Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 febbraio 2023, n. 4254
Lavoro, Accredito di contributi figurativi, Verbale di conciliazione giudiziale, Autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello di lavoro, Rigetto
Fatti di causa
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 5105 del 2019, ha rigettato l’impugnazione proposta da F.F. nei confronti dell’INPS avverso la sentenza di primo grado con la quale era stata rigettata la domanda dello stesso tesa ad ottenere la condanna dell’INPS all’accredito di contributi figurativi per il periodo compreso tra il 1° agosto 2010 ed il 14 dicembre 2011.
Il F. aveva affermato di aver ottenuto, con tre diverse sentenze, l’accertamento, con il connesso diritto alla regolarizzazione contributiva, relativo alla sussistenza di un rapporto di lavoro intercorso con la società E. s.p.a. per il periodo compreso tra il 23 giugno 1999 ed il 31 luglio 2010 e la società aveva in effetti provveduto al relativo versamento.
Quanto al periodo successivo, proposto un ulteriore giudizio per ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate dal mese di agosto 2010 al 14 dicembre 2011, le parti avevano sottoscritto un verbale di conciliazione a seguito del quale E. s.p.a. aveva riconosciuto di dovere la somma lorda di E. 109.600, comprensiva anche del t.f.r.
Il lavoratore aveva quindi proposto domanda all’INPS al fine di ottenere l’accredito di contribuzione figurativa, a proprio dire, connessa alla stipula dell’accordo transattivo.
Ad avviso della Corte d’appello, affermata la legittimazione passiva dell’INPS, la pretesa del ricorrente era stata correttamente disattesa dal primo giudice ostandovi i principi più volte espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di estraneità della transazione intervenuta tra le parti del rapporto di lavoro rispetto al rapporto contributivo derivante dalla legge. Inoltre, la Corte territoriale ha rilevato che le ipotesi di contribuzione figurativa si riferiscono di regola a casi in cui è la legge ad individuare esplicitamente l’obbligo di riconoscere l’accredito seppure l’attività di lavoro non sia stata eseguita. Peraltro, dalla mera rinunzia del lavoratore all’accertamento sulla sussistenza del rapporto di lavoro a seguito della corresponsione di una somma di danaro non poteva trarsi argomento Avverso tale sentenza ricorre per cassazione F.F. sulla base di un unico motivo variamente articolato.
Resiste l’INPS con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il motivo di ricorso, senza una ordinata enunciazione, si deducono più profili: 1) la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in materia di interpretazione del contratto in quanto la Corte territoriale non aveva tenuto conto della comune intenzione manifestata dalle parti in seno al verbale di conciliazione giudiziale n. 872/2012; 2) l’omesso esame degli esiti della sentenza n. 4936 del 2004 della Corte d’appello di Napoli oltre che del ricorso n. r. g. 3697/2012 poi conciliato con il verbale n. 878/12, dai quali si sarebbe dovuto evincere che l’oggetto del giudizio era relativo esclusivamente al diritto alle retribuzioni maturate dal primo agosto 2010 in virtù di un rapporto di lavoro già oggetto di accertamento giudiziario; 3) ai sensi dell’art. 360, primo comma n.3), c.p.c. violazione dell’art. 12 l. n. 153 del 1969 perché non era stata individuata la retribuzione imponibile nelle somme percepite dal lavoratore con la predetta transazione, posto che l’esistenza del rapporto di lavoro era stata accertata dai precedenti giudicati; 4) violazione degli artt. 2116 c.c. e 27 r.d.l n. 636/1939 e l. n. 218/1952, là dove la sentenza impugnata aveva escluso il diritto del ricorrente ad agire direttamente nei confronti dell’INPS per l’accredito contributivo generato dai pregressi giudizi sulla sussistenza del rapporto di lavoro nel periodo interessato.
I motivi, tutti connessi dalla affermata errata interpretazione dell’accordo transattivo di cui al verbale giudiziario n. 872 del 2012, e per queto da trattare congiuntamente sono ammissibili, contrariamente a quanto eccepito dall’INPS.
In particolare, il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata in ragione del fatto che la Corte territoriale non avrebbe compreso, errando nell’interpretazione dell’atto, che il verbale di conciliazione in questione non aveva ad oggetto la soluzione transattiva sulla esistenza di un rapporto di lavoro ma solo sulla pretesa retributiva insoddisfatta azionata dal medesimo lavoratore; tale errore avrebbe determinato l’ingiustificata esclusione del diritto all’accredito di quella che continua ad invocare come contribuzione figurativa. Il verbale di conciliazione, oltre ad essere riportato per ampi stralci, è stato allegato al ricorso per cassazione per cui risulta rispettato il principio di autosufficienza del ricorso (vd. Cass. n. 12481 del 19/04/2022), ex art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., che è compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati.
I motivi sono tuttavia infondati. La sentenza impugnata non ha violato alcuna delle disposizioni invocate alla luce del principio dell’autonomia tra il rapporto contributivo ed il rapporto di lavoro, posto che questa Corte di legittimità ha avuto modo di chiarire (Cass. nn. 2164 e 6722 del 2021) che in caso di omesso versamento di contributi da parte del datore di lavoro, l’ordinamento non prevede un’azione dell’assicurato volta a condannare l’ente previdenziale alla regolarizzazione della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, residuando unicamente in suo favore la facoltà di chiedere all’Inps la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 della legge n. 1338 del 1962 ed il rimedio risarcitorio di cui all’art. 2116 c.c.
La peculiarità della questione di diritto che la parte ricorrente continua ad invocare, ed è poco rilevante il contenuto specifico del verbale di conciliazione, è quella fondata sulla tesi che dall’accordo transattivo raggiunto con la parte datoriale tragga origine un diritto alla contribuzione figurativa.
Questa tesi, la medesima correttamente confutata dalla sentenza impugnata, non ha fondamento giuridico. La contribuzione definita figurativa, come si evince dalla stessa definizione, si differenzia da quella obbligatoria in quanto non solo prescinde dall’effettivo inverarsi dei fatti dai quali sorge l’obbligo di versamento ma è addirittura logicamente incompatibile con i presupposti della contribuzione obbligatoria.
La contribuzione figurativa si risolve in una copertura assicurativa che l’ordinamento riconosce a carico del sistema previdenziale in ipotesi in cui l’attività di lavoro non viene espletata ma l’ordinamento ritiene doveroso l’intervento della finanza pubblica per tenere indenne il lavoratore dal pregiudizio subito, per cui è la legge che deve esplicitamente istituire tale forma di sicurezza sociale.
In altri termini, si tratta di un accreditamento fittizio dei contributi dovuti per periodi in cui, indipendentemente dalla volontà del lavoratore, la prestazione che lo stesso dovrebbe rendere rimane sospesa e quindi non può funzionare il meccanismo del versamento da parte del soggetto ordinariamente obbligato.
Si tratta di ipotesi in tal senso da qualificare come eccezionali rispetto allo schema ordinario della contribuzione obbligatoria, nel tempo arricchitesi, che vanno dai periodi di malattia o infortunio del lavoratore, al servizio militare ed equiparati, alla maternità, ai periodi di persecuzione politica, antifascista e razziale, ai periodi di disoccupazione, aspettativa per cariche sindacali o per l’esercizio di funzioni pubbliche elettive ed ad un vasto ventaglio di ipotesi connesse all’intervento dei cd. ammortizzatori sociali.
L’accredito figurativo, peraltro, non perde la propria natura anche se la legge può prevedere che avvenga d’ufficio o su domanda dell’interessato.
La domanda del ricorrente, ancora, non potrebbe essere accolta neanche adottando la prospettazione fatta propria dal Procuratore generale nelle proprie conclusioni. Si è infatti ricordata la giurisprudenza di questa Corte di cassazione (Cass. n. 15411 del 2020) relativa alla assoggettabilità a contribuzione obbligatoria delle poste contenute nell’accordo transattivo ai sensi dell’art. 12 l. n. 153 del 1969 che è legata alla natura retributiva delle stesse e non all’accertamento del rapporto di lavoro in sé considerato.
Tale giurisprudenza, in verità, non pare invocabile al caso di specie in quanto, per l’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello di lavoro di cui si è sopra detto, il disposto dell’art. 12 l. n. 153 del 1969 disciplina l’obbligazione contributiva, che lega il datore di lavoro all’INPS, e non fonda alcun diritto del lavoratore nei riguardi dell’INPS stesso.
In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.