Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 febbraio 2023, n. 5796

Lavoro, Cessione di ramo d’azienda, Illegittimità della cessione, Riscontrata differenza tra retribuzione percepita dalla società cessionaria e quella che sarebbe spettata in caso di mancata cessione del contratto, Somme incassate a titolo di cassa integrazione, contratti di solidarietà o di mobilità, Comportamento inadempiente del cedente nei confronti del lavoratore ceduto, Risarcimento del danno, Costituzione in mora del datore di lavoro cedente, Accoglimento 

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha condannato T.I. s.p.a. al pagamento della somma di euro 83.711,34 a favore di M.C. a titolo di risarcimento del danno subìto nell’arco temporale decorrente dal novembre 2004 (epoca in cui era stato ceduto, a M.F., il ramo di azienda, cui apparteneva il lavoratore) all’8.1.2016 (data della sentenza del Tribunale di Bari che aveva dichiarato, con efficacia ex tunc, l’illegittimità della cessione).

2. Il giudice di appello ha ritenuto che, ricostituito con effetto ex tunc il rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente, è certamente ravvisabile un comportamento illegittimo della società cedente in caso di riscontrata differenza tra retribuzione percepita dalla società cessionaria (in specie, trattamento ridotto per contratti di solidarietà per il periodo maggio 2013-dicembre 2013; trattamento di cassa integrazione, per il periodo gennaio 2014-dicembre 2015) e retribuzione che sarebbe spettata in caso di mancata cessione del contratto, con conseguente insorgenza di una obbligazione di natura risarcitoria (trattandosi del periodo intercorrente tra la cessione e la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo di azienda, a differenza dell’obbligazione di natura retributiva che sorge successivamente la suddetta sentenza di accertamento), a prescindere dalla messa in mora del lavoratore (che nel caso di specie è intervenuta successivamente alla sentenza del Tribunale di Bari); ha aggiunto, in ordine alla quantificazione del danno, che le inferiori somme percepite dal lavoratore (in luogo della retribuzione che avrebbe percepito dalla società cedente) non potevano essere detratte a titolo di aliunde perceptum, sia perché di natura previdenziale sia in quanto ripetibili dagli istituti previdenziali, ed ha riconosciuto al lavoratore il danno corrispondente al differenziale tra trattamento percepito a titolo di cassa integrazione guadagni, mobilità, contratti di solidarietà e trattamento retributivo erogabile dalla società cedente, con esclusione dei premi di risultato, del premio annuo, dei buoni pasti e dei benefit ritenuti non provati in assenza di una esposizione chiara e specifica (al di là di un generico rinvio), nel ricorso introduttivo del giudizio, del contenuto degli accordi sindacali, delle modalità di calcolo, dei parametri da considerare e della carenza di chiarimenti necessari a seguito di precise controdeduzioni della società cedente.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso T.I. s.p.a. affidato a due motivi. Resiste con tempestivo controricorso il lavoratore, che propone ricorso incidentale affidato a tre motivi. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente in via principale denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione degli artt. 1206 e 1218 cod.civ., avendo, la Corte territoriale, confuso e sovrapposto due situazioni diverse: la ricostituzione del rapporto di lavoro e l’inadempimento, facendo derivare il secondo dalla prima, senza considerare che la mancata accettazione della prestazione rileva non come inadempimento ma semmai (ed a certe condizioni) come mora del creditore e che l’inadempimento presuppone che l’obbligazione lavorativa sia stata eseguita nei confronti del creditore, evento non accaduto. La ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro pone Telecom non nella posizione di soggetto inadempiente ma, tecnicamente, nella posizione della parte che (illegittimamente, in quanto il negozio traslativo era inefficace) non ha accettato le prestazioni del lavoratore ceduto, mancata accettazione che, peraltro, richiede – per assumere rilevanza giuridica – l’offerta della prestazione (che nel caso di specie è pacificamente intervenuta successivamente al periodo per cui è causa).

2. Con il secondo motivo si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione degli artt. 1218 e 1223 cod.civ. avendo, la Corte territoriale, trascurato il danno effettivo subìto dal lavoratore e dovendo, pertanto, essere prese in considerazione, ai fini della esatta quantificazione del danno, le somme incassate a titolo di cassa integrazione, contratti di solidarietà o di mobilità, originando sempre dallo stesso evento.

3. Con il primo motivo di ricorso incidentale si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., violazione dell’art. 414 cod.proc.civ. in relazione all’art. 2697 cod.civ. avendo, la Corte territoriale, ritenuto la domanda di danno relativa alla perdita di premi di risultato e premio annuo sfornita di prova piuttosto che nulla, ed avendo trascurato che i fatti costitutivi della domanda erano compiutamente allegati.

4. Con il secondo motivo di ricorso incidentale si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., violazione dell’art. 132 cod.civ. per contraddittorietà della motivazione, avendo, la Corte territoriale, ritenuto carente di allegazioni il ricorso introduttivo del giudizio ma rilevato che la controparte aveva offerto precise deduzioni, con ciò emergendo che il contraddittorio si era pienamente sviluppato.

5. Con il terzo motivo di ricorso incidentale si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., violazione degli artt. 112 e 115 cod.proc.civ. per erronea interpretazione della domanda.

6. Il primo motivo del ricorso principale è fondato nei sensi espressi dalla motivazione che segue.

7. La questione sottoposta a questa Corte concerne il danno lamentato dal lavoratore il quale, passato ad altra società a seguito di cessione di ramo di azienda, in seguito alla declaratoria giudiziale di illegittimità della cessione richieda al cedente il pagamento di somme per il differenziale tra quanto percepito dalla società cessionaria e quanto avrebbe potuto percepire in caso di continuità dell’originario contratto di lavoro. Si tratta, in particolare, di importi pretesi per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione.

8. Per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale, secondo una oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte, a seguito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo e dell’ordine del giudice di ripristinare il rapporto di lavoro con il datore di lavoro cedente, il rapporto con il cessionario è ritenuto instaurato in via di mero fatto e il sinallagma contrattuale tra cedente e lavoratore ceduto riprende effettività e rivivono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti e, in particolare, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2990 del 2018; nello stesso senso, Cass. n. 21947 del 2018; Cass. n. 17784 del 2019; Cass. n. 21158 del 2019; Cass. n. 21160 del 2019; Cass. n. 35982 del 2021; Cass. n. 32378 del 2022). Nel suddetto periodo, invero, “il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva”; solo per tale successivo arco temporale, traendo spunto da Corte cost. n. 303 del 2011 e “al fine di superare gli stretti confini della ritenuta corrispondenza tra la continuità della prestazione e la debenza della relativa obbligazione retributiva”, si è proceduto ad una “interpretazione costituzionalmente orientata della normativa” che ha indotto “al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività”, sicché “il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore” (Cass. Sez. Un. cit.). Pertanto, le Sezioni Unite hanno tenuto distinto il precedente arco temporale intercorrente tra il passaggio alle dipendenze del datore di lavoro cessionario e l’accertamento giudiziale della illegittimità della interposizione o della cessione, rispetto al quale non può che continuare a operare il “principio, che si è andato consolidando nell’elaborazione della S.C., secondo il quale il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l’erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto. In difetto di un’espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni” (Cass. Sez. Un. cit.).

9. Posta la natura risarcitoria delle somme eventualmente pretese dal lavoratore nel periodo precedente la pronunzia di illegittimità della vicenda traslativa, come già affermato da questa Corte, per detto periodo il rapporto di lavoro rimane quiescente fino alla declaratoria di inefficacia della cessione (cfr. Cass. n. 5998 del 2019, Cass. n. 35982 del 2021), mancando l’attualità delle reciproche obbligazioni delle parti. In seguito alla pronunzia giudiziale, la mancata ricezione della prestazione lavorativa nel periodo antecedente assurge a comportamento inadempiente del cedente nei confronti del lavoratore ceduto che può agire per il risarcimento del danno subìto sempre che abbia preventivamente provveduto a costituire in mora il datore di lavoro, con la messa a disposizione delle energie lavorative ovvero mediante intimazione di ricevere la prestazione, in modo da rendere ingiustificato il rifiuto del cedente e suscettibile di risarcimento l’eventuale danno cagionato. Altrimenti il cedente potrebbe legittimamente confidare sul consenso del lavoratore alla cessione del contratto di lavoro e, inoltre, si creerebbe una ingiustificata aporia per cui il ceduto, dopo la declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento d’azienda, potrebbe ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate successivamente alla sentenza, sempre che abbia costituito in mora il cedente, mentre avrebbe diritto al risarcimento del danno per il periodo precedente a prescindere dalla messa a disposizione delle sue energie lavorative.

10. In base agli stessi principi, questa Corte ha ritenuto che, nel caso analogo di provvedimento giudiziale di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, il lavoratore abbia diritto al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione maturata per il periodo precedente la declaratoria giudiziale (i c.d. intervalli “non lavorati”) solamente a seguito di messa in mora del datore di lavoro: trattandosi, anche in tali casi, di ricostruzione ex post del rapporto di lavoro, nel periodo precedente la declaratoria di nullità, non sussiste l’attualità del sinallagma contrattuale e il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla (Cass. n. 20858 del 2005; Cass. nn. 4677 e 24886 del 2006; Cass. n. 7979 del 2008; Cass. 12333 del 2009, con riguardo a ipotesi temporalmente collocabili prima dell’applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010; con riguardo a reiterazione di contratti per prestazioni temporanee, Cass. n. 15515 del 2009). E’ stato, invero, ritenuto che nel caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, non sussiste, per gli intervalli “non lavorati” tra l’uno e l’altro rapporto, il diritto del lavoratore alla retribuzione, mancando una deroga al principio generale secondo cui la maturazione di tali diritti presuppone la prestazione lavorativa, e considerato che la suddetta riunificazione in un solo rapporto, operando ex post, non incide sulla mancanza di una effettiva prestazione negli spazi temporali tra i contratti a tempo determinato (Cass. nn. 8352 e 8366 del 2003; Cass. n. 20858 del 2005). Ciò sulla base dell’insegnamento delle Sezioni unite che, per il “dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo”, hanno escluso “il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza […] salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente” (Cass. Sez. Un. n. 14381 del 2002; in precedenza v. Cass. Sez. Un. n. 2334 del 1991).

11. Conclusivamente, il lavoratore ceduto, che vede giudizialmente ripristinato il rapporto di lavoro con il cedente, non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione e può ottenere il risarcimento del danno subìto a causa dell’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, detratto l’eventuale aliunde perceptum, soltanto a partire dal momento in cui abbia provveduto a costituire in mora il datore di lavoro cedente ex art. 1217 cod.civ.

12. Nel caso di specie, l’offerta della prestazione è intervenuta, pacificamente, in data successiva alla pronuncia di declaratoria della illegittimità della cessione del ramo di azienda (in specie, con missiva del marzo 2016); inoltre, la Corte territoriale ha accertato, con valutazione di merito insindacabile in questa sede, che “nessuna valida messa in mora era contenuta nel ricorso introduttivo dell’originario giudizio di legittimità della cessione”; nessun diritto al risarcimento del danno è, dunque, maturato a favore del lavoratore.

13. Il secondo motivo del ricorso principale e tutti i motivi del ricorso incidentale sono assorbiti, attenendo alla quantificazione del risarcimento del danno.

14. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso principale, assorbiti il secondo motivo di ricorso principale e il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata e, decidendo nel merito, questa Corte rigetta la domanda proposta dal lavoratore nel ricorso introduttivo del giudizio. In considerazione della (parziale) reciproca soccombenza e della novità della questione, le spese di lite sono integralmente compensate tra le parti.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo di ricorso principale, assorbiti il secondo motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta dal lavoratore nel ricorso introduttivo del giudizio.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 febbraio 2023, n. 5796
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