Il recesso per superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro intimato al dipendente portatore di handicap computando anche le assenze direttamente collegate alla disabilità è discriminatorio e, perciò, nullo.
Nota a Trib. Parma 9 gennaio 2023, n. 1
Sonia Gioia
In materia di discriminazioni sul luogo di lavoro, la normativa pattizia che, ai fini del computo del periodo di comporto, ometta di distinguere tra le assenze dovute a malattia e quelle connesse alla patologia correlata alla disabilità, integra una violazione indiretta del principio di parità di trattamento basata sull’handicap, sicché il recesso intimato dall’imprenditore per superamento del termine massimo di conservazione del posto di lavoro, calcolato sommando anche i giorni di malattia legati alla condizione di invalidità, è nullo ai sensi dell’art. 15, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori), con conseguente applicazione della tutela reale di cui all’art. 18, co. 1-3, Stat. Lav.
Lo ha stabilito il Tribunale di Parma (9 gennaio 2023, n. 1, difforme da Trib. Parma (ord.) 17 agosto 2018) in relazione ad una fattispecie concernente la legittimità del licenziamento irrogato ad una dipendente, portatrice di handicap, per superamento del periodo di comporto, nel cui computo la società datrice aveva incluso anche i periodi di assenza riconducibili alla condizione di disabilità.
In particolare, la lavoratrice, assunta in categoria protetta (ex L. 12 marzo 1999, n. 68, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”) con mansioni di commessa addetta alle vendite, sosteneva che l’applicazione nei suoi confronti della normativa sul comporto prevista dal contratto collettivo applicato dall’azienda (nello specifico, art. 46 Federpanificatori, secondo cui il dipendente assente per malattia o infortunio non subìto sul luogo di impiego ha diritto alla conservazione del posto di lavoro “per un periodo massimo di 180 giorni, anche in caso di diverse malattie, nei 12 mesi precedenti”) rappresentava una violazione indiretta del principio di parità di trattamento, dal momento che un conteggio del periodo di comporto effettuato in termini analoghi agli altri dipendenti e tale da includere anche le assenze riconducibili all’invalidità comportava di fatto una situazione di svantaggio per i dipendenti disabili in violazione delle disposizioni comunitarie e nazionali.
Al riguardo, il giudice ha osservato che “l’assunto della assoluta equiparabilità della condizione del lavoratore invalido con quella del lavoratore non disabile ma affetto da malattia e, quindi, della possibilità di applicare ai primi la medesima – indistinta – disciplina in materia di comporto, è, con tutta evidenza, erroneo” in quanto, così operando, si regolano nel medesimo modo due situazioni “radicalmente differenti”, violando il principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2, Cost.) e, prima ancora, dando luogo ad una discriminazione indiretta (ex artt. 2 lett. b), Dir. 2000/78/CE, recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro”, e 2, co. 1, lett. b) D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuativo della citata Direttiva) (in questo senso, v. anche App. Milano 1 dicembre 2022, in q. sito con nota di S. GIOIA; Trib. Milano (ord.) 2 maggio 2022, annotata in q. sito da S. GIOIA).
Ciò, sul presupposto che il dipendente con handicap è portatore di uno specifico fattore di rischio che ha quale ricaduta più tipica, connaturata alla condizione stessa di disabilità, quella di determinare la necessità sia di assentarsi più spesso per malattia che di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche e/o periodiche (Trib. Milano n. 4139/2019; Trib. Milano (ord.) 6 aprile 2018).
Tuttavia, la malattia del prestatore con invalidità non può “sempre ed aprioristicamente essere trattata in maniera diversa da quelle del lavoratore non disabile”, per cui non sempre il licenziamento per superamento del comporto costituisce un’illegittima disparità di trattamento in quanto, da un lato, il prestatore invalido “non è di per sé necessariamente un lavoratore malato, affetto, cioè, da una patologia che imponga assenze ‘per malattia’” (si pensi ai disabili non vedenti, non udenti, focomelici ecc.) e, dell’altro, vi sono lavoratori non portatori di handicap, colpiti da malattie croniche o gravi, che proprio a causa di tali patologie, sono costretti ad assentarsi per periodi più o meno lunghi (ad esempio, i malati oncologici, diabetici, soggetti che soffrono di emicrania o cefalea).
Ed è per tale ragione che taluni contratti collettivi prevedono che “la gravità della patologia o altre caratteristiche della malattia consentano un comporto prolungato e, dunque, distinguono la durata del comporto a seconda della gravità della patologia”.
Pertanto, il discrimine ipotizzabile, ai fini della durata del comporto, attiene non allo status di disabilità ma alla tipologia di malattia, per cui per accertare il carattere discriminatorio del periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva nei confronti del dipendente con handicap va verificato il nesso di causalità degli eventi morbosi con lo stato di disabilità (Trib. Lodi n. 19/2022, in q. sito con nota di V. DI BELLO).
“Occorre, cioè, valutare se, in concreto, quando si verifichi una assenza per malattia, tenuto conto della natura della malattia in relazione alla natura della disabilità, il licenziamento per superamento del comporto comporti una discriminazione del lavoratore”.
Sulla base di tali considerazioni, il giudice, tenuto conto del “limitato” periodo di comporto previsto dal CCNL Federpanificatori e della riconducibilità delle assenze alla condizione di invalidità della dipendente (come emerso da Ctu espletata), ha ritenuto che la disciplina pattizia, nel caso di specie, sia discriminante per la lavoratrice e, perciò, ha dichiarato la nullità del recesso per contrasto all’art. 15 Stat. Lav., con conseguente reintegrazione della dipendente e condanna della società datrice al risarcimento del danno.