Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 febbraio 2023, n. 4832

Lavoro, Licenziamento per giusta causa, Inesattezza del rito, Dichiarazioni rese nel corso del procedimento disciplinare, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. A.C. convenne in giudizio la B.M.P.S. per sentir accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 25.9.2018 e, conseguentemente, ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto e con le mansioni in precedenza svolte e condannare la Banca datrice di lavoro a risarcire il danno sofferto commisurato alle retribuzioni medio tempore maturate oltre agli ulteriori danni sofferti.

2. Il Tribunale di Milano, nella contumacia della datrice di lavoro, procedeva con rito ordinario del lavoro e, ritenuta non provata la giusta causa di licenziamento, dichiarava l’illegittimità del re9cesso ordinando la reintegrazione del lavoratore e condannando la società datrice al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate.

3. La Corte di appello confermava la sentenza di primo grado ritenendo infondata l’eccezione di nullità formulata dalla datrice di lavoro che si era doluta della mancata adozione del rito speciale previsto dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012. Nel merito poi riteneva che la produzione documentale della Banca appellante fosse tardiva e che, dalla documentazione prodotta in giudizio, non si ravvisassero elementi confessori tali da poter ritenere sussistenti e provati gli addebiti.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la B.M.P.S. s.p.a. affidato ad otto motivi. A.C. ha resistito con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

 

Considerato che

 

5. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 426 e 427 c.p.c. in relazione all’art. 1 comma 47 e ss. della legge n. 92 del 2012 e si sostiene che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto che l’omesso mutamento del rito non avesse determinato una lesione del diritto di difesa della Banca c:he per un mero disguido non si era costituita nel giudizio.

5.1. La ricorrente deduce che al lavoratore, in ragione della data di assunzione (nel 1982), non trovava applicazione il d.lgs. n. 23 del 2015 ma piuttosto la tutela prevista dalla legge n. 300 del 1970 come modificata dalla legge n. 92 del 2012. Sostiene che l’omesso mutamento del rito avrebbe comportato una lesione del diritto di difesa della datrice di lavoro che non aveva potuto esercitare le sue difese così come sarebbe avvenuto qualora, pur non essendosi costituita nella fase sommaria, si fosse costituita nell’opposizione, con integrità della sua difesa.

6. In relazione alle medesime considerazioni svolte nel primo motivo, con il secondo motivo di ricorso si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 1 comma 47 e ss. della legge n. 92 del 2012.

7. Le due censure, che possono essere esaminate congiuntamente stante la comunanza dei temi trattati, sono infondate.

7.1. Secondo giurisprudenza costante di questa Corte, l’inesattezza del rito non determina di per sé l’inesistenza o la nullità della sentenza, ma assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi, non ricorrente nel caso di specie, in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (cfr. Cass. 08/03/2016 n. 4506 del 2016 ed ivi le citate Cass. 18/07/2008 n.19942, Cass. S.U. 10/02/2009 n.3758, Cass.22/10/2014 n.22325 e Cass. 27/01/2015 n.1448). Perché essa assuma rilevanza invalidante occorre infatti che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò perché l’individuazione del rito non deve essere considerata fine a sé stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad apprezzabilmente incidere sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali protette della parte.

7.2. La Corte distrettuale, mostrando di conoscere e condividere tali principi, ha rimarcato la non vulnerabilità, in concreto, dei principi in tema di tutela del contraddittorio particolarmente garantito nel rito ordinario adottato con il quale si manifesta la massima espansione della cognizione ordinaria idonea ad assicurare il migliore esercizio della difesa. Non può ancorarsi un pregiudizio alla scelta, del tutto libera, della parte di non costituirsi nel giudizio trattandosi di eventualità, quella della decadenza da ogni prova ben nota alla parte alla quale era stato notificato un ricorso chiaramente introdotto con il rito ordinario. Né il mero affidamento nel possibile mutamento del rito (da ordinario a rito c.d. Fornero) è di per sé sufficiente per poter ravvisare, nella sua mancata adozione, un pregiudizio per la difesa posto che, come detto, la stessa è assicurata in maniera piena dal rito concretamente adottato.

8. Il terzo motivo di ricorso ha ad oggetto la violazione e falsa applicazione degli artt. 421 e 437 c.p.c.. Sostiene la ricorrente che, comunque, la Corte, in disparte le decadenze intervenute, avrebbe potuto acquisire la documentazione prodotta nel giudizio in appello d’ufficio.

9. Il motivo è infondato.

9.1. Il potere dovere del giudice del lavoro di esercitare i poteri officiosi, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, da esercitare contemperando il principio dispositivo con quello della ricerca della verità, è regolato dal criterio di indispensabilità della prova.

9.2. La Corte territoriale pur ribadendo che nell’ambito del licenziamento l’onere di provare l’esistenza della giusta causa gravi sulla datrice di lavoro ha poi in concreto accertato i fatti posti a fondamento del recesso ed ha escluso che, come sostenuto dalla Banca, già dalla documentazione prodotta dal lavoratore fosse emersa la sussistenza dei fatti addebitatigli e che avrebbero giustificato il recesso per giusta causa. In sostanza la Corte di merito, con accertamento e valutazione di fatto a lei riservata, ha escluso l’esistenza di una “pista probatoria” da approfondire senza fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova.

10. Con il quarto motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 anche in relazione all’art. 2392 c.c. e si sostiene che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che la contestazione dell’addebito non fosse estesa al fatto che il C. aveva agito come prestanome di altri soggetti nell’amministrazione della società N.S. e perciò non poteva essere posta a fondamento dell’irrogato licenziamento. Ritiene la Banca ricorrente che, in disparte la qualificazione della veste in base alla quale il lavoratore aveva agito, il fatto sottostante era stato contestato e si trattava solo di qualificarlo verificando in concreto se si trattava di attività svolta quale amministratore o quale prestanome.

11. Con il quinto motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2730 e 2735 c.c. in relazione all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 per essere stato disconosciuto il carattere confessorio delle dichiarazioni rese dal C. nell’ambito del procedimento disciplinare (in particolare nella nota del 7 maggio 2018). Deduce che vi era sia la consapevolezza che la volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte sia l’oggettiva idoneità del fatto ammesso ad arrecare un pregiudizio al dichiarante. Sostiene che i fatti dichiarati con i quali il lavoratore ha tentato di sminuire la sua responsabilità penale confermano comunque la fondatezza degli addebiti che gli sono stati mossi e giustificano il recesso. Insiste nel ritenere che la confessione non è stata in alcun modo invalidata e dunque è valida ed utilizzabile.

12. Con il sesto motivo, poi, la Banca ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e deduce che erroneamente si è ritenuto che le dichiarazioni contenute nelle giustificazioni non avrebbero esonerato la banca dalle necessarie allegazioni laddove invece i fatti addebitati riconosciuti nella loro materialità o comunque non contestati avrebbero dovuto essere ritenuti pacifici e pienamente provati.

13. Con il settimo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e si sostiene che in base alle descritte ammissioni del ricorrente la Corte avrebbe dovuto ritenere dimostrati i fatti contestati e sussistente la giusta causa di licenziamento attesa la gravità delle condotte contestate al C. funzionario di banca che si era prestato ad occultare il reale titolare della società N.S. ed a far sparire le prove degli illeciti commessi.

14. L’ultimo motivo, infine, denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 come modificato dalla legge n. 92 del 2012 e si deduce che erroneamente sarebbe stata disposta la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del comma 4 della citata norma posto che per il caso di mancata preventiva contestazione dell’addebito, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, la sanzione prevista dal comma 6 dell’art. 18 è quella del pagamento di un indennizzo pecuniario.

15. Le censure formulate nei motivi dal quarto al settimo devono essere dichiarate inammissibili. Esse, infatti, pur espresse in termini di violazione di legge si risolvono, nella sostanza, in una diversa valutazione dei fatti acquisiti al giudizio.

15.1. La Corte di merito ha accertato che dalle dichiarazioni rese anche nel corso del procedimento disciplinare da parte del lavoratore non era emersa alcuna ammissione dei fatti che, anzi, al contrario, erano stati contestati. Il giudice di appello si è fatto carico poi di esaminare la lettera del 7.5.2018 di risposta alla contestazione di addebiti ed ha escluso che contenesse ammissioni alle quali attribuire valenza confessoria dei fatti addebitati. In sostanza il giudice di merito, nell’esercizio del suo potere discrezionale e sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito, ha individuato le fonti del proprio convincimento, valutando le prove, controllandone l’attendibilità e la concludenza e scegliendo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr. ex plurimis, Cass. n. 16499 del 2009). In sostanza, esercitando il compito istituzionali conferitogli ha liberamente attinto il proprio convincimento da quelle prove che ha ritenuto più attendibili e idonee alla formazione dello stesso disattendendo taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, e congruamente motivando la decisione con esplicitazione delle ragioni del convincimento cui è pervenuta attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso (cfr. Cass. n.1306 del 2013 ed ivi le richiamate Cass. n. 16087 del 2003 e n. 5434 del 2003). Quanto all’indagine volta a stabilire se la dichiarazione della parte costituisca o meno confessione – e, cioè, ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte – va ribadito che essa si risolve in un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se, come nella specie, risulta fondato su di una motivazione immune da vizi logici (cfr. Cass. 14/02/2020 n. 3698 e 04/04/2003 n. 5330).

15.2. A ciò si aggiunga che, sempre in fatto, la Corte di appello ha verificato che nella contestazione non era stata specificatamente addebitata al ricorrente la circostanza di essere amministratore di mero fatto posto che la stessa aveva ad oggetto piuttosto le singole condotte illecite che tuttavia ha escluso che fossero state dimostrate. Dalla lettura della contestazione di addebito emergeva che la qualità di amministratore di mero fatto era riferita in maniera descrittiva nell’ambito dei capi di imputazione riportati e che, tuttavia, il datore di lavoro non aveva chiarito quale specifica rilevanza avrebbe avuto tale fatto. L’affermazione della Corte di Appello, che ne ha sottolineato l’irrilevanza, è dunque corretta e aderente alla contestazione di addebito che ha condotto al licenziamento. In sostanza la Corte di merito nel valutare complessivamente i fatti addebitati al lavoratore ha accertato che non vi erano elementi per ritenere che il C. avesse gestito direttamente la società rendendosi autore dei fatti addebitatigli in difformità dall’incarico dalla stessa Banca autorizzato.

15.3. In definitiva tutte le censure sotto diversi aspetti mirano ad una differente e più favorevole interpretazione dei fatti e nessuna delle violazioni di legge denunciate è in concreto ravvisabile e, specificatamente, non risulta violato l’art. 115 c.p.c. posto che il giudice non ha posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti o disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non ha trascurato di considerare che i fatti non erano stati contestati (posto che invece nella specie la contestazione c’era) né tanto meno ha fatto ricorso al notorio (che nella specie non risulta neppure prospettato) (cfr. Cass. n. 20867 2020).

15.4. Alla luce di tali complessive considerazioni, poi, l’accertata insussistenza di una giusta causa di recesso non si espone alla critica che le viene mossa proprio perché escluso il fatto addebitato è esclusa la esistenza stessa della causa di licenziamento.

16. L’ultimo motivo, che ha ad oggetto la tutela applicata, è palesemente infondato una volta che sia stata confermata l’insussistenza sotto il profilo giuridico dei fatti addebitati al lavoratore con conseguente corretta applicazione della tutela reintegratoria.

17. Per le ragioni esposte la sentenza impugnata deve essere confermata e le spese, liquidate in dispositivo, devono essere poste a carico della società soccombente. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

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