Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 febbraio 2023, n. 3437

Lavoro, Licenziamento collettivo, Esigenze tecnico-produttive, Licenziamenti limitati ai dipendenti dell’unità o settore, Specificazione nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della Legge n. 223/1991, Trasferimento di sede geografica dei lavoratori interessati dalla procedura, Regime sanzionatorio, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. Con sentenza n. 6724 depositata l’11.12.2019 la Corte di appello di Napoli (in conformità ad altre pronunce già assunte dalla stessa Corte territoriale) ha respinto il reclamo proposto da E.T. s.p.a. avverso la sentenza con cui il Tribunale della medesima sede aveva dichiarato illegittimo il licenziamento collettivo intimato a F.M.S. con lettera del 21.7.2017 e ne aveva ordinato la reintegra nel posto di lavoro, condannando l’azienda a risarcire i danni in misura pari alle retribuzioni percipiende dal recesso alla reintegra, con il limite delle 12 mensilità, in applicazione dell’art. 18, comma 4 della legge n. 300 del 1970.

2. La Corte distrettuale ha accertato l’illegittimità del licenziamento in considerazione della immotivata e irragionevole limitazione della platea dei dipendenti a talune sedi aziendali, anche a fronte di un progetto di ristrutturazione che ricomprendeva tutto il complesso aziendale e in assenza di allegazioni e prova circa la infungibilità (e dunque, la impossibilità di reimpiego in altri settori aziendali) del lavoratore; ha, infine, ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con riguardo al diverso regime sanzionatorio conseguente alla violazione dei criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, considerata l’assoluta differenza tra le due tipologie di recesso;

3. Per la cassazione di tale sentenza la società propone ricorso affidato a quattro motivi; resiste il lavoratore con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

4. Il Procuratore generale non ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di ricorso la società denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5 della legge n. 223 del 1991 e 41 Cost. (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3 cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato una lettura della normativa che escluda l’esigibilità della comparazione tra i dipendenti quando questa risulti oggettivamente incompatibile con le esigenze aziendali per ragioni geografiche, essendo collocate le diverse sedi operative della società a centinaia di chilometri l’una dall’altra e imponendo, la valutazione globale dell’azienda, conseguenze irrazionali quali i trasferimenti di decine di dipendenti a notevole distanza dalle rispettive sedi di assegnazione. La determinazione dell’ambito del licenziamento collettivo deve, invece, essere rimessa unicamente alla scelta del datore di lavoro ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, in virtù del fondamentale principio di libertà di iniziativa economica dettato dall’art. 41 Cost.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto che non potessero privilegiarsi, tra i vari criteri di scelta dei lavoratori, quelli delle esigenze tecnico-produttive a fronte delle esigenze, sottolineate dallo stesso giudice di merito, delle esigenze di rinnovamento delle strategie aziendali per mantenere competitività sul mercato, trattandosi dunque di una riduzione “mirata” a specifici profili tecnici e non certo di personale fungibile.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4, 5 e 7 della legge n. 300 del 1970 e degli artt. 4, 5 e 17 della legge n. 223 del 1991 (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente applicato la tutela reintegratoria posto che l’esubero del profilo di appartenenza del lavoratore sussisteva e, dunque, la violazione del criterio di scelta ha configurato un vizio meramente formale e non sostanziale. Nel caso di specie, non è stata lamentata la violazione dei criteri di scelta bensì questioni relative alla collocazione aziendale e ai profili delle mansioni, la cui violazione determina l’applicazione del comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Inoltre, la Corte territoriale non ha verificato, in concreto, che il lavoratore non fosse in esubero, limitandosi ad effettuare una valutazione in astratto.

4. La ricorrente denuncia, con il quarto motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, comma 3 della legge n. 223 del 1991, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, in contrasto con gli artt. 3, 24, 41 Cost. per violazione del principio di uguaglianza, di ragionevolezza e della libertà di iniziativa economica privata (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, cod.proc.civ.). Deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente respinto la questione di legittimità costituzionale concernente il diverso regime sanzionatorio riservato, in caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, ai licenziamenti collettivi (reintegrazione nel posto di lavoro) e ai licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo (risarcimento del danno), non sussistendo alcuna esigenza razionale di diversificare fattispecie che hanno il medesimo impatto sociale e che applicano i medesimi criteri di scelta.

5. Il ricorso non merita accoglimento; tutte le questioni illustrate con i suesposti motivi di ricorso sono già state esaminate e ritenute non fondate da decisioni di questa Corte rese in controversie concernenti la stessa vicenda (Cass. nn. 1242, 1243, 1244, 1245, 1379, 1380, 1381, 1382, 2390, 2711 del 2022): pertanto, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi, deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale e, al contempo, di rilevanza costituzionale, di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale affidata alla Corte di cassazione (vedi Cass., sez. un, 4 luglio 2003, n. 10615; 15 aprile 2003, n. 5994). Si rinvia, di conseguenza, alla motivazione dei precedenti richiamati, di cui si espongono in sintesi i punti essenziali, dai quali emerge chiaramente che non ricorrono gli estremi per rinviare la questione né alle Sezioni Unite né alla pubblica udienza (come richiesto in memoria da parte ricorrente).

6. Iniziando la disamina dal primo e dal secondo motivo del ricorso, che concernono le esigenze tecnico-produttive dedotte dalla società a base del licenziamento collettivo (e proseguendo, successivamente, con la valutazione dei motivi attinenti al regime sanzionatorio), va richiamato il consolidato orientamento di questa Corte, che ha già affermato, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, come – ferma la regola generale di cui al primo comma dell’art. 5, l. n. 223 del 1991, secondo cui “l’individuazione dei lavoratori da licenziare” deve avvenire avuto riguardo al “complesso aziendale” (cfr. Cass. n. 5373 del 2019) – la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore o sede territoriale ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, ma è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991 ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata (sin da Cass. n. 8474 del 2005 e, più di recente, Cass. nn. 203, 4678 e 21476 del 2015, Cass. n. 2429 e 22655 del 2012, Cass. n. 9711 del 2011). Invero, il datore di lavoro ben può circoscrivere ad una unità produttiva la platea dei lavoratori da licenziare ma deve indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (Cass. n. 4678 del 2015). Qualora, nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali (cfr. Cass. n. 4678 cit., Cass. n. 22178 del 2018, Cass. n. 12040 del 2021).

7. La delimitazione della platea dei lavoratori destinatari del provvedimento di messa in mobilità o di licenziamento è, peraltro, condizionata – come anche recentemente ribadito da questa Corte (cfr. Cass. n. 981 del 2020, Cass. n. 14800 del 2019) – agli elementi acquisiti in sede di esame congiunto, non potendo rappresentare l’effetto dell’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma dovendo essere giustificata dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione del personale adeguatamente esposte nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, onde consentire alle OO.SS. di verificare il nesso fra le ragioni che determinano l’esubero di personale e le unità lavorative che l’azienda intenda concretamente espellere (ex plurimis Cass. n. 32387 del 2019, Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 22825 del 2009; Cass. n. 880 del 2013).

8. Ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, infatti, è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991, ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata (sin da Cass. n. 8474 del 2005 e, più di recente, Cass. n. 15953 del 2021; Cass. nn. 203, 4678 e 21476 del 2015; Cass. nn. 2429 e 22655 del 2012; Cass. n. 9711 del 2011), ma anche che gli addetti prescelti non svolgessero mansioni fungibili con quelle di dipendenti assegnati ad altri reparti o sedi (cfr., tra le altre, Cass. n. 13783 del 2006; Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 15953 del 2021).

9. Nel caso di specie, la Corte territoriale, con accertamento insindacabile in questa sede di legittimità, ha rilevato che le ragioni tecnico-produttive che richiedevano la delimitazione territoriale della platea dei lavoratori da licenziare era “priva di ragionevolezza per due ordini di motivi”, in quanto aveva privato i singoli lavoratori della decisione di essere licenziati o piuttosto di essere trasferiti in altra sede e perché la lettera di apertura della procedura ex legge n. 223 del 1991 non conteneva criteri intellegibili in ordine alla necessità di circoscrivere i licenziamenti solamente in alcune sedi nonché alle specifiche professionalità dei dipendenti, risultando, dunque, contraddittoria la limitazione territoriale a fronte delle dedotte “ragioni strutturali conseguenti alla esigenza di rinnovamento delle strategie aziendali rese necessarie per rimanere competitivi sul mercato”.

10. La Corte territoriale, ritenendo – nel caso in esame – indispensabile per un effettivo controllo sindacale della decisione di mobilità anche la comunicazione, in sede di apertura della relativa procedura, delle specifiche condizioni in cui lavoravano gli addetti delle altre sedi, ragioni per cui non si era ritenuto di estendere la selezione pure agli addetti alle altre strutture che gestiva, ha rispettato i principi sopra enunciati della necessaria verifica della compatibilità della disciplina di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991 estesa anche alla chiusura di un insediamento produttivo, con i risultati in concreto perseguibili in relazione a tale chiusura.

11. In ordine, poi, alla questione, pure agitata nel ricorso, del trasferimento di sede geografica dei lavoratori interessati dalla procedura, si osserva che, per quanto innanzi precisato, non si è affatto escluso che le ragioni tecnico[1]organizzative possano condurre alla limitazione della platea dei licenziabili ad una determinata sede territoriale, potendo assumere rilievo anche il fatto, da accertarsi sulla base delle circostanze concrete, che il mantenimento in servizio dei dipendenti appartenenti all’unità soppressa esigerebbe il loro trasferimento in altra sede (cfr., da ultimo, Cass. n. 36451 del 2021); tuttavia è pur sempre indispensabile che il datore “indichi nella comunicazione prevista dall’art. 4, terzo comma, l. n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti” (ancora Cass. n. 12040/2021 cit.).

12. Pertanto, va ribadito il principio secondo cui, di per sé, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, non assume rilievo, ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo”, non contemplandosi, tra i parametri dell’art. 5, l. n. 223 del 1991, “la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo la regola legale all’esigenza di assicurare che i procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro” (v. Cass. n. 17177 del 2013; Cass. n. 32387 del 2019).

13. La sentenza impugnata non è neppure in contrasto con il principio per il quale, in tema di licenziamento collettivo, l’annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991 non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità dei lavoratori stessi (Cass. n. 13871 del 2019; Cass. n. 24558 del 2016), atteso che detto canone evidentemente opera laddove la platea dei lavoratori licenziabili sia stata correttamente limitata e, nell’ambito più ristretto così definito, i criteri di scelta adottati si assumano malamente applicati; detto principio non si attaglia, invece, alla fattispecie sottoposta all’attenzione del Collegio, laddove la limitazione della platea dei licenziabili, non estesa all’intero complesso aziendale, è stata ritenuta, a monte, illegittima.

14. Confermato il capo di sentenza che ha ritenuto illegittimo il licenziamento, possono essere esaminate le censure (di cui al terzo motivo di ricorso) concernenti il regime sanzionatorio: invero, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale debba riferirsi a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell’esigenza aziendale collegata all’appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina violazione dei criteri di scelta per la quale l’art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012, prevede l’applicazione del comma 4 dell’art. 18 novellato della l. n. 300 del 1970” (v. Cass. n. 18847 del 2016; Cass. n. 20502 del 2018).

15. Da tempo, infatti, questa Corte (Cass. n. 12095 del 2016; Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 2587 del 2018; Cass. n. 19010 del 2018) ha interpretato il comma 3 dell’art. 5 della l. n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, comma 46, l n. 92 del 2012, distinguendo il “caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12”, per il quale opera la tutela meramente indennitaria, dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”, per il quale si applica la tutela reintegratoria:

mentre la non corrispondenza della comunicazione al modello legale di cui al comma 9 dell’art. 4 della l. n. 223 del 1991 costituisce “violazione delle procedure”, il diverso “caso di violazione dei criteri di scelta” si ha non nell’ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive.

16. Del tutto coerentemente la Corte territoriale ha ritenuto ricorrente una violazione sostanziale (e non formale) rappresentata dall’applicazione di criteri di scelta ad una platea di licenziabili illegittimamente delimitata rispetto all’intero complesso aziendale, con conseguente applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012.

17. Parte ricorrente illustra, come autonomo motivo di censura, la circostanza che la Corte di Appello avrebbe erroneamente respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla società, concernente il diverso regime sanzionatorio riservato, in caso di violazione dei criteri di scelta, ai licenziamenti collettivi rispetto ai licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo, non ravvedendosi – secondo l’opinione dell’istante – “alcuna esigenza di diversità tra le due fattispecie”.

18. La doglianza non ha pregio.

18.1. E’ opportuno premettere che, secondo questa Corte (da ultimo v. Cass. n. 14666 del 2020, con la giurisprudenza ivi richiamata), non può costituire motivo di ricorso per cassazione la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale, in quanto è riservata al potere decisorio del giudice la facoltà di sollevare o meno la questione dinanzi alla Corte costituzionale, mentre alle parti non è attribuito alcun potere di iniziativa al riguardo, potendo, eventualmente, limitarsi a sollecitare il giudice a sollevare la questione di costituzionalità, che non solo non può costituire unico e diretto oggetto del giudizio, ma soprattutto può sempre essere proposta, o riproposta, dalla parte interessata, oltre che prospettata d’ufficio, in ogni stato e grado del processo; ne deriva l’inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione formulato come diretto esclusivamente a prospettare una questione di legittimità costituzionale oppure a censurare il concreto esercizio del potere che compete al Giudice in materia, perché non può essere configurato al riguardo un vizio del provvedimento impugnato idoneo a determinarne l’annullamento in sede di legittimità.

19. Ove la censura della società sia intesa nel senso che la disciplina di tutela, così come interpretata da questa Corte ed applicata dai giudici del merito, ponga dubbi di legittimità costituzionale, sollecitando in tal modo la rimessione alla Corte costituzionale, il Collegio reputa che la questione, per come prospettata, sia priva di fondamento, non solo per le ragioni ampiamente illustrate nelle decisioni già assunte sulla medesima vicenda (ben potendo, in sintesi, il legislatore prevedere un diverso regime sanzionatorio in caso di illegittimità di un licenziamento collettivo rispetto al caso di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo plurimo, rientrando tale scelta nell’ambito della sua potestà legislativa) ma anche in conseguenza della recente sentenza adottata dal giudice delle leggi in materia di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (Corte Cost. n. 125 del 2022), pronuncia che, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970 limitatamente alla parola «manifesta», determina l’applicazione (nell’ambito del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo) della sanzione reintegratoria anche nelle ipotesi che dapprima venivano escluse, dal diritto vivente, dall’ambito dell’insussistenza del fatto connotata di una particolare evidenza (come le ipotesi di violazione dei criteri di buona fede e correttezza nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee, cfr. Cass. n. 19732 del 25/07/2018), con conseguente parificazione – in caso di violazione dei criteri di scelta – del regime sanzionatorio previsto per i licenziamenti collettivi e per i licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo; pertanto, a seguito degli interventi della Corte Costituzionale in materia di regime sanzionatorio avverso l’illegittimità di un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo non appare sussistere più la diversificazione di disciplina, in punto di violazione dei criteri di scelta, che il ricorrente invoca (a fondamento della questione di legittimità costituzionale) tra licenziamento individuale e licenziamento collettivo.

20. In conclusione, il ricorso deve rigettarsi. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, secondo le tabelle di cui al d.m. n. 147 del 2022 avendo, entrambe le parti, svolto attività difensiva successivamente alla data di entrata in vigore delle nuove tariffe (23 ottobre 2022), con attribuzione al procuratore del controricorrente dichiaratosi antistatario.

21. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarsi a favore dell’avvocato dichiaratosi antistatario.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 febbraio 2023, n. 3437
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