Spetta al datore di lavoro dimostrare la liceità dell’interposizione di manodopera.
Nota a Trib. Modena 9 gennaio 2023
Fabrizio Girolami
Come noto, nel nostro ordinamento le ipotesi di legittima “dissociazione” tra il soggetto formalmente titolare del contratto di lavoro e l’utilizzatore sostanziale delle prestazioni lavorative sono normativamente “tipizzate” (appalto, lavoro somministrato, distacco), sicché, al di fuori di tali eccezioni tassative, sussiste un divieto di intermediazione di mere prestazioni di manodopera e/o di somministrazione illecita e/o irregolare e/o fraudolenta.
Pertanto, in ragione della specifica peculiarità della fattispecie del “contratto di appalto”, estranea alla tradizionale configurazione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dalla presenza di due sole parti (prestatore e datore di lavoro), è onere del datore di lavoro (sia quello formale che sostanziale) provare, in concreto, la sussistenza di una genuina intermediazione di lavoro, producendo in giudizio gli accordi intercorrenti tra l’appaltante (committente) e l’appaltatore (quali, ad esempio, i contratti di appalto nell’ambito dei quali è stata resa la prestazione di lavoro).
In tale quadro, il contratto di appalto è considerato “genuino”, ai sensi dell’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003 e s.m.i. laddove l’appaltatore: 1) assume il rischio di impresa; 2) organizza i mezzi necessari per l’esecuzione del contratto, che può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto (c.d. “eterodirezione” che esclude che il committente possa interferire nelle modalità concrete di svolgimento del rapporto di lavoro).
In quest’ottica, si ha un appalto non genuino tutte le volte in cui l’appaltatore svolga unicamente compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo, che vengono invece esercitati dall’impresa appaltante.
In mancanza di tali requisiti (appalto illegittimo), il legislatore stabilisce che il lavoratore può ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del “soggetto che ne ha utilizzato la prestazione” (art. 29, co. 3-bis, D.Lgs. n. 276/2003).
L’onere probatorio di provare la genuinità dell’appalto, come sopra delineato, è stato confermato dal Tribunale di Modena, III sez. civ., sottosezione lavoro, con sentenza 9 gennaio 2023 (in coerenza con i recenti approdi della giurisprudenza di legittimità: cfr., tra le altre, Cass. 18 novembre 2019, n. 29889) in relazione al ricorso proposto da alcuni lavoratori impiegati nell’ambito di una serie di contratti di appalto di servizi, i quali, pur essendo stati formalmente assunti dalle ditte appaltatrici, avevano in realtà svolto le loro mansioni (di autisti, ritiro e trasporto prodotti) presso la società “pseudo-committente” ed erano stati assoggettati, nell’esecuzione di tali mansioni, al potere direttivo e organizzativo di tale società, la quale, aveva, altresì, fornito per l’esecuzione delle prestazioni lavorative materiali di propria proprietà e pianificato le prestazioni medesime nei loro aspetti modali e temporali. I lavoratori avevano, pertanto, richiesto la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, a tempo pieno e indeterminato, a carico dell’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa (società “pseudo-committente”), con condanna al pagamento delle differenze retributive (e contributive) maturate da costoro dalla data di instaurazione del riconosciuto rapporto lavorativo subordinato sino all’effettivo soddisfo.
Secondo il giudice modenese, l’onere della prova “circa la genuina esistenza di un rapporto di intermediazione di manodopera incomba in capo alle parti datoriali: Il criterio discretivo per individuare una legittima dissociazione tra formale datore di lavoro e sostanziale utilizzatore delle prestazioni lavorative è, dunque, la riconduzione della fattispecie concreta alle ipotesi normativamente tipizzate. È onere del datore di lavoro, sia quello formale che sostanziale, dimostrare la sussistenza di una genuina intermediazione di manodopera (che consista in un contratto di appalto di servizio ovvero in un contratto di somministrazione”.
Nel caso di specie, in considerazione dell’accertato mancato assolvimento probatorio da parte del datore di lavoro (sia formale che sostanziale) in merito alla genuinità dell’appalto (per la mancata produzione documentale dei contratti di appalto), nonché dell’acclarato esercizio del potere direttivo da parte della società “pseudo-committente” e dell’assenza di qualsivoglia rischio d’impresa in capo alle ditte appaltatrici (ex art. 29, D.Lgs. n. 276/2003 e s.m.i.), il giudice ha affermato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, a tempo pieno e indeterminato, tra ciascuno dei ricorrenti e la società “pseudo-committente” convenuta (in quanto vero datore di lavoro effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa), condannando quest’ultima a corrispondere a favore di ciascuno dei ricorrenti le differenze retributive maturate da costoro, nonché a corrispondere a favore dell’INPS la contribuzione previdenziale correlata a ciascun rapporto di lavoro.