Il licenziamento determinato da motivo di ritorsione è nullo e comporta la reintegrazione del lavoratore anche nelle c.d. organizzazioni di tendenza.
Nota a Cass. (ord.) 7 marzo 2023, n. 6338
Alfonso Tagliamonte
“In tema di licenziamento, l’art. 4 della I. n. 108 del 1990, nel riconoscere alle cd. organizzazioni di tendenza il privilegio dell’inapplicabilità dell’art. 18 st.lav., fa salva l’ipotesi regolata dall’art. 3 sull’estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia, sicché, in tale evenienza, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore (nella specie, avente la carica di dirigente sindacale), restando privo di rilievo il livello occupazionale dell’ente e la categoria di appartenenza del dipendente”.
Così si esprime la Corte di Cassazione (ord. 7 marzo 2023, n. 6338; v. anche, in motivaz., Cass. n. 17999/2019) in linea con la Corte di Appello di Genova che (confermando la pronuncia di primo grado) ha ritenuto non sorretto da giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato e ritenuto che “la scelta di licenziare” una lavoratrice fosse da “interpretarsi come una reazione al suo rifiuto di rinunciare al superminimo”, qualificando il recesso come animato da intento ritorsivo con applicazione della la tutela reale valida anche alle cd. organizzazioni di tendenza nel caso di licenziamenti nulli “in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia” (v. Cass. n. 19695/2016).
La Cassazione coglie l’opportunità di affermare anche taluni importanti principi in tema di licenziamento ritorsivo, rilevando che:
a) l’art. 3, L. n. 108/1990 (“sull’estensione ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori di cui alla L. n. 604/1966 e alla L. n. 300/1970, art. 15 delle conseguenze sanzionatorie previste dalla medesima L. n. 300 del 1970, art. 18, a prescindere dal numero dei dipendenti ed anche a favore dei dirigenti”) deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo e, in particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o rappresaglia” (in termini: Cass. n. 19695/2016, cit.; Cass. n. 5635/2006; Cass. n. 14982/2000);
b) “per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso” (v. Cass. n. 26399/2022; Cass. n. 26395/2022, in q. sito annotata da P. COTI);
c) va esclusa la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causali del recesso, vale a dire quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (v. Cass. n. 5555/2011);
d) l’onere probatorio di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso ricade sul lavoratore e può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742/2018; Cass. n. 18283/2010). Tuttavia, l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della L. n. 604/1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso (Cass. n. 26035/2018 e Cass. n. 27325/2017);
e) resta però “saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso”.