Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 febbraio 2023, n. 4800

Lavoro, Licenziamento, Falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, Mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, Modalità fraudolente, Mancata registrazione delle uscite interruttive del servizio, Accoglimento

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di Napoli ha rigettato il reclamo proposto, ai sensi dell’art. 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012, nei confronti del Comune di Castellammare di Stabia, da D.M.P., avverso la pronuncia resa tra le parti dal Tribunale di Torre Annunziata, che aveva rigettato l’opposizione proposta dal lavoratore avverso la decisione di rigetto dell’impugnazione del licenziamento irrogatogli dal suddetto Comune datore di lavoro.

Al lavoratore era stata formulata in data 3 ottobre 2018 la contestazione disciplinare del seguente tenore: “la scrivente dirigente dott.ssa Sabina Minucci a seguito di sopralluogo effettuato presso l’Ufficio protocollo ha verificato personalmente che la S.V. è risultata assente arbitraria dal servizio in data 1° ottobre 2018 dalle 12.00;

che nel corso del sopralluogo svolto con il supporto dell’Assessore alla legalità ha potuto verificare che il caposervizio non aveva autorizzato alcun permesso servizio ai suoi confronti; che a seguito di verifiche tra le quali quella presso l’Ufficio di rilevazione presenze si è accertato che la S.V. non ha registrato alcuna uscita sul sistema automatico della rilevazione della presenza in servizio ….; che è stato accertato che E. è rientrata in servizio in vero alle 13.40 circa e alla richiesta di motivazione ha dichiarato di essersi assentato per partecipare prima ai funerali di una sua conoscente ex collega, e poi per recarsi per ragioni d’ufficio presso il SUAP a Palazzo Sant’Anna dichiarando di non aver registrato l’uscita per disattenzione o dimenticanza; che pertanto la S.V. all’esito dei predetti accertamenti risultava assente arbitrario del servizio pur avendone fatto rilevare la presenza attraverso il servizio informatizzato dalle 12 alle 13.30 circa.

La Corte d’Appello, quindi, riportava le dichiarazioni rese dal lavoratore che aveva posto in rilievo che si era allontanato con la spontanea volontà di omaggiare un’amica defunta, che aveva avvertito il collega di stanza, e aveva ritenuto sufficiente un avviso orale per allontanarsi momentaneamente.

Tanto premesso, la Corte d’Appello richiama la disciplina che applica alla fattispecie, art. 5- quater, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 165 del 2001 (ndr art. 55- quater, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 165 del 2001), e in particolare la falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente.

Richiama anche l’articolo 59, comma 9, punto 2, lettera a) del CCNL del 21 maggio 2018, a sua volta richiamato nel provvedimento espulsivo.

Afferma quindi che la contestazione si componeva di due fatti materiali distinti unitariamente considerati:

l’assenza arbitraria e non giustificata dal posto di lavoro, e il non avere effettuato alcuna registrazione dell’uscita.

Rileva quindi che l’assenza ingiustificata non è realizzata mediante un mero comportamento omissivo, quale sarebbe stata la mancata presentazione in ufficio, ma è qualificata da un’ulteriore elemento che modifica strutturalmente la fattispecie, e cioè la circostanza che precedentemente, con la timbratura in entrata delle 10.30, il lavoratore aveva fatto rilevare l’inizio della sua presenza, di conseguenza la successiva uscita delle 12.00, non solo senza autorizzazione e quindi ingiustificata, ma senza rilevazione con gli strumenti di controllo, determinava l’effetto dell’oggettiva idoneità del comportamento ad indurre in errore il datore di lavoro che avrebbe ritenuto la perdurante presenza in servizio dei dipendente.

La condotta del lavoratore era stata quindi correttamente inquadrata; inoltre, la lettera di contestazione degli addebiti rispondeva ai canoni di chiarezza e specificità.

Non vi erano dubbi sulla ricostruzione della vicenda e non poteva certo ritenersi che il lavoratore si era allontanato per ragioni di servizio, perché l’attività non risultava eterodiretta.

Infine, non poteva sussistere la prospettata disparità di trattamento attesa l’autonomia di ciascuna fattispecie disciplinare.

La Corte d’Appello, quindi, ha ritenuto sufficiente un dolo generico e cioè la coscienza e volontarietà da parte dell’agente, e non un dolo specifico; nessuno dei motivi giustificativi introdotti dal ricorrente poteva portare a diverse valutazioni, né la mancanza di danno economico sminuiva la gravità dei fatti contestati.

Conclusivamente, la Corte d’Appello ha affermato che la struttura del comportamento illegittimo contestato al lavoratore appariva completa nella sua materialità, nonché nei suoi profili di volontarietà ed offensività. Comprovata la sussistenza del fatto, non vi era dubbio in ordine alla idoneità dei fatti commessi a ledere in maniera irreparabili il vincolo fiduciario e quindi l’adeguatezza e la massima sanzione.

2. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando cinque motivi di ricorso, assistiti da memoria.

3. Resiste con controricorso il Comune di Castellammare di Stabia.

4. Il Procuratore Generale ha depositato le conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso (sub II, pag. 10 del ricorso per cassazione, atteso che sub I è ripercorso lo svolgimento del giudizio e la sintesi dei motivi di ricorso indicati in numero di quattro) è dedotta la violazione ed errata applicazione dell’art. 55-quater, comma 1, lett. a), e comma 1-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 2697, cod. civ., dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 2119, cod. civ., dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

È contestata la statuizione della Corte d’Appello che ha ritenuto integrata la fattispecie di cui all’art. 55-quater, comma 1, lett. a), sia con riguardo agli elementi strutturale della fattispecie che alla concreta riconducibilità alla stessa della vicenda in esame.

Assume il ricorrente che l’elemento caratterizzante la fattispecie è quello di trarre in inganno l’Amministrazione con il fingersi presente, e cioè l’intento fraudolento.

Nella decisione della Corte d’Appello mancava l’indagine sulla sussistenza della volontà del lavoratore di ingenerare una rappresentazione diversa della realtà.

Sussistevano elementi fattuali che escludevano che il lavoratore si era voluto allontanare dall’ufficio fraudolentemente, sia perché si recava presso altri Uffici del Comune, in particolare, sia perché timbrava il cartellino al rientro, e non aveva subito precedenti contestazioni disciplinari.

1.1. Il motivo è fondato e va accolto.

Nella specie viene in rilievo il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata.

Questa Corte, nell’interpretare il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367 del 2016 e Cass. n. 25750 del 2016).

Il comma 1 bis dell’art. 55 quater – introdotto con il decreto n. 116 del 2016, illustra che “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso”.

La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare (Cass. n. 17600 del 2021) che il legislatore del 2009, con il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, ha introdotto e tipizzato alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento.

La disposizione ha, dunque, introdotto una tipizzazione di illecito disciplinare da sanzionarsi con il licenziamento.

In particolare, questa Corte ha affermato che (Cass. n. 22075 del 2018) l’introduzione del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1-bis (avvenuta con il d.lgs. n. 116 del 2016) non ha portata innovativa, ma vale come interpretazione chiarificatrice del concetto di “falsa attestazione di presenza”.

È falsa attestazione (prima e dopo la riforma) non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio. Nell’eventuale contrasto tra legge e contrattazione collettiva prevale – in quanto imperativa – la disciplina legale, anche se meno favorevole al lavoratore.

A fronte di una fattispecie legale, si pone, quindi, il problema di verificare i principi che il giudice deve applicare nel valutare la legittimità della sanzione irrogata dall’Amministrazione, una volta accertato che il lavoratore abbia commesso una delle mancanze previste dalla norma, e pertanto se il licenziamento sia una conseguenza automatica e necessaria, ovvero se l’amministrazione conservi il potere-dovere di valutare l’effettiva portata dell’illecito tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare, potendo ricorrere a quella espulsiva solamente nell’ipotesi in cui il fatto presenti i caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento.

Sul punto si è affermato (Cass., n. 18326 del 2016), con statuizione alla quale si intende dare continuità, che la norma cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta.

Ferma la tipizzazione della sanzione disciplinare (licenziamento) una volta che risulti provata la condotta, permane la necessità della verifica del giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione che si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso.

La disposizione normativa è stata, dunque, interpretata (si v., Cass., n. 14199 del 2021) alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106, cod. civ., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (nella citata sentenza si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte cost. n. 123 del 2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia).

Ai suddetti principi di diritto, non si è data corretta attuazione da parte della Corte territoriale che, nella fattispecie in esame, ha tratto l’intenzionalità della condotta fraudolenta del lavoratore dalla circostanza in sé dell’uscita dall’ufficio in mancanza di previa autorizzazione e timbratura, che costituisce violazione presuntivamente grave, ma rispetto alla quale va operato il contestuale e non frazionato esame degli elementi dedotti dal lavoratore e non contestati nella loro materialità, diretti a vincere tale presunzione (nel tempo di durata dell’assenza:

partecipazione del lavoratore al funerale di una ex collega dove erano presenti altri dipendenti e poi presso altro ufficio del Comune il SUAP, marcatura al rientro in ufficio in ingresso, che la Corte d’Appello presume in modo generico indotta dall’essere stato avvisato, ma che costituisce un fatto oggettivo).

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, art. 360, n. 5, cod. proc. civ. Violazione ed errata applicazione dell’art. 55- quater, comma 1, lett. a), e comma 1-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 2697, cod. civ., dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 2119, cod. civ., dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4 cod. proc. civ.

3. Con la terza censura è dedotta la violazione ed errata applicazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per omessa pronuncia in relazione al motivo di appello con il quale era stata dedotta l’erroneità della sentenza di primo grado per aver reputato la proporzionalità del licenziamento rispetto ai fatti contestati e comunque accertati e la riconducibilità della condotta del dipendente nell’avvio delle “sanzioni conservative” alla stregua delle disposizioni del contratto collettivo di settore e della giurisprudenza, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.

4. Con la quarta censura è denunciata la violazione ed errata applicazione dell’art. 55-quater, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001, dell’art. 4 Cost., degli artt. 1175, 1375, 2104, 2106, 2119, 2697, cod. civ., dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 59, comma 1, CCNL funzioni locali 2016-2018, degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., in ordine all’accertamento della congruenza del licenziamento irrogato in relazione agli addebiti ascrittigli con la contestazione di addebito del 3 ottobre 2018, e soprattutto rispetto ai fatti effettivamente accertati, in relazione all’art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5, cod. proc. civ.

5. Vi è poi al punto VI del ricorso (pag. 33 del ricorso per cassazione) l’indicazione degli effetti dell’illegittimità della condotta datoriale, applicazione del regime sanzionatorio della reintegrazione nel posto di lavoro nonché del pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno dell’illegittimo licenziamento alla data dell’effettiva reintegra.

6. All’accoglimento del primo motivo di ricorso segue l’assorbimento di tutti gli ulteriori motivi di impugnazione.

7. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso.

Assorbiti gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 febbraio 2023, n. 4800
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