Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 marzo 2023, n. 7684

Lavoro, Orario giornaliero di lavoro, Turni di ore non consecutive, CCNL metalmeccanici, Ore di lavoro effettivo e ore di lavoro retribuito, Modifica di orario implicante un aumento delle ore di lavoro effettivo, Inammissibilità del ricorso 

 

Rilevato che

 

con la sentenza impugnata è stata confermata la pronunzia del Tribunale di Perugia con la quale, tra l’altro, sono state dichiarate illegittime le sanzioni disciplinari (“id est”: ammonizioni scritte) irrogate dalla “(…) S.p.A.” ai lavoratori indicati in epigrafe per essersi questi ultimi rifiutati di osservare il nuovo orario giornaliero di lavoro stabilito dall’azienda, articolato su turni di otto ore non consecutive (ossia dalle ore 6 alle ore 12 e dalle 14 alle 16 oppure dalle ore 12 alle 14 e dalle 16 alle 22), in luogo di quello precedente, basato su turni di otto ore consecutive;

a supporto della decisione il giudice del gravame ha evidenziato che «il CCNL metalmeccanici (…) prevede fra l’altro, a favore dei lavoratori a turni avvicendati, una differenza fra ore di lavoro effettivo (sette e mezza) ed ore di lavoro retribuito (otto). Come già rilevato dal primo giudice, la modifica di orario disposta da (…) implicava un aumento delle ore di lavoro effettivo, che venivano portate ad otto ed era pertanto palesemente difforme, in senso peggiorativo per i lavoratori, dalla regolamentazione dettata dal CCNL. Di qui la piena invalidità e l’inefficacia della modifica di orario, totalmente inidonea a cambiare l’assetto contrattuale dei singoli rapporti di lavoro. Di conseguenza, essendo l’ordine di servizio invalido ed inefficace, i lavoratori non erano tenuti alla sua osservanza, a prescindere dalla qualificazione di tale ordine come inadempimento»;

per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la “(…) S.p.A.”, affidato ad un motivo, illustrato con memoria;

(…) hanno resistito con controricorso;

(…), sono rimasti intimati;

il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato che

 

con l’unico motivo la ricorrente – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c., 1363 c.c. e 1364 c.c., con riferimento all’art. 5, comma 9, della Sezione IV – Titolo III del c.c.n.l. 5 dicembre 2012 per i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica privata e alla installazione di impianti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice di appello non abbia correttamente interpretato la norma negoziale (ove si legge, per quanto qui interessa, che “con decorrenza dal 1° luglio 1978 tutti i lavoratori addetti a turni avvicendati beneficiano di mezz’ora retribuita per la refezione nelle ore di presenza in azienda.

Da tale disciplina sono esclusi i lavoratori a turni avvicendati, i quali già usufruiscano nell’ambito delle 8 ore di presenza di pause retribuite complessivamente non inferiori a 30 minuti che consentano il consumo dei pasti, ad eccezione di quelle che siano state esplicitamente concesse ad altro titolo”), finalizzata a garantire ai lavoratori il beneficio della mezz’ora di pausa retribuita solo in presenza di turni giornalieri avvicendati di otto ore consecutive, e non anche in caso di effettuazione della prestazione lavorativa secondo un orario giornaliero «spezzato»; ciò in quanto la previsione del beneficio in questione troverebbe la sua “ratio” nella necessità “di consentire a detti lavoratori, qualora essi trascorrano un significativo numero di ore in azienda, di consumare il pasto e, nel contempo, recuperare le energie psico-fisiche ed attenuare il lavoro ripetitivo e monotono”; ed “una simile esigenza di particolare tutela non sussiste invece nell’ipotesi in cui il lavoratore svolga le proprie prestazioni secondo un orario di lavoro «spezzato», atteso che in tal caso il lavoratore avrebbe a disposizione, tra un segmento dell’orario lavorativo e l’altro, un arco di tempo necessario per le suddette necessità”;

aggiunge, inoltre, che dal secondo periodo della citata clausola negoziale – contenente il riferimento alle otto ore lavorative, da ritenersi consecutive – si ricaverebbe che le “ore di presenza in azienda” di cui al primo periodo sono, appunto, otto ore di lavoro consecutive;

conclude, infine, affermando che “la Corte d’appello ha erroneamente esteso l’efficacia della clausola negoziale ad ipotesi che le parti, in sede di contrattazione collettiva, non si sono prefissate di contrattare”.

 

Ritenuto che

 

non vi è tardività del ricorso, avviato per la notifica il 3 aprile 2018 (e quindi entro i sei mesi dal 5 ottobre 2017, data di pubblicazione della sentenza impugnata);

la censura contenuta nel motivo è affetta da inammissibilità, poiché non si confronta con la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, ove la affermata illiceità della condotta aziendale non poggia su una interpretazione della previsione collettiva difforme rispetto a quella prospettata dall’azienda, bensì sulla modifica di orario implicante un aumento delle ore di lavoro effettivo (cfr. il già riportato passo della motivazione: «la modifica di orario disposta da (…) implicava un aumento delle ore di lavoro effettivo, che venivano portate ad otto ed era pertanto palesemente difforme, in senso peggiorativo per i lavoratori, dalla regolamentazione dettata dal CCNL»); il che equivale a dire che, secondo il giudice del gravame, l’azienda non poteva modificare, unilateralmente, l’orario in modo tale da eliminare la mezz’ora di pausa retribuita, restandone, in tale prospettiva, impedita la stessa articolazione dell’orario “spezzato” ove produttiva di tale eliminazione;

al riguardo, nella parte finale del motivo vi è l’affermazione – priva di correlazione con l’oggetto della censura, come sopra visto imperniata su una errata interpretazione della norma collettiva ad opera del giudice del gravame – che la Corte di appello avrebbe dovuto ritenere legittimo l’ordine di servizio, in data 6 marzo 2014, di rimodulazione dell’orario, non produttivo di alcuna modificazione peggiorativa per i lavoratori, sul rilievo che la nuova ripartizione giornaliera dell’orario settimanale sarebbe stata permessa al datore “in base al semplice esame con la rappresentanza sindacale unitaria, come espressamente previsto dal CCNL di categoria (art. 5, III comma, Sez. IV, Titolo III) ed in ossequio a quanto stabilito dall’art. 8 del d.lgs. 66 del 2003 e dalla Circolare del Ministero del lavoro n. 8 del 2005, ove si riconosce (…) in caso di organizzazione del lavoro con giornata c.d. spezzata la coincidenza della pausa con il momento di sospensione dell’attività lavorativa”;

tuttavia, anche ove la indicata prospettazione volesse ritenersi ipoteticamente portatrice di ulteriore, autonoma censura, la stessa non soddisferebbe i presupposti di cui all’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., difettando l’illustrazione delle ragioni per cui, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, la modifica di orario sarebbe stata, nel presente caso, permessa, non essendo al riguardo sufficiente il generico richiamo ad un “esame con la rappresentanza sindacale unitaria” – del cui legittimo compimento non vi è in ricorso alcuna evidenziazione – né all’art. 8 del d.lgs. 66 del 2003 e dalla Circolare del Ministero del lavoro n. 8 del 2005, in materia di pause; viene così in rilievo il noto insegnamento secondo cui «Il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie (…), diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione» (così, tra le altre, Cass. 5/08/2020, n. 16700);

la ricorrente soccombente va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti dei controricorrenti, liquidate come in dispositivo e da distrarsi in favore dell’avv. (…); nulla per le spese tra la ricorrente medesima e i lavoratori rimasti intimati; Data pubblicazione 16/03/2023 ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese nei confronti dei controricorrenti, che liquida in euro 10.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv. (…); nulla sulle spese tra la ricorrente e i lavoratori rimasti intimati.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 marzo 2023, n. 7684
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