Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 marzo 2023, n. 6555
Sanzione disciplinare espulsiva, Destituzione,Termine per difendersi dalle contestazioni disciplinari, Diritto di giustificarsi del lavoratore anche oralmente, Mancata costituzione del Consiglio di disciplina, Rigetto
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 460/2019, il Tribunale di Pisa accoglieva il ricorso in opposizione, proposto ai sensi dell’art. 1, comma 51, L. n. 92/2012, dalla convenuta C. s.r.l., avverso l’ordinanza del medesimo Tribunale, che, sul ricorso dell’attrice C.C., aveva ritenuto nulla la sanzione disciplinare espulsiva applicata alla lavoratrice (licenziamento/destituzione), con conseguente applicazione in suo favore della tutela di cui all’art. 18, comma 1, L. n. 300/1970.
2. La sentenza emessa in sede d’opposizione, superando le eccezioni della lavoratrice relative ai vizi della procedura disciplinare come quelle di merito, revocava in toto l’ordinanza resa nella fase sommaria.
3. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Firenze, in accoglimento del reclamo proposto dall’istante contro la sentenza resa in sede d’opposizione, e in riforma di quest’ultima, dichiarava la nullità del licenziamento e della destituzione della reclamante, ai sensi dell’art. 18, comma 1, L. n. 300/1970 novellato, e, per l’effetto, condannava la società reclamata a reintegrare la reclamante nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore, dell’indennità di cui al comma 2 dello stesso art. 18, pari all’ultima retribuzione globale di fatto, maturata dal licenziamento alla reintegra, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali; compensava per metà le spese delle fasi del primo grado, nonché del secondo grado, condannando la reclamata al pagamento della residua metà, come liquidata.
4. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, nell’accogliere il reclamo sulle questioni procedurali relative alla violazione degli artt. 53 e 54 di cui all’All. A al r.d. n. 148/1931 (in base al principio della ragione più liquida), segnatamente circa la mancata costituzione del Consiglio di disciplina e quindi della mancata pronuncia di tale organo circa la destituzione della lavoratrice, con ampia motivazione riteneva in sintesi che effettivamente tali disposizioni fossero state violate, che le difese orali della lavoratrice erano state tempestive, che le disposizioni del cit. r.d. in tema di consiglio di disciplina fossero tuttora vigenti, che, quanto agli effetti della mancata costituzione del consiglio di disciplina, l’omesso ricorso al giudizio di tale organo, nonostante la rituale richiesta della lavoratrice, viziava dunque irrimediabilmente il procedimento sanzionatorio conclusosi con la inflizione della sanzione direttamente dalla parte datoriale, competendo perciò alla reclamante la piena tutela ex art. 18 L. n. 300/1970.
5. Avverso tale decisione la C. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
6. Ha resistito l’intimata con controricorso.
7. La ricorrente ha prodotto memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo articolato motivo di ricorso, la ricorrente denuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c. “Violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 54 dell’all. A al r.d. 8 gennaio 1931, n. 148”.
2. Con il secondo motivo, la stessa denuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c. “Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300”.
3. La principale doglianza sub 1. riguarda due aspetti distinti.
In un primo punto di censura, la ricorrente – richiamato il disposto dell’art. 53 dell’All. A al r.d. n. 148/1931 nella parte in cui recita: “Gli agenti hanno diritto, entro cinque giorni dalla notifica, di presentare a voce o per iscritto eventuali nuove giustificazioni, in mancanza delle quali, entro il detto termine, il provvedimento disciplinare proposto diviene definitivo ed esecutivo” -, premette che la C. aveva ricevuto l’opinamento il 17 maggio 2018 ed avrebbe dovuto “presentare a voce o per iscritto eventuali nuove giustificazioni” entro il 22 maggio successivo; mentre con fax inviato in tale ultima data aveva chiesto “una audizione verbale, avvalendomi dell’assistenza dell’organizzazione sindacale di mia fiducia”. Secondo l’impugnante, allora, la C. non si era giustificata, nel termine imposto dalla legge, in alcuna delle forme consentite, con la conseguenza, parimenti prevista dalla legge, che l’opinamento è divenuto definitivo, con preclusione alla pronuncia da parte del Consiglio di disciplina.
Riferisce, quindi, la ricorrente che la Corte territoriale aveva disatteso tale eccezione osservando che <“per essere effettivamente svolte le difese orali dell’incolpata richiedevano la necessaria collaborazione del datore, che avrebbe dovuto convocarla, con il suo sindacalista in luogo ed ora determinati. Ed in assenza di tale convocazione (nel caso in esame avvenuta oltre i 5 giorni) non si capisce come sarebbe possibile per la lavoratrice imporre in modo unilaterale la propria audizione” (così a pag. 16 della sentenza)>.
Secondo la stessa, però, quest’ultima affermazione, che pretenderebbe di avere dalla sua la forza dell’evidenza, sconta una ricostruzione errata della disciplina del settore, dalla quale viene tratto un corollario parimenti errato.
Il termine dei 5 giorni, infatti, nel sistema del r.d. n. 148/1931 assolve a una doppia funzione: di consentire al dipendente incolpato di presentare eventuali e ulteriori giustificazioni, dopo quelle successive alla contestazione, a seguito del c.d. opinamento, ma anche di aprire la strada alla possibile richiesta della pronuncia da parte del consiglio di disciplina.
Sempre per la ricorrente, doveva trovare applicazione nella specie l’art. 1217 c.c., ma quanto aveva genericamente chiesto la dipendente non era una costituzione in mora.
Inoltre, per la ricorrente, il termine di cui all’art. 7, quinto comma, L. n. 300/1970 è dilatorio a favore del dipendente, mentre quello di cui all’art. 53, comma 8, dell’All. A al r.d. n. 148/1931 è perentorio rispetto allo stesso dipendente.
4. Tale primo punto di censura del motivo in esame è infondato.
La ricorrente non coglie del tutto la ratio decidendi a riguardo della Corte territoriale.
Quest’ultima aveva dedicato apposito paragrafo della sua pronuncia (quello alle pagg. 15-18) alla questione ora riproposta dalla ricorrente.
Sul piano giuridico, dopo aver dato conto di quali fossero le posizioni assunte dalle parti e dai giudici delle fasi precedenti del primo grado, la Corte d’appello aveva considerato “che la destituzione oggetto del cd. opinamento provvisorio non poteva essere divenuta definitiva, avendo la lavoratrice tempestivamente esercitato (nei 5 giorni da tale comunicazione) il suo diritto di chiedere di potersi giustificare a voce, non essendo invece nella sua disponibilità la fissazione della relativa data di convocazione avanti all’Azienda perché le stesse difese orali fossero finalmente espresse alla controparte alla presenza del sindacalista”.
In particolare, dopo il passo preso in considerazione dalla ricorrente, la motivazione della Corte distrettuale così prosegue: “Può essere qui invocato il medesimo principio generale, formulato dalla giurisprudenza di legittimità per i rapporti di lavoro cui si applica la L. 300/1970, secondo il quale se il lavoratore ha un termine per difendersi dalle contestazioni disciplinari, e può scegliere fra modalità scritta o verbale, le sue difese orali sono tempestive qualora nel medesimo termine egli chiede di essere sentito, anche se poi la sua audizione avvenga a termine scaduto”, con richiamo a riguardo di diversi precedenti di legittimità.
Inoltre, riteneva la Corte di merito che: “Non vi è dubbio che il R., benché adottato in pieno regime corporativo, debba essere interpretato alla luce dei medesimi principi generali della giurisprudenza di legittimità ora richiamati.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti esteso anche al R il fondamento costituzionale del favore riservato alle difese orali del lavoratore incolpato, a maggior ragione se assistito dal proprio sindacalista”, ed in tal senso ha richiamato Cass. n. 2012/11543.
5. Pertanto, l’effettiva e completa ratio decidendi sulla questione specifica, esposta dalla Corte d’appello, s’incentra sull’assunto che, una volta comunicato l’opinamento all’agente interessato, essendo nel testo dell’art. 53, comma ottavo, cit. il diritto dell’agente interessato di giustificarsi rispetto alla contestazione, esplicitamente delineato nel senso che possa essere esercitato oralmente o per iscritto, quando il dipendente opti per la difesa orale debbano valere in tal caso i medesimi principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione al combinato disposto dei commi secondo e quinto dell’art. 7 L. n. 300/1970.
E, in termini generali, questa Corte, anche di recente, ha confermato che, in tema di procedimento disciplinare, nel caso in cui il lavoratore, dopo avere presentato giustificazioni scritte senza formulare alcuna richiesta di audizione orale, avanzi tale richiesta successivamente, entro il termine di cui al comma 5 dell’art. 7 della L. n. 300 del 1970, il datore di lavoro è tenuto a provvedere all’audizione – con conseguentemente illegittimità della sanzione adottata in mancanza di tale adempimento – senza poter sindacare la necessità o opportunità della integrazione difensiva, non sussistendo ragioni per limitare il diritto di difesa, preordinato alla tutela di interessi fondamentali del lavoratore, in assenza di un apprezzabile interesse contrario della parte datoriale, che riceve comunque adeguata tutela la stringente cadenza temporale che regola il procedimento disciplinare (così Cass. civ., sez. lav., 22.9.2020, n. 19846).
Nota il Collegio che, con precipuo riferimento all’ambito normativo che qui ci occupa, Cass. civ., sez. lav., 10.7.2012, n. 11543, condivisibilmente citata dalla Corte territoriale, aveva affermato il seguente principio di diritto: “L’art. 53, comma 2, del regolamento All. A al R.D. 8 gennaio 1931, sullo stato giuridico degli autoferrotranvieri, il quale stabilisce, in materia di procedimento disciplinare, che i funzionari competenti “devono contestare all’agente i fatti di cui è imputato, invitandolo a giustificarsi” va interpretato nel senso che costituisce diritto dell’agente medesimo, il quale abbia già formulato proprie difese scritte, di chiedere di giustificarsi oralmente, con l’assistenza di un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato”. E più di recente Cass. civ., sez. lav., 14.5.2019, n. 12770, in parte motiva, ha adesivamente richiamato Cass. n. 855/2017, nella cui motivazione era stato scritto che: “3.5. La giurisprudenza di questa Corte ha poi rilevato che una lettura del secondo comma dell’art. 53, che prevede che il lavoratore debba essere invitato a giustificarsi, coerente con le garanzie predisposte in via generale dall’art. 7 della L. n. 300 del 1970 e conforme ai parametri costituzionali, impone di ritenere che il lavoratore incolpato abbia diritto, a richiesta, di essere sentito oralmente a propria difesa con l’eventuale assistenza di un rappresentante sindacale, anche nel caso in cui abbia comunicato le proprie giustificazioni scritte, ed ancorché queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive (Cass. 10 luglio 2012, n. 11543 e nello stesso senso Cass. 2 novembre 2014 n. 26115 e prima ancora Cass. 17 maggio 2005 n. 10303)”.
Dunque, in relazione all’art. 53, comma secondo, cit., norma che si colloca nella prima fase del procedimento disciplinare speciale, è stato già affermato il diritto dell’incolpato, su sua richiesta, di giustificarsi oralmente; diritto cui corrisponde ovviamente l’obbligo datoriale di provvedere all’audizione.
A maggior motivo, allora, rispetto al comma ottavo del medesimo art. 53, norma relativa ad ulteriore fase del medesimo procedimento, e che espressamente fa riferimento al diritto di giustificarsi del lavoratore anche oralmente, s’impone la medesima soluzione ermeneutica.
Naturalmente, poi, una richiesta del lavoratore in tal senso è di per sé sola sufficiente ad indurre l’obbligo datoriale di procurare la sua audizione, non essendo necessaria a riguardo un’intimazione ex art. 1217 c.c., come invece sostenuto dalla ricorrente.
6. Anche il rilievo, sottolineato da quest’ultima, che dal testo dell’art. 53, comma 8, cit. sarebbe argomentabile la natura perentoria del termine di cinque giorni per giustificarsi, non coglie nel segno.
Infatti, secondo l’orientamento di questa Corte sopra riferito, il termine sancito nell’art. 7, comma quinto, L. n. 300/1970, è comunque quello entro il quale il lavoratore può chiedere di essere sentito, non diversamente a riguardo in confronto all’art. 53, comma ottavo, dell’All. A al r.d. cit.
7. Come si è visto, nell’affrontare la questione in esame sul piano giuridico, il giudice collegiale a quo aveva appunto posto in luce che la datrice di lavoro aveva dato corso alla richiesta della lavoratrice di essere sentita, ma convocandola oltre i 5 giorni.
Pertanto, procedendo come sopra, la stessa datrice di lavoro non aveva reputato già definitivo il provvedimento disciplinare omisso medio, vale a dire, per il sol fatto che entro i cinque giorni la lavoratrice avesse solo chiesto di essere sentita (piuttosto che difendersi a voce o per iscritto), come poi sostenuto in giudizio, bensì confermava detto provvedimento all’esito della nuova audizione dell’incolpata (sul punto v. anche infra).
8. Passando, perciò, ad esaminare il secondo e più rilevante profilo in cui si articola il primo motivo, premette la ricorrente che la Corte fiorentina motivava come segue sulla questione dell’inesistenza nella specie del consiglio di disciplina: <“Tanto chiarito, non è poi seriamente discutibile che il senso delle norme del R. qui controverse possa essere quello di consentire l’accesso alla deliberazione del Consiglio di disciplina soltanto ove il medesimo sia già costituito – altrimenti potendosi facilmente vanificare la garanzia riconosciuta dalla norma al lavoratore senza nemmeno bisogno di una modifica della disposizione di legge” (così a pag. 16 della sentenza)>.
Secondo l’impugnante, allora, tale interpretazione contrastava, in primo luogo, con la lettera degli artt. 53, commi 8 e 10, del r.d. n. 148.
Sempre per la ricorrente, qualora l’art. 53 cit. dovesse interpretarsi nel senso ritenuto dalla Corte territoriale, essa contrasterebbe dall’art. 41 Cost.
Ed infatti, secondo la stessa, la stessa Corte nel negare l’incostituzionalità della norma, effettuava un bilanciamento in astratto di diritti parimenti garantiti dalla Carta costituzionale, il che equivaleva a uno pseudo-bilanciamento.
La ricorrente, ancora, sostiene che la previsione del C. era doppiamente disponibile, come regola, perché può essere abrogata dalla contrattazione collettiva, e, ammessane la perdurante vigenza, nei casi specifici, perché, anzi, la sua applicazione dev’essere specificamente richiesta dall’interessato.
Per contro, la sospensione sine die del potere disciplinare si risolve, all’evidenza, nella sua negazione, che la Corte riteneva di mitigare, richiamando la possibilità dei ricorrere ad una sospensione cautelare, che, invece, non poteva surrogare l’esercizio del potere disciplinare.
9. La Corte fiorentina ha anzitutto confermato l’attuale vigenza delle norme dell’All. A al r.d. n. 148/1931 in tema di consiglio di disciplina, concludendo che nessun dubbio di irragionevole disparità di trattamento si poteva essere concretizzato con la norma di cui all’art. 102, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 112/1998, poiché con tale norma il legislatore nazionale ha provveduto, per quanto di sua competenza con riguardo alle gestioni governative, lasciando al legislatore regionale una analoga facoltà (peraltro, nel caso in esame non sfruttata dalla Regione Toscana) (cfr. in extenso le pagg. 18-20 della sua sentenza).
Di seguito, è passata a considerare gli effetti della mancata costituzione del consiglio di disciplina, ritenendo in primo luogo infondati i dubbi sulla violazione della libertà d’impresa prospettati dall’allora società reclamata, “dovendosi tenere conto, nel corretto bilanciamento dei diritti parimenti garantiti dalla Carta costituzionale, della tutela alla conservazione del posto al lavoratore, parte “debole” del rapporto negoziale rispetto al datore.
Ed è proprio in funzione di tale tutela che l’art. 53 R. pone, per il caso dell’opinamento delle sanzioni più gravi, una forma di garanzia procedurale ulteriore (del tutto speciale anche rispetto a quella che poi imporrà l’art. 7 della L. n. 300/70), costituita dal deferimento, su istanza del lavoratore, della decisione sanzionatoria ad un organo terzo rispetto al datore di lavoro stesso”.
In proposito rilevava “come l’eventualità del ricorso al Consiglio di disciplina non equivalga affatto, come sembra conseguire al percorso argomentativo dell’azienda, alla facoltatività dello stesso, se non per parte del lavoratore. Cioè a dire che, sebbene non sia previsto come obbligatorio in ogni caso di opinamento delle sanzioni più gravi, laddove però il lavoratore ne faccia richiesta nel termine stabilito dalla norma, l’intervento del Consiglio diventa obbligatorio per la delibazione definitiva sulle conseguenze disciplinari della contestazione a suo tempo effettuata dall’impresa.
L’omesso ricorso al giudizio di disciplina, nonostante la rituale richiesta del lavoratore, vizia dunque irrimediabilmente il procedimento sanzionatorio conclusosi con la inflizione della sanzione direttamente da parte datoriale” (ma v. anche in questo caso interamente le pagg. 20-23 dell’impugnata sentenza).
10. Rileva allora il Collegio che anche il secondo profilo in cui si articola il motivo in esame non si confronta con la completa motivazione dell’impugnata sentenza, nella quale già era contenuta argomentata risposta ai rilievi ora riproposti dalla ricorrente.
Questa, inoltre, non considera che nella valutazione giuridica del caso la Corte d’appello si era costantemente riportata alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità e, segnatamente, a Cass. civ., sez. lav., 14.5.2019, n. 12770.
In particolare, quest’ultima decisione, in relazione a fattispecie concreta analoga a quella che qui ci occupa, richiamando precedenti di legittimità in senso conforme, ha confermato la perdurante vigenza della normativa di cui agli artt. 53 e 54 dell’All. A al r.d. n. 148/1931, giudicando del tutto irrilevante il fatto che gli enti competenti non avessero esercitato il potere di nomina dei componenti di consiglio di disciplina (il caso riguardava il licenziamento/destituzione di un dipendente di una società di trasporti pubblici della Regione X., la quale non aveva inteso appunto nominare i componenti di detto organo).
11. Non può essere ignorato, inoltre, che, dopo tale decisione, la Corte costituzionale, nella sent. 31.7.2020, n. 188, sia pure nell’occuparsi di questioni di legittimità costituzionale di norme dell’All. A al r.d. più volte cit. diverse da quelle che qui ci occupano, ma sempre riguardanti il campo disciplinare, ha ritenuto che “il legislatore ha univocamente inteso mantenere in vita il testo normativo considerato”, ripercorrendone le più recenti vicende circa una sua abrogazione poi “rientrata” (cfr. il § 5 di tale decisione).
In particolare, ha considerato il Giudice delle leggi che “il legislatore è tornato sui suoi passi. La disposizione abrogatrice è stata, infatti, a sua volta abrogata dall’art. 9-quinquies, comma 1, del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2017, n. 123. Ciò a testimonianza del fatto che il legislatore continua ad annettere una valenza significativa alla presenza nel sistema di una regolamentazione speciale di settore”.
12. E, una volta di nuovo ribadita la perdurante vigenza della disciplina in questione nella sua globalità (senza voler considerare le leggi regionali, le quali, come nel caso della Regione X., ancora presuppongono la persistente previsione in particolare dei consigli di disciplina, tanto da regolarne la nomina), quanto ritenuto dalla Corte territoriale risulta conforme ai precedenti specifici di legittimità.
Invero, ciò che la ricorrente ora denomina come factum principis non consiste in un atto dell’autorità legislativa, amministrativa o giudiziaria che abbia inciso negativamente sull’attuazione del rapporto obbligatorio (cfr. Cass. civ., sez. III, 10.6.2016, n. 11914), ma in un fatto puramente negativo, ossia – come accertato dalla Corte territoriale -, in una mera inerzia degli organi (diversi nel tempo) competenti a provvedere alla nomina dei componenti del consiglio di disciplina; inerzia che si protraeva da parecchi anni, e da epoca ben anteriore al procedimento disciplinare oggetto di causa e ben nota alla società datrice dì lavoro.
Del resto, l’indirizzo di legittimità seguito dalla Corte territoriale, in relazione ai casi nei quali il consiglio di disciplina non era stato costituito, non si basa affatto sul rilievo che la mancata istituzione dell’organo rappresenti un inadempimento oggettivamente imputabile alla datrice di lavoro, nonostante quest’ultima non possa provvedere a nominare i componenti del consiglio di disciplina e quindi a comporre l’organo, e che per questa ragione la sanzione disciplinare nondimeno irrogata sia illegittima.
13. Nel secondo mezzo la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia ricondotto la violazione dell’art. 53 dell’All. A al r.d. n. 148/1931, consistente nell’aver irrogato la sanzione senza attendere che su di essa deliberasse l’inesistente consiglio di disciplina, alle ipotesi di nullità ex art. 18, comma 1, St. lav., con conseguente reintegra e risarcimento integrale dei danni.
Secondo la ricorrente, però, sarebbe pacifico che la violazione delle regole sul procedimento disciplinare comporti nullità della sanzione, e questo vale sia per le regole speciali dettate dal r.d. n. 148, sia per la regola generale dell’art. 7 St. lav., ma è altrettanto pacifico che la nullità per violazione dell’art. 7 cit. comporta, l’applicazione del 6° comma, e non del 1°, dell’art. 18 St. lav.
14. Ma anche tale censura non è fondata.
14.1. La Corte territoriale si è adeguata ai principi espressi da questa Corte: in particolare, va confermato il principio già sancito da Cass. lav. n. 17286 del 16 aprile – 28 agosto 2015 e ripreso da Cass. 12770/2019, “secondo cui la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione – sia quello generale di cui all’art. 7 St. lav., sia quello specifico previsto per gli autoferrotranvieri dall’art. 53 del r.d. n. 148 del 1931, all. A (nel caso ivi esaminato l’omessa pronuncia da parte del Consiglio di disciplina) – rientra tra quelle c.d. di protezione, poiché ha natura inderogabile ed è posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore (in senso analogo v. anche Cass. lav. n. 13804 del 31/5/2017, secondo cui in materia di procedimento disciplinare a carico degli autoferrotranvieri, l’art. 53 dell’allegato A al r.d. n. 148 del 1931 prevede una procedura articolata in più fasi, inderogabile e volta alla tutela del lavoratore dipendente, quale contraente debole; l’omissione di una delle suddette fasi determina la nullità della sanzione disciplinare che, in relazione al tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione) (Cass. n. 12770/2019).
Si è dunque in presenza, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, non già di una mera deviazione formale dallo schema procedimentale della norma disciplinare, bensì di una vera e propria nullità, essendo stato l’esercizio della potestà punitiva assolto da un soggetto, il datore di lavoro, diverso da quello cui il legislatore ha demandato l’esercizio del potere disciplinare nel caso in cui ciò sia richiesto dal lavoratore.
La violazione di tale norma inderogabile, posta a tutela del diritto di difesa del lavoratore, comporta, come si è detto, la nullità del licenziamento e impone la tutela reale risarcitoria piena prevista dall’articolo 18, commi primo e secondo, legge numero 300/1970, il quale la contempla, oltre che nelle ipotesi specificamente indicate, ogni qualvolta il licenziamento sia “riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge”.
E tra le nullità previste dalla legge vi è anche quella per contrarietà a norme imperative (ai sensi dell’art. 1418, comma primo, c.c.), tra le quali deve annoverarsi l’art. 53 dell’All. A al r.d. n. 148/1931, come più di recente confermato da Cass. n. 12770/2019.
L’impugnata sentenza, in definitiva, risulta conforme a legge.
15. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed in € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.