Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 marzo 2023, n. 6827

Reiterati contratti di lavoro a tempo determinato, Condizione di precarietà lavorativa, Somme percepite dal lavoratore/contribuente a titolo risarcitorio, Illegittima precarizzazione del rapporto di impiego da parte della pubblica amministrazione, Perdita di chance, Accoglimento

 

Fatti di causa

 

1. Con istanza presentata all’Agenzia delle entrate C.M.L. chiedeva il rimborso delle ritenute effettuate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sulle somme erogate a seguito di sentenza del Tribunale di Viterbo – sezione lavoro, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del comportamento di detto Ministero, per avere stipulato nei confronti della ricorrente reiterati contratti di lavoro a tempo determinato in successione tra loro per la copertura di esigenze lavorative e non transitorie, ed era stato disposto il risarcimento dei danni cagionati dalla precarietà dell’occupazione lavorativa, nella misura pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. Formatosi il silenzio-rifiuto da parte dell’Amministrazione finanziaria, la contribuente proponeva tempestivo ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Viterbo la quale, con sentenza n. 991/01/2015, depositata il 13 novembre 2015, lo rigettava, confermando la legittimità del silenzio-rifiuto impugnato.

3. Interposto gravame dalla contribuente, la Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 2193/17/2017, pronunciata il 29 marzo 2017 e depositata in segreteria il 12 aprile 2017, rigettava l’appello, condannando la ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

4. Avverso tale ultima sentenza propone ricorso per cassazione C.M.L., sulla base di un unico motivo.

Resistono con controricorso l’Agenzia delle entrate ed il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

5. All’udienza pubblica del 9 novembre 2022 il consigliere relatore ha svolto la relazione ed il P.M. ed i procuratori delle parti hanno rassegnato le proprie conclusioni ex art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. in l. 18 dicembre 2020, n. 176.

 

Ragioni della decisione

 

6. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in quanto la somma riconosciuta dal Tribunale di Viterbo – sezione lavoro in suo favore aveva natura risarcitoria, in relazione alla condizione di precarietà lavorativa subita dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, e non reddituale, e come tale non era assoggettate a tassazione.

7. Il motivo è fondato.

Costituisce principio consolidato quello secondo il quale tutte le indennità percepita dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistenti nella perdita di redditi, e quindi tutte le indennità aventi causa o che traggano, comunque, origine dal rapporto di lavoro, sono soggette a tassazione.

L’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 917/1986 prevede, infatti, che «i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti».

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le somme percepite dal lavoratore/contribuente a titolo risarcitorio costituiscono reddito imponibile solo e nei limiti in cui abbiano la funzione di reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi e, pertanto, unicamente quelle relative al lucro cessante, con esclusione quindi del danno emergente (Cass. 9 maggio 2022, n. 14671; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5108).

Nel caso di specie, il Tribunale di Viterbo ha riconosciuto il risarcimento in favore della sig.ra C. ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che prevede il divieto della costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con la pubblica amministrazione, anche nel caso di violazione, da parte di quest’ultima, delle norme riguardanti l’assunzione e l’impiego dei lavoratori, fermo restando per l’interessato il diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione delle relative disposizioni imperative.

Orbene, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, hanno affermato il principio di diritto secondo cui: «in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al d.lgs. n. 165 del 2011, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della p.A., ed è configurabile come perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ.».

Anche la giurisprudenza successiva, in analoga fattispecie, ha precisato che, nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui alla l. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 (Cass. 15 febbraio 2019, n. 4657).

Attribuita, pertanto, all’importo corrisposto alla ricorrente, in virtù dei superiori principi, natura risarcitoria da perdita di chance (ovvero di risarcimento di danno comunitario) estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, va affermato che gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno ex art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, non sono assoggettabili a tassazione ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 917/1986, in quanto le relative somma – quand’anche, come nel caso di specie,

determinate facendosi riferimento ad un determinato numero di mensilità non corrisposte – hanno funzione esclusivamente risarcitoria, e non sono sostitutive della retribuzione (Cass. 23 ottobre 2019, n. 27011; v. anche Cass. 12 ottobre 2018, n. 25471).

8. Il ricorso deve quindi essere accolto; la sentenza impugnata deve pertanto essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento del ricorso proposto in primo grado da C.M.L., e l’annullamento del silenzio-rifiuto impugnato.

9. Sussistono giustificati motivi per la compensazione integrale tra le parti delle spese dei giudizi di merito, in considerazione delle incertezze interpretative pregresse circa la natura del risarcimento dei danni per illegittima reiterazione di rapporti di lavoro a tempo determinato, con condanna, invece, dell’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso proposto in primo grado dalla ricorrente ed annulla il silenzio-rifiuto impugnato.

Compensa integralmente tra le parti le spese dei gradi di merito, e condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione, in favore di C.M.L., delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 2.000,00 per compensi, oltre 15% per rimborso spese generali, C.A.P. ed I.V.A.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 marzo 2023, n. 6827
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