Il divieto di conversione dei co.co.co. a termine illegittimi non preclude il riconoscimento del T.F.R. qualora il giudice accerti che, in fatto, il collaboratore ha svolto prestazioni di natura subordinata.
Nota a Cass. (ord.) 13 febbraio 2023, n. 4360
Fabrizio Girolami
Nel lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, in caso di abusiva reiterazione di contratti di collaborazione coordinata e continuativa a tempo determinato che, in seguito ad accertamento giudiziario, risultino avere la sostanza di un contratto di lavoro subordinato, fermo restando il divieto di conversione in rapporto a tempo indeterminato, il lavoratore impiegato abusivamente dalla P.A. ha diritto non solo a un’indennità risarcitoria, ma anche alla corresponsione del T.F.R. e alla regolarizzazione della posizione contributiva previdenziale per il periodo pregresso.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 4360 del 13 febbraio 2023, nell’ambito di una controversia insorta tra l’ente pubblico economico ENAM (Ente nazionale di assistenza magistrale, le cui competenze sono state poi trasferite all’INPS) e un lavoratore che aveva per esso prestato servizio per effetto di 4 contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) a tempo determinato, stipulati senza sostanziale soluzione di continuità e con le modalità tipiche del lavoro subordinato.
La Cassazione ha rigettato il ricorso dell’INPS contro la sentenza d’appello, affermando, tra l’altro, quanto segue:
- il T.F.R. “è un elemento della retribuzione il cui pagamento viene differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro”, configurando una “prestazione economica che compete al lavoratore subordinato all’atto della cessazione del rapporto di lavoro per qualsiasi motivo (licenziamento, dimissioni, o raggiungimento dell’età della pensione)”;
- il T.F.R. “matura durante lo svolgimento del rapporto ed è costituito dalla somma di accantonamenti annui di una quota di retribuzione rivalutata periodicamente” e costituisce “un compenso con corresponsione differita al momento della cessazione del rapporto di lavoro, ovvero un salario posticipato calcolato per quote annuali” e, come tale, non può formare oggetto di rinuncia “prima della cessazione del rapporto di lavoro” (un’eventuale rinuncia preventiva sarebbe affetta da nullità per mancanza dell’oggetto, riguardando “un diritto futuro”);
- il diritto al T.F.R., ai sensi dell’art. 2120 c.c., sorge “al momento della cessazione del rapporto di lavoro”, ed è soltanto da tale data che decorre il termine di prescrizione del credito del lavoratore (cfr., in tal senso, ex aliis, Cass. 18.02.2010, n. 3894). A tale proposito, è irrilevante, al fine di ipotizzare una diversa decorrenza del T.F.R., l’accantonamento annuale “della quota di T.F.R., che costituisce una mera modalità di calcolo dell’unico diritto che matura nel momento anzidetto, ovvero l’anticipazione sul trattamento medesimo, che è corresponsione di somme provvisoriamente quantificate e prive del requisito della certezza, atteso che il diritto all’integrale prestazione matura, per l’appunto, solo alla fine del rapporto lavorativo”;
- quanto al concetto di “retribuzione”, da assumere come base di riferimento per il calcolo del T.F.R., il legislatore ha definito una nozione di retribuzione “omnicomprensiva”, ricomprendendo tutte le somme che trovano “la propria causa nel rapporto di lavoro, a prescindere dalla stretta correlazione con l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa”;
- in questa prospettiva, ai fini del riconoscimento del T.F.R., l’art. 2120 c.c. non esige la percezione di una regolare retribuzione nell’ambito di un rapporto formalmente qualificato “ab initio” dalle parti come subordinato, essendo sufficiente il riconoscimento di una qualsiasi utilità che abbia l’effetto economico “dell’incremento del patrimonio del lavoratore, il quale rappresenti il corrispettivo di una prestazione qualificata come normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate”;
- pertanto, il diritto al T.F.R. sorge “per il semplice fatto della percezione di importi, principalmente in denaro, che compensino il valore professionale delle mansioni espletate”, non rilevando, invece, il “dato formale dell’esistenza, al momento della cessazione del rapporto, di una esplicita qualificazione dello stesso come subordinato, assumendo valore solo la sostanza della prestazione resa con il lavoro, definibile in concreto come subordinata”;
- nel pubblico impiego privatizzato, la violazione delle disposizioni in tema di assunzione del dipendente – e, nello specifico, di quelle sulla stipulazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa – non può tradursi nella costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sulla base del principio generale desumibile dall’art. 36, co. 5, del D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni”. Tuttavia, detto divieto di conversione non preclude la maturazione del diritto del lavoratore al T.F.R., qualora il giudice accerti – sulla base di indici sintomatici (quali, ad esempio, la continuità della prestazione lavorativa e l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione datoriale) – che, in fatto, il collaboratore coordinato e continuativo ha eseguito prestazioni di natura subordinata;
- il TFR compete, infatti, all’interessato “per il fatto stesso di avere ricevuto un compenso corrispondente al valore delle mansioni lavorative svolte, a condizione che tali mansioni siano riconducibili ad un rapporto di natura subordinata ed a prescindere dalla qualificazione formale dello stesso ad opera delle parti contraenti”.