiego pubblico contrattualizzato. Evidenzia al riguardo che nell’ordinamento nigeriano qualsiasi contratto è risolvibile dal datore di lavoro nel rispetto del periodo di preavviso ed aggiunge che in quell’ordinamento, che non contempla il procedimento disciplinare, non è sanzionato il mancato rispetto del principio di tempestività. Invoca l’art. 57 della legge n. 218/1995 e richiama giurisprudenza di questa Corte per sostenere che l’applicazione della legge locale deve essere esclusa ogni qual volta la stessa si risolve nella compromissione di diritti inderogabili riconosciuti al lavoratore dall’ordinamento italiano.
2. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., addebita alla sentenza gravata la violazione del combinato disposto degli artt. 115, 245, 421 e 437 cod. proc. civ.. Il ricorrente premette di avere sempre sostenuto che in relazione ai visti richiesti da sportivi il suo incarico era limitato alla «spunta» dei documenti, ossia alla verifica meramente numerica e quantitativa, mentre l’esame della genuinità della documentazione era riservato ad altro personale. Aggiunge che dette circostanze, decisive ai fini di causa, non erano state contestate in modo specifico dalla difesa del Ministero e, pertanto, il giudice del merito avrebbe dovuto o ritenerle escluse dal thema probandum per effetto del principio di non contestazione o, in alternativa, istruire la causa sul punto mediante escussione dei testi. Addebita alla Corte capitolina di avere erroneamente ritenuto che il ricorrente avesse rinunciato alle istanze istruttorie e deduce che, in realtà, all’udienza del 6 novembre 2019 i difensori, nel chiedere la decisione, avevano richiamato i principi di non contestazione e dell’onere della prova e, in subordine, insistito per l’esame dei testimoni. Poiché il Tribunale aveva escluso che le circostanze allegate dallo Zuccaro non fossero state contestate, la causa non poteva essere decisa a prescindere dal mezzo istruttorio richiesto, perché le dichiarazioni raccolte nel corso del procedimento disciplinare erano state rese da soggetti non attendibili.
Si trattava, infatti, di coloro ai quali la responsabilità dell’esame delle pratiche, secondo la diversa ricostruzione del ricorrente, doveva essere attribuita.
3. Con il terzo motivo è denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 166 del d.P.R. n. 18/1967, in combinato disposto con la legge n. 604/1966. Il ricorrente premette, in punto di fatto, che le irregolarità colpose avevano riguardato solo 20 delle 1312 pratiche istruite e addebita al giudice del merito di non avere tenuto conto, nel valutare la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento, di tutte le circostanze oggettive e soggettive. Sostiene, in particolare, che dovevano essere valorizzate l’assenza di precedenti disciplinari, la pluralità dei compiti espletati senza mai ricevere censure, la circostanza che agli altri dipendenti rimasti coinvolti nella vicenda fossero state inflitte solo sanzioni conservative.
4. Il primo motivo è infondato.
Necessaria premessa all’esame della censura è la ricostruzione del quadro normativo che viene in rilievo, speciale rispetto alla disciplina dell’impiego pubblico contrattualizzato, in ragione della peculiare natura dei rapporti di lavoro che, sebbene attribuiscano la qualità di datore al Ministero degli Affari Esteri e non ai suoi organi periferici (Cass. S.U. n. 15536/2016; Cass. S.U. n. 5872/2012 e la giurisprudenza ivi richiamata), vengono instaurati, nel rispetto del contingente previsto per legge, in base alle esigenze di servizio delle rappresentanze diplomatiche, degli uffici consolari e degli istituti di cultura, i quali, ai sensi dell’art. 152 del d.P.R. n. 18/1967, come riformulato dal d.lgs. n. 103/2000, procedono direttamente all’assunzione, previa autorizzazione dell’amministrazione centrale, nel rispetto dei requisiti e delle procedure previste dalla legge speciale.
Il d.lgs. n. 165/2001, nel dettare le norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ha ribadito detta specialità ed ha previsto, in tutte le versioni dell’art. 45 succedutesi nel tempo, che «le funzioni ed i relativi trattamenti economici accessori del personale non diplomatico del Ministero degli affari esteri per i servizi che si prestano all’estero presso le rappresentanze diplomatiche, gli uffici consolari e le istituzioni culturali e scolastiche, sono disciplinati, limitatamente al periodo di servizio ivi prestato, dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967 n. 18, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché dalle altre pertinenti normative di settore del Ministero degli affari esteri».
La specialità della disciplina è stata da tempo sottolineata da questa Corte (cfr. fra le tante più recenti Cass. n. 7531/2021 e la giurisprudenza ivi richiamata) la quale, valorizzando il richiamato comma 3 dell’originario art. 45 (comma 5 nella formulazione attuale) nonché l’analitica disciplina dettata dal d.P.R. n. 18/1967, ha evidenziato che risulta chiaro l’obiettivo del legislatore di regolare il rapporto di lavoro del personale del quale qui si discute in maniera autonoma rispetto a quello dei dipendenti stabilmente inseriti nei ruoli del Ministero, obiettivo giustificato «dalla circostanza che le funzioni svolte nell’ambito del servizio diplomatico dalla categoria del personale assunto a livello locale sono quelle proprie (ma indeterminate) delle “esigenze di servizio” della rappresentanza diplomatica interessata (o degli uffici ad essa equiparata)».
4.1. Premessa, quindi, la specialità della disciplina, occorre evidenziare che nella sua formulazione originaria l’art. 154 del d.P.R. n. 18/1967 quanto al regime dei contratti stipulati ai sensi degli artt. 152 e 155 dello stesso decreto, operava una differenziazione fondata sulla cittadinanza e prevedeva, al comma 1, che il rapporto instaurato con cittadini italiani sarebbe stato disciplinato «dalle disposizioni del I e del II capo del presente titolo, sempre che non osti la legge locale». Il regime delle assunzioni di persone non in possesso della cittadinanza italiana era, invece, fissato dal comma 3, che individuava nella legge locale la fonte regolatrice del rapporto, aggiungendo, però, che «nelle materie in cui le disposizioni locali non stabiliscano o stabiliscano soltanto in modo manifestamente insufficiente, ivi compresi gli aumenti del carico di famiglia e quelli per anzianità di servizio, l’amministrazione può a suo giudizio e nei limiti che ritiene opportuni fare ricorso alle disposizioni del capo II in quanto applicabili o conformarsi a quanto praticato da altre rappresentanze diplomatiche e uffici consolari del luogo».
4.2. Con l’art. 4 della legge n. 266/1999 il legislatore ha delegato il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi in materia di personale assunto localmente dalle rappresentanze diplomatiche, dagli uffici consolari e dagli istituti italiani di cultura all’estero ed ha inserito fra i criteri direttivi, oltre a quello della semplificazione e della omogeneizzazione dei differenti regimi, la necessaria «stipulazione dei contratti sulla base degli ordinamenti degli Stati di accreditamento, assicurando comunque uno standard minimo di trattamento nei casi e per le materie in cui le previsioni della normativa locale si rivelino inesistenti o insufficienti, e in particolare per quanto riguarda la maternità, l’orario di lavoro, l’assistenza sanitaria e per infortuni sul lavoro, i carichi di famiglia».
La delega è stata esercitata con il d.lgs. n. 103/2000 che ha riscritto l’intero Titolo VI del d.P.R. n. 18/1967 e, nel modificare l’art. 154 relativo al regime dei contratti, ha eliminato ogni diversificazione fondata sulla cittadinanza ed ha previsto come criterio generale quello della applicazione della legge locale, fatte salve le tutele minime assicurate dallo stesso decreto, come riformulato a seguito dell’intervento normativo.
Il nuovo testo della disposizione, quindi, ottemperando alle indicazioni date dal legislatore delegante, assegna prevalenza nel rapporto fra le fonti alla legge locale, che trova applicazione sia nelle materie nelle quali nulla prevede il d.P.R., sia qualora riservi al lavoratore un trattamento di miglior favore rispetto a quello riconosciuto dalla disciplina speciale dettata dal legislatore italiano (art. 154: Per quanto non espressamente disciplinato dal presente titolo, i contratti sono regolati dalla legge locale… Le rappresentanze diplomatiche, o, in assenza, gli uffici consolari di prima classe accertano, sentite anche le rappresentanze sindacali in sede, la compatibilità del contratto con le norme locali a carattere imperativo e assicurano in ogni caso l’applicazione delle norme locali più favorevoli al lavoratore in luogo delle disposizioni del presente titolo).
4.3. Il legislatore delegato ha espressamente disciplinato l’esercizio del potere disciplinare agli artt. 164 e 166 del richiamato d.P.R. e, per quel che qui rileva, all’art. 164, commi 3 e 4, dopo aver previsto che «Nei casi di infrazioni più gravi si procede alla risoluzione del rapporto di impiego a norma dell’art. 166» ha aggiunto che «l’irrogazione delle sanzioni disciplinari è preceduta dalla contestazione scritta dell’addebito. All’impiegato a contratto è concesso un termine di 10 giorni per fornire le proprie giustificazioni.».
4.4. Successivamente, con l’art. 1 della legge n. 62 del 2021, non applicabile alla fattispecie ratione temporis, è stato riscritto il quarto comma dell’art. 164 ed il legislatore, oltre a ribadire la necessità della previa contestazione e la tutela del diritto di difesa del dipendente incolpato, ha previsto una procedimentalizzazione non dissimile, quanto ai termini, da quella indicata dall’art. 55 bis del d.lgs. n. 165/2001, rispetto alla quale, peraltro, permane una significativa differenziazione, perché il potere disciplinare è attribuito per tutte le sanzioni al responsabile della struttura di assegnazione del dipendente.
4.5. Destituita di fondamento è, dunque, la prospettazione del ricorrente secondo cui, nel silenzio del legislatore, dovrebbero trovare applicazione i termini perentori previsti dal d.lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile ratione temporis.
Detta applicazione è impedita dalla specialità della disciplina dettata dal d.P.R. n. 18/1967, nonché dal sistema delle fonti dallo stesso delineato, sistema che anche l’ultimo intervento legislativo ha ribadito, perché l’intervento additivo operato sull’art. 164 presuppone l’implicita affermazione dell’inapplicabilità delle norme generali sull’impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
4.6. Infondata è anche la pretesa, sulla quale il ricorrente ha argomentato nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., di applicazione alla fattispecie dei termini perentori fissati dall’art. 164 d.P.R. n. 18/1967, come riformulato dalla citata legge n. 62 del 2021.
Il procedimento disciplinare del quale qui si discute, infatti, è stato avviato con la contestazione del 24/26 aprile 2017, sicché la disciplina applicabile non poteva che essere quella vigente all’epoca dell’attivazione del procedimento stesso, nel rispetto del principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, in difetto di normativa transitoria, la regola del tempus regit actum va applicata in relazione al momento in cui la notizia perviene all’organo deputato all’esercizio del potere disciplinare (cfr. Cass. n. 11985/2016).
4.7. Né si può sostenere che la mancata previsione di un termine perentorio per la contestazione dell’addebito inciderebbe su diritti inderogabili del lavoratore e renderebbe la disciplina speciale, applicabile ratione temporis, contrastante con i principi generali del diritto del lavoro.
Basterà rammentare al riguardo che dottrina e giurisprudenza, nell’interpretare l’art. 7 della legge n. 300/1970, che parimenti non prevede termini perentori per l’esercizio del potere disciplinare, hanno desunto il principio della tempestività della contestazione dalla necessità di assicurare una tutela effettiva del contraddittorio e, quindi, di impedire che il trascorrere del tempo possa incidere sul diritto del lavoratore di difendersi, rendendo difficoltosa la possibilità di apprestare adeguate giustificazioni. Si è anche fatto leva, in quel contesto caratterizzato dalla discrezionalità dell’esercizio del potere disciplinare, sull’affidamento del lavoratore, che dal ritardo nella contestazione potrebbe essere indotto a ritenere che il datore abbia rinunciato all’esercizio del potere o abbia ritenuto di dover tollerare la condotta contraria agli obblighi scaturenti dal rapporto.
Il principio di tempestività, quindi, è connaturato alla procedimentalizzazione dell’esercizio del potere disciplinare ed alla prevista necessità della contestazione, sicché esso è assicurato anche dalla disciplina speciale applicabile alla fattispecie, nel testo vigente ratione temporis, che prevede la previa contestazione dell’addebito.
Peraltro, una volta esclusa l’applicabilità di termini fissati in via generale dal legislatore, la nozione di immediatezza che rileva è quella stessa, valevole per l’impiego privato, di «immediatezza relativa», che impone una valutazione caso per caso, da esprimere in relazione alla condotta datoriale complessivamente intesa ed ai contrapposti interessi delle parti, tenendo conto, in particolare, dell’estensione temporale del ritardo, delle sue ragioni, del tempo necessario per l’accertamento dei fatti, della complessità della struttura organizzativa del datore, della natura dei fatti contestati, della compromissione del diritto di difesa.
Non è questa, peraltro, l’immediatezza della quale il ricorrente ha lamentato la violazione, sicché si impone il rigetto del primo motivo di ricorso.
5. Il secondo motivo è inammissibile perché, da un lato, non coglie pienamente la ratio decidendi della sentenza impugnata, dall’altro svolge considerazioni che si risolvono in una critica all’accertamento del fatto, riservato al giudice del merito.
Nello storico di lite si è evidenziato che la Corte territoriale, quanto alla responsabilità dello Z., ha fondato la pronuncia su una pluralità di argomenti e ha richiamato le dichiarazioni acquisite nel corso del procedimento disciplinare nonché le significative ammissioni fatte dal ricorrente per giungere a ritenere provato che l’istruttoria delle pratiche relative alle richieste di visto per motivi sportivi fosse stata affidata al reclamante, pur in assenza di un ordine scritto. Ha rilevato che dette conclusioni trovavano riscontro nella documentazione in atti il cui esame aveva consentito di accertare che le pratiche recavano tutte «specifica indicazione dell’odierno reclamante relativa proprio all’esito dell’istruttoria della pratica».
Solo ad abundantiam la sentenza impugnata aggiunge che la richiesta di prova testimoniale formulata dal ricorrente era stata oggetto di rinuncia nella fase sommaria ed anche nel successivo giudizio di opposizione.
Il motivo, pertanto, nella parte in cui censura la valutazione espressa dal giudice del reclamo sul comportamento processuale tenuto dalla parte, non è sorretto dal necessario interesse all’impugnazione, perché l’eventuale fondatezza del rilievo non porterebbe alla cassazione della pronuncia gravata, in quanto fondata comunque sull’accertamento compiuto sulle risultanze probatorie acquisite (cfr. fra le tante Cass. n. 18429/2022 e Cass. n. 8755/2018).
5.1. Quanto alla valutazione espressa dalla Corte territoriale, va ricordato che «spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni» (Cass. n. 16499/2009 e negli stessi termini, fra le tante, Cass. n. 13485/2014 e Cass. n. 16467/2017).
Detto orientamento, formatosi nella vigenza dell’art. 360 n. 5 cod. proc. nel testo antecedente alla riformulazione disposta dal d.l. n. 83/2012, a maggior ragione è applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso decisioni pubblicate dopo l’entrata in vigore della nuova normativa, perché il vizio è oggi limitato al solo omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, da non confondere con l’omessa valutazione di elementi istruttori (Cass. S.U. n. 8053/2014 e negli stessi termini, fra le tante, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018, Cass. S.U. n. 34476/2019).
All’esito della riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (tra l’altro neppure denunciabile nella fattispecie per il divieto posto dall’art. 348 ter, comma 5, cod. proc. civ.) «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante» (Cass. n. 11892/2016 e negli stessi termini fra le tante Cass. n. 23153/2018, Cass. n. 23675/2022, Cass. n. 30155/2022).
Il motivo è, dunque, inammissibile.
6. Alle medesime conclusioni si perviene quanto al terzo motivo che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione dell’art. 166 del d.P.R. n. 18/1967, in realtà finisce anch’esso per censurare la valutazione di merito espressa dalla Corte territoriale sulla gravità dell’inadempimento e sulla sussistenza del necessario requisito di proporzionalità fra addebito contestato e sanzione irrogata.
La Corte territoriale, in particolare, ha ritenuto che l’assoluta assenza di attività istruttoria, la superficialità delle verifiche e del controllo, la negligenza dimostrata nell’espletamento del servizio, l’induzione in errore dei responsabili della decisione finale, integrassero le fattispecie (incapacità professionale e persistente insufficiente rendimento ovvero qualsiasi fatto grave che dimostri piena incapacità ad adempire adeguatamente agli obblighi di servizio) in relazione alle quali il legislatore ha previsto, all’art. 166, lett. a) e d), del d.P.R. n. 18/1967 la sanzione del licenziamento con preavviso.
È ius receptum l’orientamento secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017). È stato altresì precisato che nella deduzione del vizio di violazione di legge è onere del ricorrente indicare non solo le norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, svolgere specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 17570/2020; Cass. n. 16700/2020).
Il motivo non contesta l’interpretazione dell’art. 166 del d.P.R. n. 18/1967 che si legge nella sentenza impugnata e censura solo la valutazione di merito espressa dalla Corte territoriale sulla gravità della condotta e sull’incapacità professionale dimostrata dallo Z., tale da ledere il vincolo fiduciario e da non consentire la prosecuzione del rapporto. Il ricorso sollecita, quindi, un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie, non consentito nel giudizio di legittimità.
7. In via conclusiva si impongono il rigetto del ricorso e la conferma della sentenza impugnata, della quale va solo integrata la motivazione, ex art. 384, comma 4, cod. proc. civ., quanto al dedotto vizio procedimentale.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
8. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.