Ove il datore di lavoro non garantisca la sicurezza e l’incolumità ai propri dipendenti, questi non potranno essere legittimamente licenziati anche se non eseguono diligentemente la prestazione.
Nota a Cass. (ord.) 12 gennaio 2023, n. 770
Pamela Coti
È legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto, in ragione della condotta inadempiente del datore di lavoro che non rispetta gli obblighi di sicurezza, non possono derivargli conseguenze sfavorevoli, posto che è in gioco il diritto alla salute di rilievo costituzionale.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione (ord.) 12 gennaio 2023, n. 770 in relazione al ricorso di una lavoratrice addetta alla cassa di un supermercato licenziata per giusta causa per aver consentito a tre clienti di non pagare una parte della merce prelevata dagli scaffali.
Al riguardo i Supremi Giudici hanno stabilito che:
- “l’ampio ambito applicativo dell’art. 2087 c.c., rende necessario l’apprestamento di adeguati mezzi di tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori nei confronti dell’attività criminosa di terzi nei casi in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia di attività esercitata, in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale” (così. Cass. n. 7405/2015);
- in tema di obblighi di prevenzione ex art. 2087 c.c., l’adozione di particolari misure di sicurezza (cd. “innominate”) viene in rilievo con riferimento a condizioni lavorative obiettivamente, ma anche solo potenzialmente, pericolose, in cui la pericolosità derivi dalla movimentazione di somme di denaro (Cass. n. 29879/2019; Cass. n. 34/2016);
- nei contratti a prestazioni corrispettive, come quello di lavoro, l’inadempimento del datore di lavoro non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in quanto trova applicazione il disposto dell’art. 1460 c.c., co. 2, secondo cui “la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede” (Cass. n. 434/2019; Cass. n. 14138/2018; Cass. n. 11408/2018);
- pertanto, la valutazione di gravità dell’inadempimento contrattuale non può che essere rimessa all’esame del giudice di merito che deve “procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, con la conseguenza che ove l’inadempimento di una parte non sia grave oppure abbia scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non potrà considerarsi in buona fede e, quindi, non sarà giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c., co. 2 (Cass. n. 11430/del 2006)”;
- “qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall’accertata illegittimità dell’ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d’inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell’illiceità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, prevista dalla n. 300 del 1970, art. 18, co. 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012”.