Giurisprudenza – TRIBUNALE DI CATANZARO – Sentenza 17 febbraio 2023, n. 1799
Lavoro, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Trasferimento di azienda, Esternalizzazione dei servizi, Società di comodo, Fraudolento frazionamento della attività ed organizzazione, Unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, Collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo, Cessione di ramo d’azienda, Illegittimità del licenziamento
Ragioni della decisione
Parte ricorrente, premesso di avere lavorato con le mansioni di impiegata operatrice di CAA alle dipendenze dell’Associazione C.C., dal 01.10.2009 fino al 27.07.2019, termine del suo stato di malattia (in cui versava al momento del licenziamento del 15.02.2019), ha impugnato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che le è stato intimato, con comunicazione del 15.02.2019, assumendone l’illegittimità per insussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro. Ha, quindi, chiesto, in via principale, la condanna di C.C. alle conseguenze di cui all’art. 18 St. Lav., ovvero a quelle di cui all’art. 8 L. n. 604/1966 e, in via subordinata, previo accertamento della sussistenza di un trasferimento di azienda, ex art. 2112 c.c., tra C.C. e A. s.r.l. e della conseguente declaratoria di nullità del licenziamento, la condanna di C.C. e/o A., in solido e/o ciascuno per quanto di ragione, alle conseguenze di cui all’art. 18 St., o, comunque, a quelle ritenute di giustizia. In via ancora più gradata, per il caso in cui il licenziamento fosse ritenuto idoneo a risolvere il rapporto, condannarsi C.C. a corrisponderle il TFR e tutte le spettanze di fine rapporto.
Le parti convenute, ritualmente costituitesi in giudizio, hanno opposto la legittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo, attesa la necessità di C.C. di procedere al riassetto e riorganizzazione della propria struttura, attraverso la esternalizzazione alla società A. S.r.l. dei servizi di assistenza tecnica (CAA), di assistenza fiscale (CAF) e di contabilità IVA in favore degli associati, in linea con le vigenti disposizioni legislative.
Pertanto, hanno chiesto il rigetto della domanda e, per l’effetto, la conferma del licenziamento legittimamente intimato; in subordine, l’applicazione della minore sanzione comminabile.
Disposta, con ordinanza del 22.05.2020, la conversione dal rito fornero a quello ordinario, la causa viene oggi riservata in decisione sulle conclusioni rassegnate dalle parti.
Parte ricorrente assume, in via principale, come la esternalizzazione dei servizi (in favore dei propri associati) di assistenza agricola (CAA), assistenza fiscale (CAF) e contabilità IVA che C.C. ha assegnato alla società A. S.r.l. costituisca un’operazione simulata, trattandosi di servizi che continuano ad essere gestiti direttamente da C., attraverso il fittizio schermo di una società di capitali (prima U.S., poi C.S. e da ultimo A.) riconducibile alla stessa C.C., di cui costituisce una porzione, un “pezzo”, quale mero soggetto interposto. La conseguenza di tanto è la insussistenza del motivo posto a base del licenziamento ed anzi la sua natura ritorsiva, atteso che il licenziamento era stato posto in essere a fronte della volontà della ricorrente di non assecondare la richiesta datoriale di interrompere il rapporto di lavoro con il suo passaggio alle dipendenze della A., peraltro con un orario a tempo parziale.
L’assunto attoreo non è condivisibile.
Pur essendo emerso dalla documentazione prodotta e dall’istruttoria espletata nel corso del giudizio che A. aveva la propria sede operativa (non la sede sociale fissata nel Comune di Lamezia Terme) all’interno dell’immobile in cui era ubicata la sede di C.C., che vi era un unico sistema di fatturazione e servizio personale (elaborazione cedolini paga dei dipendenti, tenuta dei fascicoli del personale e servizio di fatturazione), che una dipendente di A., C.G., si occupava di gestire la PEC sia per A. che per C.C., che vi era un unico numero di telefono attraverso il quale una voce guida instradava gli utenti verso gli operativi dei settori Patronato, CAF e Fiscale, Tecnico, Amministrazione, Direzione e Presidenza di C.C. e che erano state inviate dal Presidente e dal Vice Presidente di C.C. alcune PEC contenenti istruzioni, tanto per i dipendenti di C.C. quanto per quelli di A. (cfr. all. nn. 3, 18 e 20 fascicolo attoreo), si ritiene che tali elementi non siano sufficienti a dimostrare, come pretenderebbe parte attrice, la configurabilità di un’organizzazione unitaria riconducibile a C.C. alla quale sarebbe da ascrivere l’intera attività ed il relativo personale, quale unico centro di imputazione e datore di lavoro reale, né che quest’ultima abbia operato un fraudolento frazionamento della propria attività ed organizzazione attraverso lo schermo societario costituito dalla società A. S.r.l., quale suo soggetto interposto.
Ciò per diverse ragioni.
Anzitutto, perché l’assegnazione ad A. s.r.l. – società costituita e partecipata da C.C. – dei servizi di assistenza tecnica alle imprese associate fino ad allora gestiti direttamente da C., lungi dall’integrare un abuso del diritto e/o della soggettività giuridica a fini elusivi della legge, appare, al contrario, imposto proprio dall’ossequio alle disposizioni normative vigenti in materia e tanto preclude l’ipotizzabilità di una società di comodo, men che meno consente di ravvisare una confusione dei patrimoni sociali degli enti in questione, con l’esautoramento degli organi societari di A. da parte di C..
E’ incontestato che A. S.r.l. abbia operato, fino al 31.12.2017, soltanto nel settore fiscale (CAF – Centro Assistenza Fiscale), non avendo ancora ricevuto l’accredito ad operare nel settore tecnico (CAA – Centro Assistenza Agricola). Dal 01.01.2018, essa ha poi iniziato ad operare con i servizi di entrambi i settori, fiscale e tecnico, in favore di una platea di oltre duemila clienti e utenti, dei quali circa un migliaio sono associati di C., mentre altri sono aziende agricole e semplici proprietari di terreni o privati cittadini. C. Catanzaro ha, quindi, affidato ad A., che è società di capitali, i sevizi di assistenza tecnica (CAA), di assistenza fiscale (CAF) e di contabilità IVA degli associati, in conformità al combinato disposto degli artt. 32 D. Lgs. n. 241/97, 33 D. Lgs. n. 490/98 e 3 bis D. Lgs. n. 165/95, secondo cui i soggetti abilitati alla costituzione di un CAF possono costituire società di capitali per l’esercizio dell’attività di assistenza fiscale ed i centri sono costituiti nella forma di società di capitali.
E’, dunque, inoppugnabile che i centri per l’assistenza tecnica CAA debbano rivestire per legge la forma di società di capitali, sicché C., quale associazione sindacale, poteva legittimamente affidare – come si è verificato nella specie – l’attività di assistenza fiscale soltanto a centri esterni, costituiti su sua iniziativa nella forma di società di capitali.
In secondo luogo, perché le prove raccolte hanno evidenziato (secondo quanto C.C. e A. hanno fin dall’inizio sostenuto) un’organizzazione degli spazi per aree di attività separate, con la condivisione da parte degli enti convenuti di beni e servizi di amministrazione, al fine di realizzare l’economia dei costi di gestione e di offrire un servizio complessivo all’utenza (al riguardo, il teste addotto da parte attrice, Fiorenzo Pitaro, dipendente e direttore facente funzioni di C.C., ha dichiarato che esisteva una vera e propria convenzione di servizi tra C. e A., tra cui anche l’amministrazione, per la quale venivano emesse le relative fatture).
Ma tanto non determina alcuna commistione delle attività dei soggetti resistenti, le quali rimangono autonome e distinte sul piano economico, organizzativo e funzionale. Infatti, la tenuta dei fascicoli del personale, la elaborazione dei cedolini paga dei dipendenti, l’emissione delle fatture costituiscono servizi che risultano condivisi da C. e A., senza che possa esservi possibilità di confusione tra l’esercente il servizio e il soggetto destinatario del servizio stesso. Anche lo svolgimento dell’attività all’interno di un unico immobile, al fine di fornire una completa assistenza alle aziende agricole associate, non comporta confusione dei due enti, dal momento che gli spazi risultano organizzati per aree di attività (area CAF e fiscale, area tecnica CAA, area paghe, area Patronato, area Amministrazione, Direzione e Presidenza) e che l’immobile sito in Catanzaro alla Via (…), di proprietà del “Consorzio I Contadini”, è stato concesso in locazione, per alcuni vani a C., con contratto del 11.05.2017, nonché, per altri distinti vani, ad A.. Ancora, nell’ambito della suddivisione dei costi, è incontestato che l’energia elettrica risulti intestata e le relative bollette pagate da C., mentre le utenze telefoniche, incluso il centralino telefonico, siano intestate ad A. che ne sostiene i relativi costi. D’altronde, il teste (addotto da parte ricorrente) N.R., dipendente di C.C., ha riferito la puntuale circostanza – non smentita da alcuno degli altri testi escussi – che i dipendenti di C.C. sono sottoposti alle direttive del Presidente P. di C.C., laddove i dipendenti di A. rispondono alle direttive dell’amministratore di A.. Parimenti, la stessa suddivisione per vani dell’immobile locato agli enti convenuti e, dunque, l’autonoma disponibilità degli spazi in cui ciascuno dei soggetti in questione esercita la rispettiva attività, costituisce una circostanza non smentita da alcuno dei testi escussi. Per converso, si osserva che, al di là di mere direttive programmatiche, come quelle contenute nelle citate lettere mail depositate da parte ricorrente, non è emersa la sussistenza di un vero e proprio coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; né, per altro verso, risulta che siano stati adottati provvedimenti concreti di esercizio del potere datoriale da parte di C.C. nei confronti del personale di A. (quale, ad esempio, una sanzione disciplinare inflitta dalla prima ai dipendenti della seconda). Infine, giova evidenziare – come chiarito da A. e non contestato dalla controparte – che è C. S.r.l. (ovvero C. nazionale) e non C.C., ad avere con apposita convenzione autorizzato A. all’utilizzo di password ed all’accesso al Sian.
Infine, perché la società A. s.r.l., costituita in data 28.07.2016, risulta partecipata da Associazione C.C. (che vi detiene una quota corrispondente al 40% del capitale), F.I.I.A.F. (titolare di una quota pari al 40% del capitale) e C.C. (quota di spettanza del 20% del capitale), sicché appare logico (e perfettamente legittimo) che la sua azione possa essere influenzata dalle direttive degli enti-soci titolari delle quote sociali. Una siffatta influenza costituisce del resto la normalità nel fenomeno dei gruppi societari, senza che sia possibile dubitare dell’autonomia organizzativa, funzionale e giuridica delle società appartenenti al gruppo.
Le riflessioni che precedono ricevono il conforto dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha statuito, in materia, che “Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è, di per sé solo, sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga rivelato dai seguenti requisiti, il cui accertamento, rimesso al giudice del merito, è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva;
b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (cfr., ex multis, sent. Cass. n. 26346 del 20.12.2016 e, da ultimo, ord. Cass. n. 2014 del 24.01.2022).
Nel caso concreto, il difetto dell’unicità del centro di imputazione di un rapporto di lavoro è reso evidente, sia dall’assenza di una situazione di simulazione o di preordinazione in frode alla legge, prescrivendo la legge stessa che il servizio di assistenza tecnica CAA (Centro Assistenza Agricola) debba essere esercitato da un’impresa nella forma di società di capitali, per cui il frazionamento dell’attività, lungi dall’essere riconducibile ad uno scopo illecito, appare nel caso concreto addirittura doveroso, sia dalla circostanza che la ricorrente ha sempre svolto la propria prestazione lavorativa solo alle dipendenze di C.C. che, all’occorrenza, ne ha disposto il distacco presso A. S.r.l., sicché non risulta che la lavoratrice abbia espletato le sue mansioni di operatrice CAA, in modo promiscuo e indistinto, al servizio contestualmente di entrambi gli enti resistenti.
Più in generale, non si riscontra quella unicità di struttura organizzativa e produttiva rivelatrice della ricorrenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, tale da reputare che A. costituisca un “pezzo” di C.C.. Tanto più che, essendo, come si è detto, il capitale di A. S.r.l. detenuto al 40% da Associazione C.C., al 40% da F.I.I.A.F. e solo al 20% da C.C., si dovrebbe ammettere che quest’ultima possa disporre a suo piacimento di A. (come soggetto interposto) pur essendone il socio di minoranza e, dunque, in contrasto con il principio maggioritario insito nelle società di capitali.
Parte ricorrente assume, in subordine, che, anche in ipotesi di ritenuta mancanza di unicità aziendale tra C. e A., la esternalizzazione dei servizi operata dalla prima alla seconda integri un trasferimento di ramo di azienda, invocando, conseguentemente, la sua reintegrazione presso la società cessionaria.
In particolare, essa deduce che, avendo ritualmente impugnato il licenziamento intimatole da C.C., ben potrebbe ottenere la reintegrazione in seno a quest’ultima e, per effetto del trasferimento d’azienda, l’automatico passaggio ad A..
L’assunto è fondato nei termini che seguono.
In via preliminare, si osserva come l’accertamento che il lavoratore richieda in ordine alla sussistenza di un trasferimento di azienda o di un ramo aziendale nel quale è ricompreso, al fine di invocare il suo passaggio al cessionario, non è soggetto a termini decadenziali. Tale principio è stato più volte affermato dalla Suprema Corte la quale ha statuito che: “Nell’ambito di un trasferimento di ramo d’azienda secondo l’art. 2112 c.c., non si applicano i termini di decadenza previsti dall’art. 32, comma 4, l. n. 183/2010 se il lavoratore reclama il diritto a essere ricompreso nel perimetro del segmento aziendale ceduto e, quindi, la prosecuzione del rapporto di lavoro con il soggetto cessionario” (cfr., tra le tante, Cass. n. 28750/2019).
Va poi precisato che la nozione di trasferimento d’azienda, ai sensi dell’art. 2112 c.c., è molto ampia, comprendendo qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un’attività economica qualora l’entità oggetto del trasferimento conservi, successivamente allo stesso, la propria identità, da accertarsi in base al complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano la specifica operazione, tra cui il tipo d’impresa, la cessione o meno di elementi materiali, la riassunzione o meno del personale, il trasferimento della clientela, il grado di analogia tra le attività esercitate. Né osta, alla configurabilità del trasferimento, la mancanza di un fine di lucro, purché sussista un’organizzazione di mezzi produttivi idonei a fornire un prodotto o un servizio obiettivamente caratterizzati ed economicamente valutabili quanto meno sotto il profilo dei mezzi di produzione e delle prestazioni lavorative necessari per il loro conseguimento (cfr. sent. Cass. n. 8262/2010 e Cass n. 29422/2017).
Attesa l’ampiezza della nozione di trasferimento d’azienda evincibile dall’art. 2112 c.c. e la mancanza di una norma di legge che prescriva la forma scritta per la validità della cessione, non è ostativa alla sua configurabilità l’inesistenza di un contratto scritto tra cedente e cessionario, purché l’entità economica conservi la propria identità e si accerti l’esistenza di una cessione di elementi materiali significativi tra le due imprese. E’ dunque irrilevante ai fini dell’accertamento, nel caso concreto, della cessione di ramo aziendale, la circostanza, eccepita dalle parti resistenti, del difetto di un contratto di appalto o di fornitura tra C. ed A., avente ad oggetto il trasferimento dei servizi CAA, CAF e di contabilità IVA: come si è detto, pure in mancanza di un contratto di cessione stipulato per scritto, è possibile accertare la sussistenza degli elementi fattuali che tipizzano la cessione di azienda o di una parte di essa.
Sotto questo profilo, giova anche precisare che l’art. 2556, co. 1. c.c., nel punto in cui prescrive la forma scritta ad probationem per i contratti aventi per oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento di azienda, opera solo con riguardo alle parti contraenti e non è applicabile ai terzi, da parte dei quali la prova del trasferimento dell’azienda non è soggetta ad alcun limite e, quindi, può essere data anche con testimonianze e presunzioni. In particolare, la necessità della prova scritta, che l’art. 2556, co. 1, c.c. prevede, nel caso di imprese soggette a registrazione, per i contratti traslativi della proprietà o del godimento dell’azienda, riguarda soltanto le parti stipulanti tali contratti e non anche i terzi, dovendosi considerare tali, nel caso di specie, i dipendenti dell’imprenditore in relazione ai diritti fatti valere, a norma dell’art. 2112 c.c., nei confronti del cessionario in conseguenza della cessione dell’azienda.
Ciò precisato, diventa essenziale verificare, nella specie, la configurabilità di un ramo aziendale che possa essere stato oggetto di trasferimento da un’impresa ad un’altra.
I giudici di legittimità hanno osservato che, per ramo d’azienda, ai sensi dell’art. 2112 c.c., come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito.
In particolare, secondo la Corte Suprema: “In materia di trasferimento d’azienda, la direttiva CE 77/187, come ripresa nel contenuto dalla direttiva CE 98/50 e, infine, razionalizzata nel testo mediante sostituzione con la direttiva CE 2001/23 (all’origine della rinnovata versione dell’art. 2112 cod. civ.), nell’ambito del fenomeno della circolazione aziendale, persegue lo scopo di garantire ai lavoratori – assicurando la continuità dell’inerenza del rapporto di lavoro all’azienda, o alla parte di essa, trasferita ed esistente al momento del trasferimento – la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore. Ne consegue che per “ramo d’azienda”, come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e (come affermato anche dalla Corte di Giustizia, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00 Temco) consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obbiettivo, il cui accertamento presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell’eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima o dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 cod. civ. che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto, comportando la sola sostituzione di uno dei soggetti contraenti e necessitando, per la sua efficacia, del consenso del lavoratore ceduto (cfr. sent. Cass, n. 6452 del 17.03.2009).
La Cassazione ha altresì statuito in materia che: “Ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112 c.c., il trasferimento di ramo d’azienda (che si verifica allorquando venga ceduto un complesso di beni oggettivamente dotato di una propria autonomia organizzativa ed economica, funzionale allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni o servizi) è configurabile – come affermato dalla giurisprudenza della CGUE (sentenze 20 gennaio 2011, causa C-463/09; 6 marzo 2014, causa C-458/12; 13 giugno 2019, causa C-664/17) – anche quando oggetto della cessione sia un gruppo organizzato di dipendenti stabilmente assegnato a un compito comune senza elementi materiali significativi, purché tale entità preesista al trasferimento e sia in grado di svolgere quello specifico servizio prescindendo dalla struttura dalla quale viene estrapolata, in favore di una platea indistinta di potenziali clienti (cfr. sent. Cass. n. 7364 del 16.03.2021). Ed ancora, che: “Ai fini dell’applicazione dell’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dall’art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, applicabile “ratione temporis”, costituisce elemento costitutivo della cessione l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente, situazione ravvisabile (quando non occorrano particolari mezzi patrimoniali per l’esercizio dell’attività economica) anche rispetto ad un complesso stabile organizzato di persone, addirittura in via esclusiva, purché dotate di particolari competenze e stabilmente coordinate ed organizzate tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili. (Nella specie, è stata ritenuta illegittima l’esternalizzazione dei servizi di gestione della corrispondenza e dell’archivio perché si era risolta in una mera parcellizzazione di attività dell’originaria cedente, in assenza di alcuna effettiva consistenza aziendale) cfr. sent. n. 28593 del 08.11.2018.
Recependo le indicazioni fornite dalla Suprema Corte e condividendo sul punto l’assunto attoreo, si ritiene che, nel caso concreto, siano ravvisabili gli elementi fattuali sintomatici dell’esistenza di un ramo di azienda oggetto di cessione, essendo emerso nella vicenda che ci occupa: 1) il trasferimento di elementi materiali, essendo l’attività di CAA (così come quella di CAF e di contabilità), esercitata da A. tramite gli stessi beni strumentali utilizzati in precedenza da
C.; 2) la cessione ad A. dei beni immateriali (es. informazioni registrate nel sistema SIAN relative agli utenti che avevano usufruito del CAA
C.) per lo svolgimento dell’attività di CAA, CAF e contabilità; 3) l’assunzione, ad opera di A., dei lavoratori già alle dipendenze di C., essendo passati ad A., come si preciserà infra, una parte dei lavoratori che C. aveva assegnato al servizio CAA; d) il trasferimento alla società cessionaria dell’avviamento e della clientela che usufruiva del servizio CAA C., che risulta transitata automaticamente ad A.; 4) la continuazione dell’attività tra i due enti, svolgendo A., senza soluzione di continuità, l’attività del servizio CAA che faceva capo a C.; 5) l’analogia – e addirittura la medesimezza – dell’attività esercitata in quanto è pacifico che A. eserciti, in relazione al settore CAA, la stessa attività prima espletata da C..
Né, per quanto esposto, può dubitarsi che il settore CAA di C., cui era addetta da gran tempo la ricorrente, costituisse, anteriormente alla cessione ad A., una realtà produttiva autonoma funzionalmente preesistente ed organizzata in maniera stabile che forniva un servizio di assistenza alle imprese agricole associate a C..
Poco è a dirsi, poi, sull’ammissibilità da parte di un’associazione sindacale dell’esercizio di un’attività economica, rivestendo carattere imprenditoriale, anche a prescindere dalla mancanza di un fine di lucro.
Pertanto, la esternalizzazione ad A. del servizio CAA, che in precedenza era stato svolto da C., configura un trasferimento di (ramo di) azienda disciplinato dall’art. 2112 c.c..
L’applicazione dell’art. 2112 c.c. alla fattispecie che ci occupa si ripercuote immediatamente sulla questione dell’efficacia del licenziamento intimato alla ricorrente, atteso che tale disposizione prevede, per il trasferimento dell’azienda o di una sua parte, il mantenimento del rapporto di lavoro in atto, con il suo automatico passaggio in capo al cessionario.
E se è vero che “In caso di cessione d’azienda, l’alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, sicché il trasferimento, sebbene non possa esserne l’unica ragione giustificativa, non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo; né deve ritenersi – qualora, nell’imminenza del trasferimento dell’azienda, l’imprenditore alienante receda dal rapporto di lavoro nei casi in cui detta facoltà gli sia attribuita – che nel suo esercizio in concreto l’imprenditore ponga in essere un atto emulativo o in frode alla legge, oppure in violazione dei principi di correttezza e buona fede a norma degli artt. 1175 e 1375 c.c. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto prescritta l’azione di impugnativa del licenziamento, proposta a distanza di otto anni dalla relativa intimazione ad opera dell’azienda cedente, sul presupposto della annullabilità del recesso e non della sua nullità ex art. 2112, comma 4 c.c.; Cass. sent. n. 11410 del 11.05.2018), si rileva, tuttavia, che, nel caso concreto, l’accertata cessione del ramo aziendale si è verificata nel corso dell’anno 2018 (risulta dagli atti di causa che il processo di riorganizzazione del sistema servizi dell’Associazione C.C. è stato deciso con delibera del 05.04.2018, con cui il Consiglio Direttivo ha previsto che C.C. non dovesse più svolgere il sistema di assistenza fiscale alle imprese associate), in epoca ben anteriore al licenziamento che C. ha irrogato alla ricorrente il 15.02.2019, con effetto dal 27.07.2019.
Tale circostanza emerge dalle stesse allegazioni contenute nella memoria di costituzione di C., secondo cui il passaggio ad A. dei lavoratori T.D.T. ed E.P., già addetti al servizio CAA presso C., era avvenuto il giorno 16.01.2018, in concomitanza con l’assegnazione del servizio CAA ad A.: “… E a partire dal mese di gennaio 2018 i dipendenti D.T.T. e P.E., in coerenza con la dismissione del servizio CAA da parte di C.C., vengono assunti da A. S.r.l. con contratto di lavoro a tempo parziale, e, quindi, alle medesime condizioni. … Si ripete: al momento della risoluzione del rapporto lavorativo la ricorrente era l’unica dipendente addetta al servizio, peraltro distaccata, non potendolo la Associazione resistente più espletare per legge. I dipendenti P. e D.T. non lo erano ormai più da un anno e F. non è un dipendente in forza a C.… e per ulteriore completezza espositiva si evidenzia che gli unici dipendenti rimasti in seguito alla riorganizzazione e ristrutturazione dell’odierna resistente sono inquadrati in qualifiche superiori e con mansioni comunque del tutto diverse”.
Ne deriva che il licenziamento in questione è improduttivo di effetti in quanto intimato da un soggetto privo di legittimazione giacché, al momento della sanzione espulsiva irrogata da C., la ricorrente, di fatto ancora distaccata presso A., era già transitata in seno a quest’ultima, in forza del cennato trasferimento del ramo di azienda, sicché l’Associazione non poteva esercitare nei suoi confronti i poteri sanzionatori propri del datore di lavoro.
Di conseguenza, va ordinato alla società A. S.r.l. il ripristino del rapporto di lavoro con la ricorrente, con efficacia retroattiva dalla data della cessione, con le stesse o equivalenti mansioni e retribuzione, preesistenti alla cessione suddetta.
La prosecuzione con la cessionaria A., senza soluzione di continuità ed alle stesse condizioni contrattuali, a seguito della riconosciuta cessione di azienda, del rapporto instaurato tra la C. e la lavoratrice comporta che quest’ultima, la quale non ha potuto espletare l’attività di servizio per effetto del licenziamento a lei irrogato da C., ha diritto, a titolo di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, quale ristoro per aver subito l’illegittima sospensione del rapporto, ad una somma corrispondente alle retribuzioni medio tempore non percepite.
Di tale risarcimento deve essere onerata la A., da considerarsi l’unico ed effettivo datore di lavoro dell’attrice al momento del licenziamento (inutilmente) intimatole da C..
Quanto alla decorrenza del diritto al risarcimento, è incontestato che la ricorrente, in distacco presso A. al momento dell’intimato licenziamento, abbia notificato a C.C. la relativa impugnativa stragiudiziale, offrendo di eseguire la propria prestazione lavorativa (soltanto) a C.:
pertanto, si ritiene che debba valere come offerta della prestazione lavorativa per la prima volta rivolta ad A. quella implicitamente contenuta nel ricorso introduttivo del presente giudizio che parte attrice ha notificato alla società cessionaria, sicché è al momento della notifica a quest’ultima del ricorso giudiziale che va fissato il dies a quo del risarcimento dovuto alla lavoratrice sino alla sua effettiva riammissione in servizio ad opera di A..
Su tale somma spettante alla lavoratrice devono altresì essere calcolati gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dal dovuto (quindi dalle singole scadenze mensili) al saldo, applicandosi il cumulo della rivalutazione monetaria e degli interessi, in base all’art. 429, co. 3, c.p.c., a tutti i crediti del lavoratore, anche se di natura risarcitoria
Attesa la complessità e controvertibilità delle questioni giuridiche esaminate, appare equo compensare le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, nel contraddittorio delle parti, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, così provvede:
1) previo accertamento della cessione del ramo di azienda intervenuta tra C.C. e A. s.r.l., ordina a quest’ultima di ripristinare il rapporto di lavoro con la ricorrente, con le stesse o equivalenti mansioni e retribuzione, preesistenti alla cessione suddetta;
2) per l’effetto, condanna A. S.r.l. al pagamento, in favore di parte attrice, di una somma, a titolo di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, equivalente all’importo delle retribuzioni non corrisposte, dalla data di notifica ad A. del ricorso introduttivo del presente giudizio sino a quella di effettiva riammissione in servizio, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, dal dovuto (quindi dalle singole scadenze mensili) al saldo;
3) compensa tra le parti le spese di giudizio.