Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 febbraio 2023, n. 4764
Lavoro, Licenziamento disciplinare, Uso indebito di segni distintivi della pubblica amministrazione, Comportamenti di rilevanza anche penale, Termine per la contestazione disciplinare, Concetto di giusta causa, Condotte extralavorative che possono ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti, Codice di comportamento del personale dell’Agenzia delle Entrate, Prestigio dell’amministrazione pubblica, Rigetto
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Torino, rigettando il gravame, ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima città, in funzione di giudice del lavoro, che aveva a sua volta respinto il ricorso di G.T., già funzionario dell’Agenzia delle Entrate, contro il licenziamento disciplinare irrogatogli in seguito alla contestazione di comportamenti, di rilevanza anche penale, consistiti nella falsa attribuzione a se stesso della qualifica di colonnello della Guardia di Finanza e nell’uso indebito di segni distintivi della pubblica amministrazione al fine di ottenere un vantaggio economico nella vendita della propria automobile.
Contro tale decisione G.T. ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi. L’Agenzia delle Entrate, Direzione regionale del Piemonte, ha presentato controricorso. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria con motivate conclusioni in favore del rigetto del ricorso. Anche la difesa del ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Il ricorso giunge in decisione all’esito della trattazione in pubblica udienza nella quale non sono intervenute le parti.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia «violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001 T.U.P.I.». Il ricorrente ribadisce la tesi secondo cui l’Agenzia delle Entrare non avrebbe attivato tempestivamente il procedimento disciplinare, dovendosi far risalire la data della compiuta conoscenza dell’infrazione al 27.9.2018, quando la dirigente della Direzione Provinciale 1 di Torino venne ascoltata dagli agenti della Guardia di Finanza nell’ambito del procedimento penale avviato per i medesimi fatti poi posti a fondamento della contestazione disciplinare.
1.1. Il motivo è inammissibile, perché, dietro la meramente dichiarata censura di un vizio di violazione di norme di diritto, è in realtà volto a rimarcare la contestazione del fatto accertato in modo conforme nei due gradi di merito. In diritto, la corte d’appello ha semplicemente ribadito l’ovvio e condivisibile principio per cui il termine per la contestazione disciplinare di cui all’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001 decorre dal giorno in cui «il responsabile della struttura» abbia avuto «piena conoscenza dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare». Tale norma di diritto non è messa in discussione dal ricorrente, il quale ritiene tuttavia che la piena conoscenza dei fatti debba farsi risalire all’audizione della dirigente da parte dei militari della Guardia di Finanza, piuttosto che – come accertato dai giudici di merito – al momento della comunicazione della chiusura delle indagini preliminari e della richiesta di rinvio a giudizio. La corte d’appello ha motivato le ragioni per cui ha ritenuto che, in sede di audizione in data 27.9.2018, la dirigente della struttura «non fu affatto informata … dei capi di imputazione per i quali si procedeva». Tale accertamento non è sindacabile in questa sede (anche in ragione della doppia conforme nei due gradi di merito: ex multis, Cass. n. 23021/2014), né, del resto, viene formalmente confutato dal motivo di ricorso, che prospetta invece una insussistente violazione di norma di diritto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
2. Il secondo motivo di ricorso censura una asserita «violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 2119 c.c., in combinato disposto con gli artt. 2697 c.c. – Insussistenza della giusta causa». Il ricorrente nega di avere commesso i fatti a lui attribuiti nel capo di imputazione penale, rilevando di essere stato assolto in primo grado per il reato di contraffazione di segni distintivi e di avere proposto appello contro la condanna per tentativo di sostituzione di persona; sostiene poi che «il licenziamento …, invece, è stato comminato per la condotta complessivamente contenuta nel provvedimento di rinvio a giudizio» (pag. 16 del ricorso).
2.1. Il motivo è inammissibile sotto un profilo e infondato sotto un altro.
2.1.1. È inammissibile nella parte in cui, in sostanza, censura l’accertamento del fatto da parte dei giudici di merito. Il ricorrente afferma di avere contestato gli addebiti del capo di imputazione, ma ciò è irrilevante ai fini della censura, perché la corte d’appello non ha basato il proprio accertamento sulla non contestazione dei fatti, cui nella motivazione non si fa cenno, se non in termini di genericità della contestazione degli addebiti, bensì su una autonoma valutazione delle prove acquisite nell’istruttoria penale (pagg. da 7 a 9 della sentenza impugnata).
Siffatta autonoma valutazione delle prove ai fini del giudizio sulla sussistenza della giusta causa di licenziamento prescinde dall’esito parzialmente favorevole al ricorrente del giudizio penale di primo grado, fermo restando che nel caso in oggetto non è prospettabile – e, infatti, non viene prospettata – un’efficacia vincolante nel processo civile dell’accertamento in sede penale ai sensi dell’art. 653 c.p.p.
2.1.2. Il motivo è, poi, infondato nella parte in cui evoca – grazie alla menzione in rubrica dell’art. 2697 c.c. – una violazione delle norme di diritto sulla ripartizione dell’onere della prova, posto che la corte di merito ha deciso non in base ad esse, ma in virtù del positivo accertamento in concreto dei fatti rilevanti in causa.
3. Il terzo motivo denuncia «violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 60, 61 e 62 CCNL Funzioni Centrali in combinato disposto con gli artt. 3, 4, 10 del d.P.R. n. 62/13 e con gli artt. 2, 3, 10 del Codice di Comportamento del Personale Agenzia delle Entrate approvato con atto del Direttore dell’Agenzia prot. n. 2015/118379 del 16.9.2015.
Insussistenza della giusta causa». Con questa censura il ricorrente contesta che i fatti come a lui addebitati, e accertati dal giudice, integrino gli estremi della giusta causa e siano inquadrabili nelle fattispecie che, secondo la pertinente normativa contrattuale e legale, giustificano la massima sanzione del licenziamento senza preavviso.
4. Il quarto motivo è così rubricato: «violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 2104, 2105 e 2119 per errata ed omessa applicazione dei relativi criteri applicativi, in particolare della clausola generale di cui all’art. 2119 c.c. e della proporzionalità della sanzione disciplinare con l’infrazione contestata». Il motivo riprende il tema del precedente, sviluppandolo anche con riferimento alla contestata proporzionalità della sanzione del licenziamento senza preavviso, in rapporto ad altre possibili sanzioni di tipo conservativo.
5. I due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati.
5.1. Occorre preliminarmente ribadire che «In tema di licenziamento disciplinare, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quelle della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito e del rispetto dei criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui la concreta fattispecie si colloca, mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione» (Cass. n. 14504/2019; conf. Cass. nn. 31155/2018; 27238/2018; 7305/2018; e, in diverso ma analogo contesto, Cass. n. 8047/2019).
5.2. Nel caso di specie, la corte territoriale ha correttamente richiamato il concetto di giusta causa – che non si limita al grave inadempimento degli obblighi contrattuali, ma si estende anche «a condotte extralavorative che, tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti» (Cass. n. 24023/2016) –, anche sottolineando che tale aspetto «è ancor più pregnante per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, i quali sono altresì tenuti al rispetto del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (d.P.R. 62/2913) (ndr d.P.R. 62/2013), che comprende il dovere di osservare la Costituzione e di servire la Nazione con disciplina e onore, rispettando i principi di integrità, correttezza e buona fede, evitando situazione e comportamenti … che possano nuocere all’immagine dell’Amministrazione» (pagg. 11 e s. della sentenza impugnata).
Il giudice a quo ha quindi evidenziato l’intenzionalità e la pluralità dei comportamenti con cui il ricorrente ha cercato di creare una falsa apparenza al fine di ottenere un vantaggio economico personale, a scapito del prestigio dell’amministrazione pubblica per la quale lavorava: né può essere motivo di minor disdoro per l’amministrazione di appartenenza il fatto che il funzionario, invece di far pesare il proprio ruolo, si sia falsamente presentato come colonnello della Guardia di Finanza, evidentemente ritenendo tale qualifica più efficace rispetto allo scopo perseguito.
Non manca, nella sentenza, la corretta sussunzione di siffatti comportamenti nell’ambito delle previsioni generali della normativa statale (d.P.R. n. 62 del 2013), aziendale (Codice di comportamento del personale dell’Agenzia delle Entrate) e contrattuale (art. 60 CCNL Funzioni Centrali; cui è possibile aggiungere l’art. 62, comma 9, n. 2, lett. d, che contempla la sanzione del licenziamento disciplinare senza preavviso per la «commissione – anche nei confronti di terzi – di fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro»).
5.3. La sentenza impugnata non trascura il tema della necessaria proporzionalità della sanzione rispetto alla infrazione commessa, esprimendo il giudizio – condivisibile e, comunque, non sindacabile oltre il limite della «correttezza del metodo seguito e del rispetto dei criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale» – che «nessuna sanzione disciplinare conservativa sarebbe stata adeguata alla fattispecie, avrebbe potuto ricostituire il vincolo fiduciario spezzato ed avrebbe potuto riparare i danni procurati dall’appellante all’immagine e ai valori di correttezza della pubblica Amministrazione» (pag. 14 della sentenza impugnata).
La plausibilità logica di tale giudizio non è scalfita dal confronto proposto con le sanzioni esplicitamente previste per altri illeciti disciplinari, che il ricorrente considera apoditticamente «molto più gravi» di quello a lui contestato, ma che invece non sono oggettivamente misurabili in termini di maggiore o minore gravità, perché hanno caratteristiche e offensività del tutto diverse ed eterogenee (occultamento di fatti relativi a uso illecito o sottrazione di beni o somme dell’ente o ad esso affidati, molestie di carattere sessuale, purché non gravi e reiterate, alterchi con vie di fatto nei luoghi di lavoro).
6. Infine, il quinto motivo denuncia «violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e 118 disp. att. c.p.c. – Motivazione apparente. Insussistenza della recidiva». Oggetto di censura è, in questo caso, il giudizio di irrilevanza, espresso dalla corte territoriale, del quinto e sesto motivo d’appello con cui l’attuale ricorrente aveva contestato la giuridica sussistenza della recidiva rispetto a un precedente illecito disciplinare. Così facendo, sostiene il ricorrente, la corte d’appello avrebbe omesso una effettiva motivazione sul rigetto di quei motivi d’appello.
6.1. Il motivo è inammissibile, perché rivolto contro una parte della motivazione della sentenza non essenziale per sorreggere il dispositivo adottato dal giudice a quo. La Corte d’Appello di Torino ha ritenuto e motivato la legittimità della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso sulla base di una valutazione della gravità dei fatti che prescinde dalla contestazione di una recidiva. Pertanto, anche volendo ipotizzare che la recidiva fosse stata valutata dal datore di lavoro nel provvedimento sanzionatorio, e anche volendo condividere che non ci fossero i presupposti per la contestazione della recidiva, rimarrebbero inalterate le ragioni, esposte in sentenza, delle ritenute gravità dell’illecito e proporzionalità della sanzione.
7. Respinto il ricorso, le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Respinge il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 5.000,00 per competenze professionali, oltre alle spese prenotate a debito;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.