Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 marzo 2023, n. 7676
Lavoro, Condotta antisindacale, Sanzione disciplinare di sospensione dal lavoro e dallo stipendio, Computabilità o meno nel monte orario consentito delle “pause” di servizio, Rigetto
Rilevato che
Con la sentenza impugnata è stata confermata la pronunzia del Tribunale di Ravenna, di rigetto dell’opposizione al decreto ex art. 28 st.lav. con il quale era stata giudicata frutto di condotta antisindacale la sanzione disciplinare di un giorno di sospensione dal lavoro e dallo stipendio irrogata dalla (…) s.r.l.” al dipendente (…) componente della RSU della società, per avere il dipendente medesimo, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano “(…)”, dichiarato: “Infatti noi addetti ai rimorchiatori siamo in stato di agitazione dal 30 agosto per via dell’orario di lavoro, che è diventato sempre più pesante (…). Facciamo in genere turni di lavoro di 12 ore che con il sistema del cosiddetto scivolamento (cioè dello straordinario) spesso diventano anche turni che superano le 14 ore massime consentite. Il nostro datore di lavoro sostiene che le pause fra un servizio e l’altro non vanno considerate lavoro effettivo, ma non è così: quando sei di turno sei comunque a disposizione, non è che puoi gestire il tempo a tuo piacere o rilassarti. Chiediamo perciò orari meno pesanti”;
per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la “(…) s.r.l.”, affidato a due motivi;
la “(…)” ha resistito con controricorso;
entrambe le parti hanno depositato memoria;
il P.G. non ha formulato richieste.
Considerato che
con il primo motivo la ricorrente – denunciando nullità della sentenza – si duole che il giudice del gravame abbia emesso una motivazione meramente apodittica, ossia priva di un reale contenuto argomentativo, così sottraendosi all’obbligo di dare risposta alle doglianze sollevate con l’atto di appello;
con il secondo motivo – denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 28 st.lav. – lamenta che il predetto giudice abbia omesso di considerare che la società, nel comminare la sanzione disciplinare al lavoratore, non aveva affatto limitato né leso interessi collettivi dell’organizzazione sindacale cui aderiva il lavoratore medesimo, non avendo inteso censurare l’intervista rilasciata da quest’ultimo, ovvero la “divulgazione «coram populo» dell’esistenza di un contrasto sindacale in essere tra le parti”, ma solo contestare esserle stato attribuito pubblicamente “un – in realtà inesistente – illecito e cioè il fatto che l’azienda imporrebbe ai propri dipendenti di lavorare oltre le 14 ore al giorno”, il che non era mai accaduto e non era mai stato né provato né accertato, con conseguente lesione dell’immagine aziendale.
Ritenuto che
il primo motivo va disatteso, poiché la motivazione della sentenza impugnata soddisfa i requisiti normativamente previsti, essendo percepibile, mediante il percorso argomentativo seguito, il fondamento della decisione, nonché il criterio logico che ha condotto il giudice del gravame alla formazione del proprio convincimento; in essa, infatti, si legge: «E’ (…) di tutta evidenza, alla semplice lettura dell’intervista, il tono assolutamente compassato dell’intervistato e la veridicità intrinseca dei fatti riferiti, da individuarsi nella comprovata esistenza e risalenza di una controversia fra le parti sociali in merito all’interpretazione del Contratto collettivo aziendale, con riguardo alla computabilità o meno nel monte orario consentito delle “pause” di servizio, e non nella bontà o meno nel merito dell’interpretazione di parte, come iterativamente prospettato dalla Società: con ciò, per un verso, manifestamente equivocando i richiami della giurisprudenza della Suprema Corte all’oggettiva certezza e prova che deve assistere i fatti riferiti dal sindacalista circa la vertenza in atto per non trasmodare in condotta semplicemente denigratoria; con ciò, per altro verso, arbitrariamente espungendo dal novero delle libertà sindacale quelle di reinterpretazione e di rinegoziazione degli accordi sottoscritti – donde l’irrilevanza dell’essere il (…) già sottoscrittore del contratto posto in contestazione»;
il secondo motivo è inammissibile, già sol perché si risolve, mediante la affermata mancata lesione dell’interesse collettivo in ragione della asserita falsità dei fatti riferiti alla stampa dal lavoratore, in una censura alla decisione del giudice del gravame fondata, per converso – come sopra visto – sulla riconosciuta veridicità dei predetti fatti; con la conseguenza che la censura stessa – investendo questione di merito concernente il profilo dell’apprezzamento dei fatti e delle prove ad opera del giudice del gravame – é insuscettibile di esser fatta valere mediante la deduzione di una erronea ricognizione od interpretazione del dato normativo ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.;
le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 5.500,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.