Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 febbraio 2023, n. 5788

Lavoro, Cessione di ramo d’azienda, Illegittimità della cessione, Rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente, Pagamento di somme per il differenziale tra quanto percepito dalla società cessionaria e quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire in caso di continuità dell’originario contratto di lavoro, Importi pretesi per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione, Natura risarcitoria delle somme pretese dal lavoratore nel periodo precedente la pronunzia di illegittimità, Risarcimento del danno, Messa in mora, Rigetto 

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Milano, confermando la sentenza del Tribunale della medesima sede, ha respinto la domanda di E.P. proposta nei confronti di T.I. s.p.a. per la condanna al risarcimento del danno subito nell’arco temporale decorrente dal novembre 2004 (epoca in cui era stato ceduto, a M.F., il ramo di azienda, cui apparteneva la lavoratrice) al 31.12.2005 (data della sentenza del Tribunale di Bari che aveva dichiarato, con efficacia ex tunc, l’illegittimità della cessione).

2. Il giudice di appello ha ritenuto che, ricostituito con effetto ex tunc il rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente, sorge, a carico della società cedente un’obbligazione di carattere retributivo sin dall’epoca della cessione (dichiarata illegittima) del ramo di azienda, la cui pretesa è condizionata – in difetto di prestazione di lavoro – alla costituzione in mora del creditore, messa in mora che era stata effettuata, dalla lavoratrice, solamente a seguito della sentenza del Tribunale di Bari e che non poteva essere ravvisata nel ricorso giudiziale che aveva impugnato la cessione del ramo di azienda.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice affidato a due motivi. Resiste con tempestivo controricorso la società T.I. s.p.a. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione degli artt. 1206 e 1207 cod.civ., avendo, la Corte territoriale, confuso e sovrapposto due situazioni diverse: la ricostituzione del rapporto di lavoro a seguito della sentenza di accertamento della illegittimità della cessione di ramo di azienda (che fa sorgere l’obbligazione retributiva in capo alla società cedente, come riconosciuto da orientamento consolidato della Corte di Cassazione e del giudice delle leggi) e il periodo precedente alla suddetta sentenza (che fa sorgere un diritto di natura risarcitoria a favore del lavoratore). Prima della ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro non poteva essere costituita in mora la società Telecom in quanto era controversa la sussistenza, nei suoi confronti, del rapporto di lavoro.

2. Con il secondo motivo si denunzia, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione degli artt. 1218 e 1223 cod.civ. avendo, la Corte territoriale, trascurato il danno subìto dal lavoratore consistente nei decrementi patrimoniali quali conseguenza immediata e diretta di un atto illecito (ossia la cessione, senza consenso, del contratto di lavoro, in violazione dell’art. 2112 cod.civ.).

3. I due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, non sono fondati.

4. La questione sottoposta a questa Corte concerne il danno lamentato dal lavoratore il quale, passato ad altra società a seguito di cessione di ramo di azienda, in seguito alla declaratoria giudiziale di illegittimità della cessione richieda al cedente il pagamento di somme per il differenziale tra quanto percepito dalla società cessionaria e quanto avrebbe potuto percepire in caso di continuità dell’originario contratto di lavoro. Si tratta, in particolare, di importi pretesi per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione.

5. Per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale, secondo una oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte, a seguito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo e dell’ordine del giudice di ripristinare il rapporto di lavoro con il datore di lavoro cedente, il rapporto con il cessionario è ritenuto instaurato in via di mero fatto e il sinallagma contrattuale tra cedente e lavoratore ceduto riprende effettività e rivivono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti e, in particolare, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2990 del 2018; nello stesso senso, Cass. n. 21947 del 2018; Cass. n. 17784 del 2019; Cass. n. 21158 del 2019; Cass. n. 21160 del 2019; Cass. n. 35982 del 2021; Cass. n. 32378 del 2022). Nel suddetto periodo, invero, “il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva”; solo per tale successivo arco temporale, traendo spunto da Corte cost. n. 303 del 2011  e “al fine di superare gli stretti confini della ritenuta corrispondenza tra la continuità della prestazione e la debenza della relativa obbligazione retributiva”, si è proceduto ad una “interpretazione costituzionalmente orientata della normativa” che ha indotto “al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività”, sicché “il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore” (Cass. Sez. Un. cit.). Pertanto, le Sezioni Unite hanno tenuto distinto il precedente arco temporale intercorrente tra il passaggio alle dipendenze del datore di lavoro cessionario e l’accertamento giudiziale della illegittimità della interposizione o della cessione, rispetto al quale non può che continuare a operare il “principio, che si è andato consolidando nell’elaborazione della S.C., secondo il quale il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l’erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto. In difetto di un’espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni” (Cass. Sez. Un. cit.).

6. Posta la natura risarcitoria delle somme eventualmente pretese dal lavoratore nel periodo precedente la pronunzia di illegittimità della vicenda traslativa, come già affermato da questa Corte, per detto periodo il rapporto di lavoro rimane quiescente fino alla declaratoria di inefficacia della cessione (cfr. Cass. n. 5998 del 2019, Cass. n. 35982 del 2021), mancando l’attualità delle reciproche obbligazioni delle parti. In seguito alla pronunzia giudiziale, la mancata ricezione della prestazione lavorativa nel periodo antecedente assurge a comportamento inadempiente del cedente nei confronti del lavoratore ceduto che può agire per il risarcimento del danno subìto sempre che abbia preventivamente provveduto a costituire in mora il datore di lavoro, con la messa a disposizione delle energie lavorative ovvero mediante intimazione di ricevere la prestazione, in modo da rendere ingiustificato il rifiuto del cedente e suscettibile di risarcimento l’eventuale danno cagionato. Altrimenti il cedente potrebbe legittimamente confidare sul consenso del lavoratore alla cessione del contratto di lavoro e, inoltre, si creerebbe una ingiustificata aporia per cui il ceduto, dopo la declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento d’azienda, potrebbe ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate successivamente alla sentenza, sempre che abbia costituito in mora il cedente, mentre avrebbe diritto al risarcimento del danno per il periodo precedente a prescindere dalla messa a disposizione delle sue energie lavorative.

7. In base agli stessi principi, questa Corte ha ritenuto che, nel caso analogo di provvedimento giudiziale di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, il lavoratore abbia diritto al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione maturata per il periodo precedente la declaratoria giudiziale (i c.d. intervalli “non lavorati”) solamente a seguito di messa in mora del datore di lavoro: trattandosi, anche in tali casi, di ricostruzione ex post del rapporto di lavoro, nel periodo precedente la declaratoria di nullità, non sussiste l’attualità del sinallagma contrattuale e il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla (Cass. n. 20858 del 2005; Cass. nn. 4677 e 24886 del 2006; Cass. n. 7979 del 2008; Cass. 12333 del 2009, con riguardo a ipotesi temporalmente collocabili prima dell’applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010; con riguardo a reiterazione di contratti per prestazioni temporanee, Cass. n. 15515 del 2009). E’ stato, invero, ritenuto che nel caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, non sussiste, per gli intervalli “non lavorati” tra l’uno e l’altro rapporto, il diritto del lavoratore alla retribuzione, mancando una deroga al principio generale secondo cui la maturazione di tali diritti presuppone la prestazione lavorativa, e considerato che la suddetta riunificazione in un solo rapporto, operando ex post, non incide sulla mancanza di una effettiva prestazione negli spazi temporali tra i contratti a tempo determinato (Cass. nn. 8352 e 8366 del 2003; Cass. n. 20858 del 2005). Ciò sulla base dell’insegnamento delle Sezioni unite che, per il “dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo”, hanno escluso “il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza […] salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente” (Cass. Sez. Un. n. 14381 del 2002; in precedenza v. Cass. Sez. Un. n. 2334 del 1991).

8. Conclusivamente, il lavoratore ceduto, che vede giudizialmente ripristinato il rapporto di lavoro con il cedente, non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione e può ottenere il risarcimento del danno subìto a causa dell’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, detratto l’eventuale aliunde perceptum, soltanto a partire dal momento in cui abbia provveduto a costituire in mora il datore di lavoro cedente ex art. 1217 cod.civ.

9. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha rilevato la natura retributiva delle somme pretese dalla lavoratrice e, sottolineando che l’offerta della prestazione è intervenuta, pacificamente, in data successiva alla pronuncia di declaratoria della illegittimità della cessione del ramo di azienda, ha respinto la domanda; la sentenza impugnata, che deve essere corretta nei passaggi motivazionali ove il credito avanzato dalla lavoratrice è stato erroneamente qualificato di natura retributiva (e non risarcitoria), va confermata nella misura in cui – in assenza di tempestiva messa in mora – ha rigettato la domanda introduttiva del giudizio.

10. In conclusione, il ricorso va rigettato. In considerazione della novità della questione, le spese di lite del presente giudizio di legittimità sono integralmente compensate tra le parti.

11. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto

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