Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 marzo 2023, n. 6902
Lavoro, Cessione di ramo d’azienda, CIG, Premi di produzione e buoni pasto non percepiti, Declaratoria giudiziale di illegittimità della cessione, Pagamento di somme per il differenziale tra quanto percepito dalla società cessionaria e quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire in caso di continuità dell’originario contratto di lavoro, Natura risarcitoria delle somme pretese dal lavoratore nel periodo precedente la pronunzia di illegittimità della cessione, Intervalli “non lavorati”, Necessità della costituzione in mora del datore di lavoro, Mora accipiendi del datore nei confronti del dipendente, Accoglimento
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato T.T.I. Spa, cedente di ramo d’azienda cui era addetto A.M., al pagamento, in favore di questi, delle seguenti somme: euro 187.193,51 per le retribuzioni non percepite nel periodo di CIG dal luglio 2011 al gennaio 2013 “e successivamente in mobilità”, detratto quanto già percepito in esecuzione della sentenza di primo grado”; euro 7.777,10 per i premi di produzione non percepiti; euro 5.482,39 per il premo annuo non percepito; euro 10.073,00 a titolo di buoni pasto non percepiti; il tutto oltre accessori e spese.
2. La Corte territoriale, per quanto qui rileva, ha premesso che “l’affermata natura retributiva del credito del lavoratore ceduto che abbia vanamente messo in mora il datore di lavoro cedente, per il periodo successivo alla costituzione in mora, non è affatto incompatibile con il riconoscimento, in capo al medesimo lavoratore, del diritto al risarcimento del danno patito in conseguenza della invalida cessione, per il periodo dalla data della cessione medesima e sino alla messa in mora”; ha, pertanto, ritenuto “correttamente formulata la richiesta di M.A. di vedersi risarcire, sin dalla data dell’illegittima cessione di azienda, il danno consistente nella differenza tra quanto egli avrebbe percepito ove l’illegittima cessione non fosse stata posta in essere e quanto, invece, percepito presso la cessionaria”, danno da liquidare secondo le regole di diritto comune, con corrispondente riduzione “in caso di percepimento, nel medesimo periodo, di altri redditi”.
3. La Corte ha anche accolto il motivo di appello del lavoratore relativo al riconoscimento delle differenze retributive a titolo di buoni pasto; dopo aver esaminato l’accordo aziendale T. del maggio del 2008, ha osservato che, dall’esame dei prospetti paga, emergeva, relativamente al periodo interessato, una differenza tra quanto previsto da detto accordo e quanto retribuito dalla cessionaria, riconoscendo così i conseguenti importi differenziali.
4. Avverso tale sentenza T.I. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso l’intimato.
Il 28 giugno 2022, il Collegio, non ritenendo sussistenti le condizioni per la trattazione in adunanza camerale, ha rinviato la causa in pubblica udienza.
Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo, respinto il primo.
Entrambe le parti hanno comunicato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206, 1207 e 1218 c.c., criticando la sentenza impugnata per aver riconosciuto importi a titolo di risarcimento anche per il periodo antecedente alla offerta formale della prestazione lavorativa (15.4.2016) ed addirittura prima della sentenza del gennaio 2016 che aveva riconosciuto l’inefficacia del trasferimento di ramo d’azienda. Si argomenta che “prima della sentenza che ha accertato l’illegittimità della cessione quest’ultima era da ritenersi perfettamente valida ed efficace, di modo che nulla poteva imputarsi alla società ricorrente”, in mancanza di esecuzione della prestazione di lavoro; si aggiunge che “nel caso di specie l’offerta non c’è stata, o almeno, non c’è stata relativamente a parte dei periodi per cui è causa. E se non c’è costituzione in mora non vi sono nemmeno le conseguenze che ne derivano”; si pone in evidenza l’incongruenza della soluzione adottata dalla Corte milanese, in base alla quale, “una volta intervenuta una sentenza che accerti la illegittimità della cessione, il lavoratore che chieda delle somme per il periodo anteriore alla sentenza potrebbe ottenerle per il solo fatto dell’esistenza della pronuncia giudiziale, mentre ove richieda delle somme per il periodo successivo avrebbe necessità di costituire in mora la società cedente”.
2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., “in relazione al Regolamento Aziendale in materia di orario di lavoro riportante il contenuto degli accordi sindacali aziendali del 14/15 maggio 2018”, per avere la Corte territoriale riconosciuto alla controparte “il diritto al pagamento della differenza tra il valore dei buoni pasto percepiti presso il cessionario e quelli che avrebbe percepito se avesse lavorato in T.”; si deduce che il buono pasto non ha natura retributiva, né potrebbe essere accolta “l’impostazione ex adverso sostenuta secondo cui, essendo la mancata presenza in servizio dipesa da una condotta illegittima di T., la corresponsione dell’equivalente monetario del buono pasto potrebbe avvenire in via risarcitoria”.
3. Il primo motivo di ricorso è fondato nei sensi espressi dalla motivazione che segue.
3.1. La questione sottoposta a questa Corte concerne il danno lamentato dal lavoratore il quale, passato ad altra società a seguito di cessione di ramo di azienda, in seguito alla declaratoria giudiziale di illegittimità della cessione richieda al cedente il pagamento di somme per il differenziale tra quanto percepito dalla società cessionaria e quanto avrebbe potuto percepire in caso di continuità dell’originario contratto di lavoro. Si tratta, in particolare, di importi pretesi per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione.
3.2. Per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale, secondo una oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte, a seguito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo e dell’ordine del giudice di ripristinare il rapporto di lavoro con il datore di lavoro cedente, il rapporto con il cessionario è ritenuto instaurato in via di mero fatto e il sinallagma contrattuale tra cedente e lavoratore ceduto riprende effettività e rivivono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti e, in particolare, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2990 del 2018; nello stesso senso, Cass. n. 21947 del 2018; Cass. n. 17784 del 2019; Cass. n. 21158 del 2019; Cass. n. 21160 del 2019; Cass. n. 35982 del 2021; Cass. n. 32378 del 2022). Nel suddetto periodo, invero, “il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva”; solo per tale successivo arco temporale, traendo spunto da Corte cost. n. 303 del 2011 e “al fine di superare gli stretti confini della ritenuta corrispondenza tra la continuità della prestazione e la debenza della relativa obbligazione retributiva”, si è proceduto ad una “interpretazione costituzionalmente orientata della normativa” che ha indotto “al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività”, sicché “il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore” (Cass. Sez. Un. cit.). Pertanto, le Sezioni Unite hanno tenuto distinto il precedente arco temporale intercorrente tra il passaggio alle dipendenze del datore di lavoro cessionario e l’accertamento giudiziale della illegittimità della interposizione o della cessione, rispetto al quale non può che continuare a operare il “principio, che si è andato consolidando nell’elaborazione della S.C., secondo il quale il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l’erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto. In difetto di un’espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni” (Cass. Sez. Un. cit.).
3.3. Posta la natura risarcitoria delle somme eventualmente pretese dal lavoratore nel periodo precedente la pronunzia di illegittimità della vicenda traslativa, come già affermato da questa Corte, per detto periodo il rapporto di lavoro rimane quiescente fino alla declaratoria di inefficacia della cessione (cfr. Cass. n. 5998 del 2019, Cass. n. 35982 del 2021), mancando l’attualità delle reciproche obbligazioni delle parti. In seguito alla pronunzia giudiziale, la mancata ricezione della prestazione lavorativa nel periodo antecedente assurge a comportamento inadempiente del cedente nei confronti del lavoratore ceduto che può agire per il risarcimento del danno subìto sempre che abbia preventivamente provveduto a costituire in mora il datore di lavoro, con la messa a disposizione delle energie lavorative ovvero mediante intimazione di ricevere la prestazione, in modo da rendere ingiustificato il rifiuto del cedente e suscettibile di risarcimento l’eventuale danno cagionato. Altrimenti il cedente potrebbe legittimamente confidare sul consenso del lavoratore alla cessione del contratto di lavoro e, inoltre, si creerebbe una ingiustificata aporia per cui il ceduto, dopo la declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento d’azienda, potrebbe ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate successivamente alla sentenza, sempre che abbia costituito in mora il cedente, mentre avrebbe diritto al risarcimento del danno per il periodo precedente a prescindere dalla messa a disposizione delle sue energie lavorative.
3.4. In base agli stessi principi, questa Corte ha ritenuto che, nel caso analogo di provvedimento giudiziale di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, il lavoratore abbia diritto al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione maturata per il periodo precedente la declaratoria giudiziale (i c.d. intervalli “non lavorati”) solamente a seguito di messa in mora del datore di lavoro: trattandosi, anche in tali casi, di ricostruzione ex post del rapporto di lavoro, nel periodo precedente la declaratoria di nullità, non sussiste l’attualità del sinallagma contrattuale e il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla (Cass. n. 20858 del 2005; Cass. nn. 4677 e 24886 del 2006; Cass. n. 7979 del 2008; Cass. 12333 del 2009, con riguardo a ipotesi temporalmente collocabili prima dell’applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010; con riguardo a reiterazione di contratti per prestazioni temporanee, Cass. n. 15515 del 2009). E’ stato, invero, ritenuto che nel caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, non sussiste, per gli intervalli “non lavorati” tra l’uno e l’altro rapporto, il diritto del lavoratore alla retribuzione, mancando una deroga al principio generale secondo cui la maturazione di tali diritti presuppone la prestazione lavorativa, e considerato che la suddetta riunificazione in un solo rapporto, operando ex post, non incide sulla mancanza di una effettiva prestazione negli spazi temporali tra i contratti a tempo determinato (Cass. nn. 8352 e 8366 del 2003; Cass. n. 20858 del 2005). Ciò sulla base dell’insegnamento delle Sezioni unite che, per il “dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo”, hanno escluso “il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza […] salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente” (Cass. Sez. Un. n. 14381 del 2002; in precedenza v. Cass. Sez. Un. n. 2334 del 1991).
3.5. Pertanto, il lavoratore ceduto, che vede giudizialmente ripristinato il rapporto di lavoro con il cedente, non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione e può ottenere il risarcimento del danno subìto a causa dell’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, detratto l’eventuale aliunde perceptum, soltanto a partire dal momento in cui abbia provveduto a costituire in mora il datore di lavoro cedente ex art. 1217 c.c.
3.6. Nel caso di specie, la Corte territoriale, pur attribuendo alle somme che riconosce come dovute dall’azienda la natura risarcitoria, dichiaratamente prescinde dalla verifica di una rituale offerta della prestazione lavorativa, condannando al risarcimento come se il danno conseguisse automaticamente sin dal momento in cui si è realizzata la cessione solo in seguito accertata giudizialmente come illegittima.
4. In conclusione il primo motivo del ricorso della società deve essere accolto, con assorbimento del secondo successivo in ordine logico-giuridico e con cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto;
il giudice del rinvio si uniformerà a quanto innanzi statuito, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.