Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 febbraio 2023, n. 4332
Lavoro, Licenziamento, Superamento del periodo di comporto, Determinazione del periodo di comporto per sommatoria, Infortunio sul lavoro equiparato alla malattia ai fini della tutela di cui all’art.2110 c.c., Accoglimento
Fatto
1. Con sentenza 30 maggio 2019, la Corte d’appello di Lecce, sez. dist. di Taranto ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato da D.S. s.r.l., con lettera 20 agosto 2015, a M.S. per superamento del periodo di comporto, condannando la società datrice alla reintegra della lavoratrice e alla corresponsione, nei suoi confronti, di un’indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto:
così riformando la sentenza di primo grado, che, in esito a rito Fornero, ne aveva invece rigettato l’impugnazione ritenendolo legittimo.
2. Incontestato, per coincidenza delle risultanze delle relazioni del C.t.u. e del C.t.p. della società datrice, il numero dei giorni di assenza (409) della lavoratrice nel triennio 1 ottobre 2012 – 20 agosto 2015, la Corte territoriale ha interpretato, contrariamente al Tribunale, l’art. 51 del CCNL 31 maggio 2011 per il personale dipendente da imprese di servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi, nel senso di non computabilità del periodo di malattia per infortunio sul lavoro (occorso alla dipendente il 16 marzo 2015 e comportante la protrazione della sua assenza dal 31 marzo 2015 al 25 giugno 2015), indipendentemente dall’accertamento di una responsabilità datoriale, così da non superare il periodo di comporto di dodici mesi.
3. Con atto notificato il 29 luglio 2019, la società ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, cui ha resistito la lavoratrice con controricorso.
4. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da l. conv. 176/20, nel senso del rigetto del ricorso.
5. Entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., per i seguenti vizi: a) difetto di indicazione delle conclusioni delle parti, in particolare delle proprie subordinate domande, anche in via di eccezione riconvenzionale, in caso di pronuncia di illegittimità del licenziamento, di restituzione delle somme percepite dalla lavoratrice e di detrazione dalle somme riconosciute eventualmente dovute alla lavoratrice dell’aliunde perceptum o comunque di riduzione per concorso di colpa e di omessa pronuncia su di esse; b) motivazione omessa o apparente, non avendo la Corte territoriale illustrato le ragioni di fatto né di diritto alla base della decisione, neppure avendo esplicitato il percorso logico – giuridico per approdarvi, non spiegando in particolare le ragioni di incompatibilità dell’obbligo datoriale, previsto dal CCNL, di corresponsione della retribuzione al lavoratore assente per infortunio fino alla guarigione con la sua computabilità ai fini del comporto, per il mero richiamo di un precedente arresto di legittimità, pure in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario di computabilità in esso se non cagionato per responsabilità datoriale.
2. Esso è parzialmente fondato.
3. Non sussiste, in relazione al profilo sub b), vizio di omessa o apparente motivazione (ricorrente qualora sia del tutto mancante, in assenza di indicazione degli elementi da cui il giudice abbia tratto il proprio convincimento ovvero, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante, nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consenta tuttavia alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma Cost.: Cass. 7 aprile 2017, n. 9105; Cass. 30 giugno 2020, n. 13248).
La Corte territoriale non ha mancato, infatti, di illustrare le ragioni di fatto e di diritto alla base della decisione, né di esplicitare pure il percorso logico – giuridico per approdarvi, avendone dato adeguato conto delle ragioni, congruamente ancorché succintamente argomentate (in particolare, dal terzo al quinto capoverso di pg. 2 della sentenza).
3.1. Quanto al profilo sub a), deve essere ribadito il principio, secondo cui l’omessa, inesatta o incompleta trascrizione delle conclusioni delle parti nell’epigrafe della sentenza ne determina la nullità solo quando tali conclusioni non siano state esaminate, così che sia mancata in concreto una decisione su domande ed eccezioni ritualmente proposte; qualora, invece, il loro esame risulti dalla motivazione, il vizio si risolve in una semplice imperfezione formale, irrilevante ai fini della validità della sentenza (Cass. 10 marzo 2006, n. 5277; Cass. 4 febbraio 2016, n. 2237); sicché, la sentenza di appello, la quale riporti solo parzialmente le conclusioni delle parti e che si limiti a confermare, in tutto o in parte, la sentenza di primo grado impugnata, senza motivare il rigetto delle conclusioni regolarmente rese dalle parti (ma non trascritte nell’epigrafe della sentenza stessa), è affetta da vizio di motivazione, ma non di nullità per omessa pronuncia su alcune delle domande: vizio che non investe tutte le altre conclusioni delle parti, principali e subordinate, esaminate e decise dal giudice d’appello (Cass. 1 luglio 2004, n. 12098).
3.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha omesso di trascrivere nella sentenza le conclusioni della società datrice, relative alle sue domande subordinate, anche in via di eccezione riconvenzionale (in caso di pronuncia di illegittimità del licenziamento, di restituzione delle somme percepite dalla lavoratrice pari a € 4.050,54 netti e di detrazione dalle somme riconosciute eventualmente dovute alla lavoratrice dell’aliunde perceptum o comunque di riduzione per concorso di colpa), debitamente trascritte sub nota 2) di pg. 9 del ricorso e sulle quali la Corte territoriale neppure ha reso alcuna pronuncia. Essa è pertanto affetta dal vizio di nullità per omessa pronuncia (correttamente denunciato, per il riferimento univoco alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione oltre che all’esatta rubrica del motivo, pur non essendo indispensabile l’esplicita menzione dell’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c.: Cass. s.u. 24 luglio 2013, n. 17931; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862), in difetto del momento decisorio, per essere stato omesso completamente il provvedimento indispensabile per la soluzione delle questioni poste (nel caso di specie, dalle domande subordinate): verificandosi tale ipotesi quando il giudice non decida su alcuni capi della domanda autonomamente apprezzabili o sulle eccezioni proposte, ovvero pronunci solo nei confronti di alcune parti (Cass. 18 febbraio 2005, n. 3388; Cass. 3 marzo 2020, n. 5730; Cass. 2 novembre 2021, n. 31100).
4. Con il secondo motivo la ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione degli artt. 61 e 191 c.p.c., per avere la Corte territoriale demandato al C.t.u., con il quesito conferito relativo anche alla valutazione giuridica delle assenze della lavoratrice ai sensi del CCNL di settore, la decisione della causa.
5. Esso è infondato.
6. Giova, in linea generale, premettere che il consulente tecnico d’ufficio può, ai sensi dell’art. 194, primo comma c.p.c., assumere, anche in assenza di espressa autorizzazione del giudice, informazioni da terzi e verificare fatti accessori necessari per rispondere ai quesiti, ma non anche accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni, il cui onere probatorio incombe sulle parti, sicché gli accertamenti compiuti dal consulente oltre i predetti limiti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio, e, perciò, privi di qualsiasi valore, probatorio o indiziario (Cass. 10 marzo 2015, n. 4729). Inoltre, in virtù del principio dispositivo e del sistema di preclusioni assertive ed istruttorie nel processo civile, l’ausiliare del giudice non può, nello svolgimento delle proprie attività e nemmeno per ordine del giudice o acquiescenza delle parti, indagare di ufficio su fatti mai ritualmente allegati dalle stesse, né acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi delle domande o delle eccezioni proposte o procurarsi, dalle parti o da terzi, documenti che forniscano tale prova; potendo detta regola essere derogata soltanto quando la prova del fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione non possa essere oggettivamente fornita dalle parti con i mezzi di prova tradizionali, postulando il ricorso a cognizioni tecnico-scientifiche, oppure per la prova di fatti tecnici accessori o secondari e di elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti (Cass. 6 dicembre 2019, n. 31886). Nella valutazione della consulenza tecnica d’ufficio, espletata in materia che richieda elevate cognizioni specifiche, è poi rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, recepire le argomentazioni dell’esperto nominato, assistite da presunzione d’imparzialità, astenendosi da considerazioni personali sulle contrapposte argomentazioni del consulente di parte, meno attendibili perché influenzate dall’esigenza di sostenere le ragioni del preponente (Cass. 18 dicembre 2012, n. 23362).
In ogni caso, la consulenza tecnica d’ufficio è funzionale alla sola risoluzione di questioni di fatto, che presuppongano cognizioni di ordine tecnico e non giuridico (Cass. 13 gennaio 2021, n. 434): sicché, i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti, né di valutazioni in ordine alla qualificazione giuridica di fatti o alla conformità al diritto di comportamenti; e neppure, qualora una tale inammissibile valutazione sia stata comunque effettuata, di essa si deve tenere conto, salvi un suo critico vaglio e la sottoposizione al contraddittorio processuale delle parti. Pertanto il giudice, qualora erroneamente affidi al consulente lo svolgimento di accertamenti e la formulazione di valutazioni giuridiche o di merito inammissibili, non può risolvere la controversia in base ad un richiamo alle sue conclusioni, ma può condividerle soltanto formulando una propria autonoma motivazione, basata sulla valutazione degli elementi di prova legittimamente acquisiti al processo e dando sufficiente ragione del proprio convincimento, tenendo conto delle contrarie deduzioni delle parti che siano sufficientemente specifiche (Cass. 22 gennaio 2016, n. 1186, in motivazione sub p.to 3.3, con richiamo anche di precedenti)
6.1. Nel caso di specie, la doglianza della ricorrente, di conferimento al C.t.u., con il quesito formulato relativo anche alla valutazione giuridica delle assenze della lavoratrice ai sensi del CCNL di settore, della decisione della causa, è smentita dall’acquisizione, da parte della Corte territoriale, delle conclusioni del C.t.u. esclusivamente in merito al complessivo numero di assenze della lavoratrice, pure coincidente con quello accertato dal consulente tecnico della medesima (così al terz’ultimo capoverso di pg. 3 della sentenza). Essa ha poi proceduto alla loro valutazione giuridica, sulla base dell’autonoma interpretazione dell’art. 51 CCNL applicato (in particolare, dal terzo al sesto capoverso di pg. 4 della sentenza), oggetto di altro motivo di censura.
7. Con il terzo motivo la ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss., 2110 c.c. in relazione all’interpretazione dell’art. 51 CCNL per il personale dipendente da imprese di servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi, per avere la Corte territoriale ritenuto le assenze per infortunio della lavoratrice non computabili nel periodo di comporto: così non osservando i criteri ermeneutici di letteralità (per essere sia la malattia che l’infortunio compresi nella generale categoria dell’infermità), ma anche logico sistematico, in assenza di un’espressa disciplina di esclusione dell’infortunio sul lavoro, non dipendente da responsabilità datoriale ai sensi dell’art. 2087 c.c., in contrasto con la disciplina legale a tutela della libertà di iniziativa economica datoriale dall’eccessiva morbilità del lavoratore.
8. Anch’esso è infondato.
9. È noto che la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni ribadito che, “ai fini della tutela predisposta dall’art. 2110 c.c., l’infortunio sul lavoro deve essere equiparato alla malattia, senza che l’eventuale diversità dei rispettivi sistemi di accertamento sia di ostacolo a una loro considerazione unitaria a opera della contrattazione collettiva ai fini della determinazione del periodo di comporto per sommatoria … ” e che “nessuna norma imperativa vieta che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del cosiddetto periodo di comporto, cui fa riferimento il richiamato art. 2110, quelle dovute a infortuni sul lavoro, né tale esclusione – che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata – incontra limiti nella stessa disposizione che, come lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, qual è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi … ”; inoltre, essa ha affermato che “nei casi in cui la contrattazione collettiva di categoria prevede nella lettera di alcune sue clausole un unico termine di comporto con riferimento sia alle assenze che all’infortunio, il giudice di merito deve accertare – all’esito di una interpretazione logico-sistematica di tutte le clausole che regolano l’istituto – se siano rinvenibili o meno nell’ambito della predetta contrattazione elementi sufficienti di identificazione di una volontà delle parti negoziali volta a fissare una indifferenziata disciplina, con la fissazione di un unico termine congruo di comporto (da valutarsi anche con riferimento alla specificità dell’attività spiegata dal datore di lavoro), sia per le assenze che per gli infortuni o se, di contro, siano riscontrabili, all’interno della stessa contrattazione, elementi che attestino una diversa volontà e che siano anche sufficienti all’individuazione di termini di comporto differenziati in ragione della causa delle assenze (se derivanti o meno da infortunio) e di quella degli infortuni (se verificatisi o meno sul lavoro). Solo nell’eventualità che si riscontri un’assoluta carenza di disciplina pattizia, il giudice può determinare, secondo equità, il periodo di comporto per sommatoria, tenendo conto, in concreto, della causa dell’assenza dal lavoro e, quindi, del fatto che detta assenza sia imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata, al fine proprio di differenziare i termini di comporto e di determinare la durata del comporto per sommatoria in ragione della diversa causale delle assenze dal lavoro.” (Cass. 10 agosto 2012, n. 14377, in motivazione da 9 a 11; Cass. 4 febbraio 2020, n. 2527, in motivazione sub p.to 6).
9.1. Tanto premesso, l’art. 51 CCNL per il personale dipendente da imprese di servizi di pulizia e servizi integrati/multiservizi 31 maggio 2011 (“Trattamento di malattia ed infortunio”), applicabile ratione temporis nel caso di specie e per quanto qui d’interesse, stabilisce: “Il diritto alla conservazione del posto viene a cessare qualora il lavoratore anche con più periodi di infermità raggiunga in complesso 12 mesi di assenza nell’arco di 36 mesi consecutivi. Ai fini del trattamento di cui sopra si procede al cumulo dei periodi di assenza per malattia verificatisi nell’arco temporale degli ultimi 36 mesi consecutivi che precedono l’ultimo giorno di malattia considerato” (sesto comma); “La disposizione di cui al precedente comma vale anche se i 36 mesi consecutivi sono stati raggiunti attraverso più rapporti di lavoro consecutivi nel settore” (settimo comma); “A tal fine il datore di lavoro è obbligato, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, a rilasciare una dichiarazione di responsabilità, dalla quale risulti il numero di giornate di malattia indennizzate nei periodi di lavoro precedenti sino a un massimo di tre anni” (ottavo comma); “Superati i limiti di conservazione del posto, l’azienda su richiesta del lavoratore concederà un periodo di aspettativa non superiore a 4 mesi, durante il quale il rapporto rimane sospeso a tutti gli effetti senza decorrenza della retribuzione e di alcun istituto contrattuale” (nono comma).
L’articolo in esame è seguito dalla disciplina del “Trattamento economico per malattia e infortunio” rispettivamente “per gli impiegati” e “per gli operai”.
Il secondo (applicabile in ragione dell’incontestato inquadramento della lavoratrice, “con qualifica di operaio … nel II livello del CCNL Imprese di Pulizia e con mansioni di addetta alle pulizie”: così al p.to 3 di pg. 3 del ricorso), a differenza del primo che prevede per gli impiegati un trattamento economico indifferenziato (“Nel caso di interruzione del servizio dovuta ad infortunio o malattia … ”), stabilisce: “Per le assenze per malattia all’operaio sarà corrisposto: a) a partire dal primo giorno successivo di assenza fino al 180° giorno un’integrazione del trattamento Inps fino a raggiungere il 100% della retribuzione globale (art. 18, ultimo comma); b) dal 181° giorno al 270° corresponsione del 50% della retribuzione globale. Nei casi di infortunio sul lavoro, all’operaio sarà corrisposto il 100% della retribuzione globale a decorrere dal 2° giorno e fino a guarigione clinica.”.
9.2. Ebbene, in applicazione dei canoni ermeneutici rubricati alle disposizioni codicistiche denunciate, da utilizzare come criterio interpretativo diretto in sede di legittimità (Cass. 19 marzo 2014, n. 6335; Cass. 9 settembre 2014, n. 18946; Cass. 28 maggio 2018, n. 13265; Cass. 18 novembre 2019, n. 29893; Cass. 12 aprile 2021, n. 9583) e pertanto in combinata disposizione dell’art. 1362 c.c., di rispetto del tenore letterale delle disposizioni contrattuali collettive in esame in funzione della ricerca della comune intenzione delle parti, in particolare con il criterio logico – sistematico dell’art.1363 c.c., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole (Cass. 26 luglio 2019, n. 20294; Cass. 28 ottobre 2021, n. 30478, in motivazione sub p.to 2), secondo una loro lettura non “atomistica”, ma coordinando le varie espressioni fra loro e riconducendole ad armonica unità e concordanza (Cass. 14 aprile 2006, n. 8876; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2267; Cass. 18 novembre 2019, n. 29893, in motivazione sub p.to 3), questa Corte reputa che l’art. 51 del CCNL 31 maggio 2011 Multiservizi, debba essere interpretato nel senso della non computabilità della durata di interruzione del rapporto per infortunio sul lavoro nel periodo di comporto di dodici mesi.
In tale senso depongono: a) la distinzione, nella rubrica dell’articolo, tra malattia e infortunio, che ha una chiara evidenza, al di là dell’omnicomprensiva locuzione generica di “più periodi di infermità” (sesto comma, primo periodo), nella sua più puntuale specificazione nel riferimento, “ai fini del trattamento di cui sopra”, esclusivamente “al cumulo dei periodi di assenza per malattia” (sesto comma, secondo periodo); b) la rilevanza della sola risultanza, al suddetto fine, “del numero di giornate di malattia indennizzate nei periodi di lavoro precedenti sino a un massimo di tre anni” , nella dichiarazione di responsabilità del datore di lavoro, quale oggetto del suo obbligo, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro (ottavo comma); c) la concessione “superati i limiti di conservazione del posto”, “dall’azienda su richiesta del lavoratore” di “un periodo di aspettativa non superiore a 4 mesi” di “sospensione del rapporto a tutti gli effetti senza decorrenza della retribuzione e di alcun istituto contrattuale” (nono comma); d) la distinzione del trattamento economico per malattia (corresponsione “a partire dal primo giorno successivo di assenza fino al 180° giorno” di “un’integrazione del trattamento Inps fino a raggiungere il 100% della retribuzione globale … dal 181° giorno al 270° corresponsione del 50% della retribuzione globale”) da quello per infortunio (corresponsione del “100% della retribuzione globale a decorrere dal 2° giorno e fino a guarigione clinica”).
Come è noto, questa Corte ha già valorizzato la distinzione sub d), con l’affermazione, per la quale, avendo “le parti stipulanti … inteso assicurare agli operai infortunati … l’erogazione della retribuzione sino alla guarigione clinica, id est la permanenza dell’obbligazione a carico del datore di lavoro pur in assenza della controprestazione lavorativa, condizionata alla guarigione clinica e, pertanto, raccordata ad una variabile, la guarigione per l’appunto, cui rimane indipendente la progressione temporale alla quale è non indefinitamente legato il periodo di comporto … mal si concilierebbe, palesando un’evidente contraddizione, una disposizione negoziale che, da un lato, obbligasse il datore di lavoro ad erogare indefinitamente la retribuzione fino alla guarigione, così conferendo continuità giuridica al rapporto di lavoro, dall’altro, per lo stesso evento, imponesse l’esercizio della potestà risolutoria sommando, quella peculiare condizione del lavoratore, infortunatosi sul lavoro e fruente della retribuzione fino alla guarigione, ad altre condizioni di salute del lavoratore ostative della prestazione lavorativa e temporalmente rilevanti agli effetti della cessazione del diritto alla conservazione del posto”; in tale modo attribuendo alle “parti sociali l’introduzione di una disciplina ambivalente e contraddittoria nella regolamentazione del medesimo evento, l’infortunio sul lavoro” (Cass. 10 agosto 2012, n. 14377, in motivazione sub p.ti 13 e 14).
Ed essa, qui ribadita, attinge ulteriore nitida evidenza nell’armonico e coerente coordinamento logico – sistematico delle pur chiare espressioni letterali di ogni clausola contrattuale, letta in combinazione con le altre, nel senso della inequivoca divaricazione degli effetti dei diversi eventi patologici della malattia e dell’infortunio (non soltanto sul trattamento economico, alla stregua di dato sintomatico, ma) sul rapporto di lavoro nella sua integralità: nel primo caso, il superamento dei limiti di conservazione del posto ne comporta la cessazione ovvero, per il periodo di aspettativa non superiore a quattro mesi eventualmente richiesto dal lavoratore e concesso dal datore, la sospensione a tutti gli effetti, sia di prestazione lavorativa che di corrispettività retributiva; nel secondo caso, la corresponsione integrale della retribuzione fino alla guarigione clinica, permanendone l’obbligazione a carico del datore di lavoro pur in assenza della controprestazione lavorativa, condizionata alla guarigione clinica, ne comporta al contrario la continuità giuridica.
10. Infine, con il quarto motivo la ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, quale la mancata allegazione della lavoratrice di una responsabilità datoriale nella causazione del sinistro del 16 marzo 2015.
11. Esso è infondato.
12. La Corte d’appello ha esaminato la circostanza e ha valutato ininfluente (all’ultimo capoverso di pg. 4 della sentenza) la mancata allegazione di una responsabilità datoriale in ordine all’infortunio sul lavoro, in esito all’interpretazione (censurata con il precedente motivo) della sua non computabilità, indipendentemente da una tale responsabilità, nel periodo di comporto.
13. Per le superiori ragioni, il primo motivo di ricorso deve essere accolto nei sensi di cui in motivazione e gli altri rigettati, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione; rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione.