In caso di cessione illegittima di ramo d’azienda le somme pretese dal lavoratore (premi di produzione e buoni pasto) non percepite nel periodo precedente la pronunzia di illegittimità della cessione vanno corrisposte (per il differenziale tra quanto percepito dalla società cessionaria e quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire in caso di continuità dell’originario contratto di lavoro) ed hanno natura risarcitoria.
Nota a Corte Cass. 8 marzo 2023, n. 6902
Fabio Iacobone
“A seguito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo e dell’ordine del giudice di ripristinare il rapporto di lavoro con il datore di lavoro cedente, il rapporto con il cessionario è ritenuto instaurato in via di mero fatto e il sinallagma contrattuale tra cedente e lavoratore ceduto riprende effettività e rivivono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti…” (v., fra tante, Cass. n. 32378/2022 e Cass. n. 35982/2021). Tuttavia, per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione, il lavoratore ceduto, che vede giudizialmente ripristinato il rapporto di lavoro con il cedente, non ha diritto alla retribuzione ma solo al risarcimento del danno subìto.
Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione 8 marzo 2023, n. 6902, la quale precisa che soltanto per la frazione temporale intercorrente fra cessione illegittima e declaratoria giudiziale di tale illegittimità si supera la regola sinallagmatica della corrispettività. Per cui il datore di lavoro che senza giustificato motivo non ricostituisce i rapporti di lavoro deve “sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore” (Corte Cost. n. 303/2011 e Cass. SU. n. 2990/2018).
Tuttavia, nell’arco temporale intercorrente tra il passaggio alle dipendenze del datore di lavoro cessionario e l’accertamento giudiziale della illegittimità della interposizione o della cessione, “in difetto di un’espressa previsione, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni” (Cass. SU. n. 2990/2018, cit.).
Ciò, purché il lavoratore abbia “preventivamente provveduto a costituire in mora il datore di lavoro, con la messa a disposizione delle energie lavorative ovvero mediante intimazione di ricevere la prestazione, in modo da rendere ingiustificato il rifiuto del cedente e suscettibile di risarcimento l’eventuale danno cagionato”.
Analogamente, dopo il provvedimento giudiziale di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione maturata per il periodo precedente la declaratoria giudiziale (i c.d. intervalli “non lavorati”), ma soltanto a seguito di messa in mora del datore di lavoro. E siccome nel periodo precedente la declaratoria di nullità, non sussiste l’attualità del sinallagma contrattuale, “il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla” (v. Cass. 12333/2009 e Cass. n. 7979/2008).
In sintesi, mancando l’attualità delle reciproche obbligazioni delle parti, le somme eventualmente pretese dal lavoratore nel periodo precedente la pronunzia di illegittimità della vicenda traslativa, hanno natura risarcitoria ed il rapporto di lavoro resta quiescente fino alla declaratoria di inefficacia della cessione (cfr. Cass. n. 35982/2021, cit. e Cass. n. 5998/2019).