Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 febbraio 2023, n. 4253

Lavoro, Accertamento negativo degli obblighi contributivi, Erronea individuazione del contratto collettivo preso a base dell’imponibile contributivo, CCNL cooperative sociali, Valenza probatoria dei modelli UNILAV, Rigetto

 

Fatti di causa

 

Con sentenza del 7 giugno 2017, la Corte d’appello di Torino ha rigettato l’impugnazione proposta da P.L.G., in proprio e quale legale rappresentante dell’ A.S.C.S., nei confronti dell’INPS avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dallo stesso G., anche nella spiegata qualità, tesa ad ottenere, nei confronti della Direzione territoriale del lavoro e dell’INPS, l’accertamento negativo degli obblighi contributivi contestati attraverso un verbale ispettivo congiunto; tale verbale aveva contestato l’erronea individuazione del contratto collettivo preso a base dell’imponibile contributivo e la illegittima applicazione alla posizione lavorativa di una lavoratrice degli sgravi previsti dall’art. 18 l. n. 97 del 1994, in favore delle ditte che assumevano coltivatori diretti residenti ed operanti in comuni montani.

La Corte territoriale, dato atto che le domande originariamente proposte anche nei riguardi della Direzione territoriale del lavoro erano state giudicate inammissibili con sentenza parziale di estromissione della DTL, ha osservato che la contestazione relativa all’inosservanza degli obblighi contributivi, in ragione degli inquadramenti operati in sede ispettiva, era derivata dalle dichiarazioni, non più ritrattabili, rese dalla Cooperativa al Centro per l’impiego e dalla individuazione, quale parametro utile ai fini del minimale contributivo, del CCNL Cooperative Sociali in luogo del CCNL UNCI e dalla circostanza che le attività svolte dai lavoratori avevano trovato piena conferma nelle dichiarazioni testimoniali dell’ispettore dell’INPS che aveva effettuato l’accertamento; dunque, non assumeva rilevanza il dato della mancata acquisizione in giudizio delle stesse dichiarazioni, anche alla luce del valore di atto pubblico che fa fede fino a querela di falso attribuito al verbale ispettivo, né poteva impedire tale effetto il possibile mutamento delle mansioni originarie. Inoltre, seppure non fosse messo in discussione che la lavoratrice per cui era stato applicato lo sgravio previsto dall’art. 18, primo comma, n. 97 del 1994 avesse le caratteristiche richieste, essendo coltivatrice diretta residente in comune montano, non erano presenti le condizioni relative all’impresa, posto che, al fine della fruizione dello sgravio, sarebbe stato necessario che la stessa avesse tutte le sedi in comuni montani.

Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione P.L.G., in proprio e quale legale rappresentante della C.S.A. sulla base di tre motivi successivamente illustrate da memoria.

L’INPS resiste con controricorso.

Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020 n. 176.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. in materia di ripartizione dell’onere probatorio. Nel calcolare le differenze imponibili spettanti ai soci lavoratori in base al CCNL cooperative sociali, ritenuto più rappresentativo, gli ispettori avevano attribuito agli stessi lavoratori i nuovi livelli di inquadramento contrattuale indicati nell’allegato H del verbale ispettivo e previsti nel CCNL Cooperative Sociali.

Sostiene la ricorrente che per molti soci lavoratori detti inquadramenti non coinciderebbero con quelli ad essi attribuiti in base al CCNL UNCI, applicato dalla cooperativa, ed alle mansioni effettivamente svolte, come avrebbe dimostrato la prova testimoniale espletata in primo grado. Inoltre, l’ispettore dell’INPS, S.S., aveva dichiarato che i nuovi inquadramenti erano stati fatti sulla base delle comunicazioni UNILAV, ossia le comunicazioni di assunzione al Centro per l’Impiego, ma tali dichiarazioni non erano mai state prodotte in giudizio, come rilevato tempestivamente dalla ricorrente. Peraltro, le comunicazioni in parola sarebbero inidonee allo scopo in quanto funzionali a scopi meramente statistici, consistenti in descrizioni generiche.

Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2735 cod. civ. In particolare, chiarita la valenza probatoria dei modelli UNILAV, la parte ricorrente spiega perché a proprio avviso i dati in essi riportati non possano considerarsi ammissione non più ritrattabile da parte della cooperativa per la configurazione delle mansioni dei lavoratori.

Le limitate qualifiche indicate dall’ISTAT, che non coprono l’intero spettro delle mansioni a cui sono adibiti i soci lavoratori, avevano imposto alla cooperativa di procedere per analogia o somiglianza e questo dato di fatto impediva di poter riconoscere valore confessorio a tali dichiarazioni, le quali erano comunque rivolte a un terzo, il Centro per l’impiego, estraneo al giudizio.

Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 cod. civ., in quanto la Corte d’Appello ha ritenuto quanto accertato dagli ispettori facente fede fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 cod. civ., senza considerare che, fermo il principio, tale carattere si esaurisce in quanto indicato nei modelli UNILAV e riportato nel verbale ispettivo, non potendosi estendere al giudizio di accertamento delle effettive mansioni svolte.

Con il quarto motivo di ricorso, si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 legge n. 97/1994. In particolare, quanto all’assunzione di una lavoratrice, la ricorrente aveva fruito delle agevolazioni previste dall’art. 18 legge n. 97/1994 il quale prevede la possibilità per le ditte “aventi sedi ed operanti nei comuni montani” di assumere, senza oneri previdenziali a tempo parziale o in forma stagionale, coltivatori diretti residenti in comuni montani ed iscritti negli elenchi di categoria. La legge, espone la ricorrente, parla al plurale di “aventi sedi ed operanti in comuni montani”, a fronte di tale formulazione, sarebbe non corretta la tesi adottata dalla Corte d’Appello di Torino secondo cui sarebbe richiesto congiuntamente che tutte le sedi legali ed operative si trovino in comuni montani. La ricorrente, ammettendo che la società ricorrente ha sede legale in Cuneo, via (…), che non è comune montano, rileva che la stessa Cooperativa ha sedi operative in comuni montani, come Caraglio, dove svolge la sua attività la socia lavoratrice interessata, essendo la società ricorrente una cooperativa sociale di tipo A, che presta attività di assistenza nelle varie strutture sul territorio.

Preliminarmente è opportuno precisare che questa Corte di legittimità (vd. Cass. n. 8446 del 2020) ha avuto modo di affermare che il principio del cosiddetto minimo retributivo imponibile, secondo cui l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (c.d. retribuzione virtuale di cui alla L. n. 389 del 1989) è applicabile anche alle società cooperative, i cui soci sono equiparati ai lavoratori subordinati ai fini previdenziali.

Nel caso di specie, è bene precisare, i motivi non tendono ad incrinare la parte della motivazione che ha dato conferma alla indicazione del c.c.n.l. individuato in sede ispettiva, diverso da quello in concreto applicato dalla società, ma la sola parte della decisione che ha proceduto ad accertare quale fosse il reale contenuto dei profili professionali appartenenti a ciascuno dei lavoratori, secondo quanto previsto dal detto c.c.n.l. per verificare il rispetto del detto minimale.

Ciò premesso, il primo motivo è inammissibile. Occorre premettere che la doglianza investe l’affermata violazione dell’art. 2697 cod. civ. e cioè della disposizione che regola il riparto dell’onere probatorio. Come è noto, la consolidata giurisprudenza di questa Corte di cassazione (Cass. n. 13395 del 29/05/2018) ha affermato che la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, il che neppure è dedotto nella specie.

Il motivo in esame invece indica la violazione dell’art. 2697 cod. civ. solo come conseguenza finale della affermata illegittimità della formazione del convincimento da parte del giudice di merito e non nell’unico senso in cui concretamente la disposizione stessa può essere violata, per come si è detto. Si assume l’inidoneità dei contenuti delle dichiarazioni rese all’atto dell’assunzione dei diversi dipendenti per giungere alla conferma delle contestazioni formulate in sede ispettiva, ma tale osservazione critica, oltre che non integrare i presupposti necessari ad impostare i tratti della presunta violazione dell’art. 2697 cod. civ, non evidenzia quale disposizione di legge l’attività di valutazione critica della Corte territoriale abbia violato.

Il secondo motivo è infondato. La Corte territoriale ha effettuato, nell’espletamento dei poteri allo stesso spettanti al fine di accertare i fatti oggetto della contestazione ispettiva ed in primo luogo dello scorretto inquadramento dei lavoratori rispetto al contratto collettivo nazionale di categoria, inteso come parametro dall’art. 1 l. n. 389 del 1989, una legittima comparazione degli elementi istruttori acquisiti. In tale contesto, al contenuto delle dichiarazioni dirette al Centro dell’impiego non sono state attribuite valenze confessorie, nel senso previsto dall’art. 2735 cod. civ., ma quelle attribuibili al documento acquisito attraverso l’attività d’indagine svolta dagli ispettori al fine di ricostruire la consistenza delle mansioni svolte da ciascun lavoratore al fine di confrontarlo con le astratte previsioni del c.c.n.l. Cooperative sociali chiaramente diverso da quello in concreto applicato.

Dunque, si tratta di mero indizio, valutato come tale nell’ambito dei poteri di libero apprezzamento attribuiti al giudice ed in tal senso va pure ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte di cassazione (Cass. n. 11898 del 18/06/2020; Cass. n. 29316 del 2008) la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo non ha valore di prova legale, come la confessione giudiziale o stragiudiziale fatta alla parte, e può, quindi, essere liberamente apprezzata dal giudice, a cui compete, con valutazione non sindacabile in cassazione se adeguatamente motivata, stabilire la portata della dichiarazione rispetto al diritto fatto valere in giudizio. Il terzo motivo è pure infondato. La violazione dell’art. 2700 c.p.c. (ndr art. 2700 c.c.) non è avvenuta in quanto la sentenza impugnata ha condotto un motivato procedimento di verifica ed accertamento senza attribuire fede pubblica a niente altro oltre che a quanto accertato direttamente dagli spettori.

Il quarto motivo è pure infondato.

Si denuncia l’erronea interpretazione dell’art. 18, primo comma, L. 31/01/1994, n. 97 (Nuove disposizioni per le zone montane come modificato dalla l. n. 513/ 1995, art. 1), secondo cui < Le imprese e i datori di lavoro aventi sedi ed operanti nei comuni montani, in deroga alle norme sul collocamento della mano d’opera, possono assumere senza oneri previdenziali, a tempo parziale, ai sensi dell’articolo 5 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, o in forma stagionale, coltivatori diretti residenti in comuni montani, iscritti allo SCAU>.

Inoltre, quanto al fatto rilevante in causa e non attinto da motivo di ricorso, la sentenza impugnata ha accertato che la ricorrente svolgeva la propria attività anche in Cuneo che non è comune montano.

La lettera della disposizione invocata è chiaramente nel senso che si richiede la doppia condizione della sede e della operatività del datore di lavoro all’interno del comune montano, al fine della fruizione del beneficio contributivo.

Quella suggerita dalla ricorrente è una interpretazione non consentita dal testo della disposizione e non ammessa – quale interpretazione estensiva – ai sensi del disposto dell’art. 14 disp. prel. cod.civ.

Infatti, il criterio discrezionalmente utilizzato dal legislatore è quello della stretta correlazione tra fruitore del beneficio e territorio montano e tale stretta correlazione non sussiste nel caso in cui si assegni valore all’attività esercitata presso una sola sede, secondaria o meno non importa, dell’impresa, in territorio montano. In questo caso, come già osservato da questa Corte in materia analoga (Cass. 25295 del 2015), quella della selezione dei criteri per fruire di agevolazioni contributive è materia rimessa alla discrezionalità del legislatore e che per di più richiede un’interpretazione rigorosa perché i benefici contributivi – come quelli fiscali – solo per determinate categorie di soggetti costituiscono un’eccezione alla regola. Ogni disciplina derogatoria altera tendenzialmente il principio di eguaglianza ed è legittima solo in presenza di apprezzabili (dalla Corte costituzionale che opera il sindacato di costituzionalità) ragioni giustificatrici.

Il beneficio contributivo a favore di aziende prive dei presupposti rigorosi individuati dalla legge rischierebbe di configurarsi come aiuto di Stato precluso dalla disciplina comunitaria perché foriero di alterazione della concorrenza rispetto ad aziende di analoghe caratteristiche di altri paesi membri dell’Unione Europea.

In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidandole in E. 7655,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in E. 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 febbraio 2023, n. 4253
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