Giurisprudenza – TRIBUNALE DI UDINE – Sentenza 23 marzo 2023, n. 88

Lavoro, Licenziamento, Violazione dell’obbligo di repechage, Risoluzione del rapporto di lavoro per cessazione dell’appalto, Superamento dei poteri di recesso attribuiti al datore di lavoro, Riconoscimento della continuità giuridica del rapporto originario, Procedura di cambio appalto, Accoglimento della domanda

 

Conclusioni

 

Per la parte ricorrente: “In via principale: accertarsi e dichiararsi la nullità e/o annullabilità e/o inefficacia e/o comunque l’illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente con lettera di data 18.08.2021 e di conseguenza condannarsi la resistente (…) società cooperativa ex. art. 2, d.lgs 23/2015 a reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro e a risarcirle il danno mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. pari a € 1.341,70 (€ 7,38665 x 173 x 90% x 16,66 %) dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione, e comunque non inferiore a 5 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R., oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Condannarsi, altresì, la resistente (…) a pagare alla ricorrente le differenze retributive maturate, pari ad € 726,46 o nel diverso importo che risulterà in causa, anche a mezzo di CTU. Il tutto oltre rivalutazione ed interessi legali ex. art. 1284, 1° e 4° comma c.c. sul capitale rivalutato dal maturato al saldo e spese legali rifuse. In subordine:

condannarsi la società resistente a pagare un’indennità risarcitoria ex. art. 3, comma 1 d.lgs 23/2015 nella misura di 36 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R., pari ad € 48.301,20 (1.341,70.- = € 7,38665 x 173 x 90% x 16,66 %) e, comunque, non inferiore a 6 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R pari di € 8.050,20 (1.341,70.- = € 7,38665 x 173 x 90% x 16,66 %), e/o la diversa somma che verrà determinata secondo i criteri di legge e/o in via equitativa; condannarsi, altresì, la resistente (…) a pagare alla ricorrente le differenze retributive maturate, pari ad € 726,46, o al diverso, anche maggiore importo, che risulterà in causa, anche a mezzo di CTU. Il tutto oltre rivalutazione ed interessi legali ex art. 1284, 1° e 4° comma c.c. sul capitale rivalutato dal maturato al saldo e spese legali rifuse”. Per la parte resistente: “In via principale e nel merito: atteso quanto esposto in narrativa, ritenuto pienamente legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo della ricorrente, dichiararsi l’infondatezza e/o l’illegittimità e/o la nullità e/o l’inammissibilità della domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento e di quella risarcitoria connessa, nonché delle domande subordinate avanzate con il presente ricorso, respingendole in toto”.

 

Ragioni della decisione

 

Con ricorso depositato in data 08/04/2022 (…) esponeva di aver lavorato, da novembre 2014 a gennaio 2015, alle dipendenze della agenzia interinale (…), prima come cassiera e, successivamente, come addetta al caricamento scaffali presso il supermercato (…) (nel parco commerciale (…) ) e di essere stata contattata, al termine del rapporto di lavoro con l’agenzia interinale, da (…) .., il quale le aveva proposto di continuare a lavorare alle dipendenze di una cooperativa, sempre presso il Carrefour di Udine, con le mansioni di addetta al caricamento di scaffali.

(…) presso il centro commerciale·(…) aveva fatto sottoscrivere alla ricorrente un contratto a termine, per il periodo dal 04.05.2015 al 30.06.2015, alle dipendenze della (…) come addetta al caricamento scaffali, presso l’ipermercato (…).

Il rapporto di lavoro era stato trasformato a tempo indeterminato dal 01.07.2015 ed era stato risolto per cessazione del contratto di appalto in data 30.04.2016.

Alcuni giorni prima della risoluzione del rapporto di lavoro con la (…) la ricorrente era stata nuovamente contattata da (…), che le aveva proposto una nuova assunzione alle dipendenze della (…).

La ricorrente, quindi, aveva continuato a svolgere la medesima mansione di addetta al caricamento scaffali presso il (…) alle dipendenze della (…) dal 01.05.2016 al 31.03.2018, quando il rapporto era stato risolto a seguito della cessazione del sub-appalto in essere con la società (…) era socio della società (…) in liquidazione, che aveva subappaltato i lavori di sistemazione della merce alla (…), e prima alla cooperativa (…).

A seguito della cessazione del subappalto con la (…), la ricorrente era stata nuovamente contattata da (…), il quale le aveva proposto di lavorare – sempre presso il (…) alle dipendenze della cooperativa (…).

La ricorrente, perciò, dal 01.04.2018 al 30.06.2020 era stata assunta come socia lavoratrice con un contratto a tempo indeterminato, con un orario di lavoro fissato in 24 ore settimanali e inquadramento come operaia di secondo livello e mansioni di “addetto merci”.

Il rapporto con la (…) si era risolto con decorrenza dal 30.06.2020 per cessazione del contratto di sub-appalto in essere con la società (…) risultava essere socio della società (…), la quale aveva subappaltato alla (…) i lavori di sistemazione della merce presso il (…).

Alla scadenza del contratto di appalto tra la (…) e la (…) aveva comunicato alla ricorrente che l’avrebbe richiamata al lavoro non appena si fosse aggiudicato il contratto di appalto presso l’ipermercato (…) e l’aveva avvisata che, nel frattempo, avrebbe potuto continuare a lavorare presso il (…) alle dipendenze della (…).

Infatti dal 01.07.2020 la ricorrente aveva lavorato alle dipendenze della (…), con mansioni di addetta alla logistica e inquadramento nel secondo livello del CCNL Imprese di Pulizie Servizi lntegrati/Multiservizi.

Gli altri lavoratori dipendenti della (…), in precedenza impiegati presso il (…) erano stati tutti trasferiti presso altri appalti della (…).

Nel novembre 2020 (…) aveva proposto alla ricorrente di lavorare alle dipendenze della (…) presso l’ipermercato (…).

La ricorrente aveva sottoscritto un contratto di lavoro a tempo determinato (dal 16.11.2020 al 31.01.2021), inquadrata come operaia di primo livello e mansioni di “addetto merci” per 24 ore settimanali, senza indicazione dell’articolazione oraria giornaliera.

Da metà novembre 2020 sino al 31.03.2021 la ricorrente aveva contestualmente lavorato sia presso il (…) (alle dipendenze della società (…) ) che presso il supermercato (…).

Presso il (…) l’attrice aveva ricevuto ordini e direttive dalla capo squadra dipendente di (…), alla quale si era rapportata anche per permessi e ferie, mentre presso il punto vendita (…), si erano susseguiti diversi capisquadra.

In data 24.02.2021 il rapporto alle dipendenze della (…) , prorogato al 28.02.2021, era stato trasformato, a partire dal 01.03.2021, a tempo indeterminato.

In data 31.03.2021, a seguito della cessazione del contratto di appalto, anche il rapporto di lavoro alle dipendenze della (…) – era stato risolto.

Dal 01.04.2021 la (…) era subentrata nuovamente alla (…) nella (…) gestione dell’appalto presso il (…) aveva chiesto alla ricorrente la disponibilità a rendere la prestazione lavorativa in entrambi gli ipermercati (…), ma la ricorrente, non riuscendo a sostenere ulteriormente tale ritmo di lavoro, aveva risposto di voler continuare e lavorare presso l’ipermercato (…), perché gli orari erano maggiormente compatibili con la gestione della propria vita privata e familiare.

(…), tuttavia, le aveva fatto sottoscrivere una “richiesta di trasferimento” da lui predisposta per il periodo dal 01.04.2021 al 31.05.2021, garantendole che da giugno sarebbe rientrata presso l’ipermercato (…).

La ricorrente, alla fine di maggio 2021, era venuta a sapere che una sua collega, che solitamente aveva svolto il suo medesimo orario, aveva ottenuto un contratto full time (di 40 ore settimanali) e quindi aveva chiesto che venisse trasformato anche il suo orario di lavoro da part time a full time.

A seguito del rifiuto di tale richiesta la ricorrente aveva comunicato alla caposquadra che, da quel momento in poi, avrebbe seguito rigidamente l’orario di lavoro previsto dalle 21.00 all’1.00.

Con lettera datata 18.08.2021 la (…) aveva comunicato alla ricorrente il licenziamento con efficacia dal 01.09.2021 “a seguito della disdetta ricevuta dalla committente e l’affidamento dei servizi ad altra società dalla quale Lei ha diritto di essere assunta in forza delle regole sul cambio appalto con art. 4 ccnl Multiservizi”.

Successivamente alla chiusura dell’appalto i colleghi che, fino ad agosto 2021, avevano lavorato presso il (…) avevano continuato il rapporto di lavoro alle dipendenze della (…) presso altri cantieri gestiti da tale cooperativa e dopo il licenziamento della ricorrente la cooperativa (…) aveva effettuato nuove assunzioni di addetti alle merci sia per l’appalto presso l’ipermercato (…) che per altri appalti nella provincia di (…)

La difesa attorea evidenziava che la ricorrente era stata l’unica ad essere licenziata, benché avesse due figli piccoli ed anche se tra i dipendenti della (…) impiegati presso l’appalto del (…) vi erano lavoratori con anzianità anagrafica, di servizio e carichi familiari inferiori a quelli della ricorrente.

La ricorrente eccepiva la natura simulata del rapporto sociale, sosteneva di avere il diritto ad essere inquadrata dalla (…) nel secondo livello sin dall’assunzione del 16.11.2020 e chiedeva che le fossero corrisposte le relative differenze retributive; chiedeva, inoltre, che fosse accertata la natura ritorsiva del suo licenziamento o comunque la sua illegittimità per insussistenza del motivo posto a giustificazione dello stesso e per violazione dell’obbligo di repechage.

Si costituiva in giudizio la società resistente, sostenendo la perfetta correttezza del proprio operato sia in ordine al licenziamento (avendo la lavoratrice espresso la volontà di rimanere a lavorare presso il supermercato (…) ed avendole la società subentrante proposto l’assunzione), sia all’inquadramento della lavoratrice.

La causa era istruita sia documentalmente, sia mediante l’assunzione di testimoni.

Le parti precisavano le rispettive conclusioni, come in epigrafe riportate, e procedevano alla discussione orale all’udienza del giorno 23/03/2023.

All’esito il Giudice si pronunciava, dando lettura del dispositivo e della contestuale motivazione della sentenza.

Reputa questo Giudice del Lavoro che la domanda di parte ricorrente sia fondata e meritevole di accoglimento.

Il rapporto di lavoro è stato risolto per cessazione dell’appalto.

La ricorrente ha impugnato il licenziamento in quanto ingiustificato, essendo stato motivato solamente sulla base della cessazione dell’appalto ed in assenza di un effettivo giustificato motivo oggettivo e comunque viziato per essere stato violato l’obbligo di repechage.

La parte resistente ha replicato e documentato che alla lavoratrice era stata proposta e formalizzata l’assunzione presso la società subentrante nell’appalto e che il contratto non si era perfezionato solo perché la lavoratrice si era rifiutata di sottoscriverlo e non si era presentata al lavoro.

Tali circostanze, tuttavia, risultano del tutto ininfluenti fini della decisione.

Infatti la tutela apprestata dal contratto collettivo per la lavoratrice, che consentiva alla stessa di costituire un nuovo rapporto di lavoro con la società subentrante, non esclude la tutela accordata dalla legge nel caso di superamento dei poteri di recesso attribuiti al datore di lavoro.

Ne consegue che non possono ritenersi azzerate o inapplicabili le tutele che la legge prevede nei confronti di un illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo. A tal fine è irrilevante che al licenziamento da parte dell’impresa uscente sia seguita o potesse seguire, in base alla procedura prevista e disciplinata dalla contrattazione collettiva, una nuova assunzione da parte della società subentrante, in quanto tale circostanza non esclude, a favore del lavoratore che intenda opporsi alla cessazione del rapporto con l’ex datore di lavoro, l’applicazione dei principi che regolamentano l’esercizio del potere datoriale di recesso per giustificato motivo oggettivo, né comporta che l’accettazione della proposta contrattuale da parte del subentrante si configuri alla stregua di un’implicita rinuncia all’impugnazione del licenziamento.

La Suprema Corte, con principio di diritto ormai consolidato, ha affermato che : “ove il contratto collettivo preveda per l’ipotesi di cessazione dell’appalto a cui sono adibiti i dipendenti un sistema di procedure idonee a consentire l’assunzione degli stessi, con passaggio diretto e immediato alle dipendenze dell’impresa subentrante a seguito della cessazione del rapporto instaurato con l’originario datore di lavoro e mediante la costituzione ex novo di un rapporto di lavoro con un diverso soggetto, detta tutela non esclude, ma si aggiunge a quella apprestata a favore del lavoratore nei confronti del datore di lavoro che ha intimato il licenziamento, con i limiti posti dalla legge all’esercizio del suo potere di recesso, non incidendo sul diritto del lavoratore di impugnare il licenziamento intimatogli per ottenere il riconoscimento della continuità giuridica del rapporto originario. Né la scelta effettuata per la costituzione di un nuovo rapporto implica di per sé rinuncia all’impugnazione dell’atto di recesso, dovendosi escludere che si possa desumere la rinuncia del lavoratore ad impugnare il licenziamento o la quiescenza al medesimo dal reperimento di una nuova occupazione temporanea o definitiva, non rivelandosi in tale scelta in maniera univoca, ancorché implicita, la sicura intenzione del lavoratore di accettare l’atto risolutivo” (Cass. n. 12613 del 2007, cfr anche Cass. n. 29922/18).

I principi enunciati chiariscono la distinzione tra le differenti situazioni di fatto riferite al recesso dell’originario datore di lavoro e alla costituzione del nuovo rapporto di lavoro con impresa subentrante.

La garanzia del passaggio dal datore originario all’impresa subentrante di natura contrattuale e collettiva mira ad assicurare la stabilità e continuità dell’occupazione, ma lascia distinti i rapporti lavorativi, sicché non solo una regola contrattuale non potrebbe mai escludere la tutela legale che sanziona il recesso illegittimo, ma neppure sarebbe invocabile, trattandosi di distinti rapporti contrattuali, rispetto ai quali differenti sono le obbligazioni e responsabilità datoriali.

Ne consegue che, anche nelle ipotesi di passaggio da un appalto all’altro, l’originario datore di lavoro sarà tenuto a dimostrare, ove necessario, le ragioni del recesso e l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore in altre posizioni lavorative compatibili.

Nel caso di specie la ricorrente era anche socia della cooperativa resistente.

Come è noto, il legislatore del 2001 ha disegnato il lavoro cooperativo come combinazione (cd collegamento necessario) del rapporto associativo con “un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi rapporti di collaborazione coordinata non occasionale” (L. n. 142/2001, art. 1). Con la novella di cui alla L. n. 30 del 14.02.2003, il legislatore ha modificato l’art. 1 citato cancellando il termine “distinto” e lasciando solo la qualificazione di “ulteriore”. Ha previsto, altresì, (art. 5, co. 2) che il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli artt. 2526 e 2527 c.c. (oggi, con l’art. 2533 c.c.).

Il collegamento necessario, quindi, nella fase estintiva dei rapporti, ha assunto caratteristica unidirezionale, e, pertanto, la cessazione del rapporto di lavoro, sia per il recesso datoriale sia per le dimissioni del socio lavoratore, non implica necessariamente il venir meno di quello associativo, poiché quest’ultimo può essere alimentato dal socio mediante la partecipazione alla vita, alle scelte dell’impresa, al rischio e ai risultati economici.

La cessazione del rapporto associativo, tuttavia, trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro, per cui in sintesi: il socio può non essere lavoratore, ma colui che perde la qualità di socio non può più essere lavoratore in conformità alla regola di cui all’art. 2533 c.c. in virtù della quale: “qualora l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”.

Le Sezioni Unite della Cassazione con la nota sentenza n. 27436/2017 hanno affermato che la relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore tra l’estinzione del rapporto associativo e quella del rapporto di lavoro, o meglio l’unidirezionalità del collegamento fra i rapporti, determina la dipendenza delle loro vicende estintive.

Se, quindi, alla duplicità di rapporti può corrispondere la duplicità degli atti estintivi, in quanto ciascun atto lede un autonomo bene della vita, sia pure per le medesime ragioni (la delibera di esclusione lede lo status soci, il licenziamento lede il rapporto di lavoro), va stabilito l’interazione degli effetti scaturenti dai diversi atti che, ove impugnati, configurano un’ipotesi di connessione di cause (Cass. nn. 15798/2016; 15798/2015; 19977, 19976, 19975 e 19974/2014).

Nel caso di specie, tuttavia, non è stato allegato né documentato agli atti che la lavoratrice sia stata esclusa dalla cooperativa, ma solo licenziata, sicché le questioni da esaminare attengono solamente al rapporto lavorativo e non a quello sociale.

Come si è detto la previsione, da parte della contrattazione collettiva applicabile nell’ipotesi di cambio appalto, dell’obbligo in capo all’impresa subentrante di assumere il personale addetto all’appalto non esclude né la configurabilità del recesso dell’originaria datrice di lavoro quale vero e proprio licenziamento, né l’operatività della relativa tutela di legge.

Il recesso datoriale configura pur sempre, anche in presenza dell’operatività della clausola sociale e dell’avvenuta esecuzione del relativo accordo, un licenziamento.

E infatti, mutando il datore di lavoro, in assenza del consenso del lavoratore e non vertendosi in un’ipotesi di continuità del rapporto prevista da fonte primaria (art. 2112 c.c.), alcun passaggio diretto può essere imposto dalla contrattazione collettiva.

L’originario rapporto, dunque, cessa laddove le possibili forme di cessazione sono dimissioni, licenziamento o risoluzione consensuale.

Se, come avvenuto nel caso di specie, la cessazione è determinata da volontà unilaterale della datrice di lavoro si tratta di licenziamento.

In altre parole la regola, ovvia e conforme ai principi generali dell’ordinamento, è che la cessione del rapporto di lavoro può verificarsi solo se voluta anche dal lavoratore.

La deroga a tale regola prevista dall’ art. 2112 c.c., ossia la continuità automatica del rapporto di lavoro in capo a diverso datore a prescindere dal consenso del lavoratore, opera in caso di cessione di azienda o di ramo d’azienda, laddove l’applicabilità di tale disciplina derogatoria al cambio appalto a mente dell’art 29 d.lgs 276/2003 novellato ex legge 122/2016 presuppone l’assenza di discontinuità tra un appalto e l’altro tale da escludere in capo all’impresa subentrante una specifica identità di impresa (cfr articolo 29, comma 3, D.Lgs. 276/2003 come novellato ex legge n. 122/2016 in vigore dal 23.7.2016: “3. L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”).

Una disciplina contrattualcollettiva che prevedesse l’automatico trasferimento in continuità del rapporto di lavoro senza necessità del consenso del lavoratore al di fuori dell’art. 2112 c.c. sarebbe invero invalida per contrarietà a norma imperativa.

Nello specifico così in effetti non è in quanto la clausola sociale in questione comporta non già l’automatica continuità del rapporto di lavoro, bensì l’obbligo contrattuale di concludere un nuovo contratto di assunzione e dunque l’instaurazione di un “nuovo” rapporto di lavoro, con l’obbligo pattizio, da parte del nuovo datore di lavoro, di garantire il trattamento economico e normativo stabilito dal C.C.N.L..

L’art. 4 CCNL pulizie multiservizi non prevede alcun automatismo, disponendo invece una specifica procedura affinché i lavoratori in servizio presso un appalto vedano conservato il posto di lavoro allorché vi sia un cambio di gestione a parità di condizioni. La stessa formulazione dell’art. 4 non consente di ravvisare in capo alla società subentrante una costituzione automatica del rapporto di lavoro, prevedendo che in caso di cessazione di appalto a parità di termini, modalità e prestazioni contrattuali l’impresa subentrante si impegna a garantire l’assunzione senza periodo di prova degli addetti assunti in organico.

Dunque la previsione nel c.c.n.l. della c.d. clausola sociale non esclude l’applicabilità, al recesso unilaterale da parte dell’impresa cessante, della disciplina del licenziamento (v. Cass. n. 12613 del 29/05/2007; Cass. Lav. 4166/2006, 2992/1992).

Quanto al repechage è ben vero che secondo Cassazione n. 25653 del 27/10/2017 la soppressione di un servizio a seguito di cessazione dell’appalto rileva unicamente sul piano dell’individuazione del personale da licenziare, escludendo la necessità di comparazione con gli altri lavoratori dell’azienda e l’applicazione dei criteri previsti dall’art. 5, I. n. 223 del 1991, ma non anche sul piano dell’obbligo di ricollocazione, che opera come in qualsiasi altro caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Tale pronuncia della Suprema Corte, infatti, nel distinguere, quali diverse tipologie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, tra soppressione dei posti di lavoro di personale adibito all’espletamento di un servizio per un appalto venuto meno e licenziamento riconducibile ad una generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, relativamente al primo statuisce che “per cui è il nesso causale che necessariamente lega la ragione organizzativa e produttiva posta a fondamento del recesso con la posizione lavorativa non più necessaria ad identificare il soggetto destinatario del provvedimento espulsivo, senza necessità di fare ricorso ad ulteriori criteri selettivi”, mentre al paragrafo immediatamente successivo la questione relativa all’obbligo di riutilizzo delle prestazioni del lavoratore viene risolta in fatto, a conferma della piena operatività di tale obbligo anche in ipotesi di cambio appalto.

La Suprema Corte condivisibilmente osserva che solo nel caso di generica riduzione del personale si pone il problema di individuare in concreto i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona fede, con utilizzo, per consolidato orientamento giurisprudenziale, dei criteri dettati dalla legge 223 del 1991, art. 5, per i licenziamenti collettivi; il ricorso a tali criteri è giustificato non tanto sul piano dell’analogia, quanto piuttosto per costituire i criteri di scelta previsti dal predetto art. 5 della L. n. 223/91 uno standard particolarmente idoneo a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo, unilaterale, potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale (cfr. Cass. n. 6667 del 2002 e giurisprudenza ivi citata in motivazione), e soprattutto opera quale standard idoneo a rispettare l’art. 1175 c.c., ossia sul piano della correttezza e buona fede, laddove tale esigenza, nel caso di cessazione dell’appalto non ricorre, operando quale diverso criterio oggettivo, tale da escludere qualsivoglia arbitrarietà nella scelta, il nesso causale che necessariamente lega la ragione organizzativa e produttiva posta a fondamento del recesso con la posizione lavorativa non più necessaria ad identificare il soggetto destinatario del provvedimento espulsivo, senza necessità di fare ricorso ad ulteriori criteri selettivi.

Da tali puntuali insegnamenti si ricava dunque che la procedura di cambio appalto non esclude l’obbligo di repechage, bensì unicamente l’utilizzo dei criteri di scelta ex art 5 legge 223/1991 quale canone di correttezza e buona fede.

Nella fattispecie concreta in esame la società resistente con tutta evidenza ha violato l’obbligo di repechage non ricollocando la ricorrente, pur avendone la possibilità, presso uno dei tanti cantieri della provincia di (…), come accaduto per altri colleghi.

L’istruttoria ha, infatti, confermato che gli altri addetti della (…) che lavoravano presso il (…) insieme alla ricorrente sono stati trasferiti presso alcuni dei numerosi altri appalti gestiti dalla società resistente.

Significativa al riguardo la deposizione della sig.ra (…) (ex collega della ricorrente presso il supermercato (…) ) la quale ha dichiarato che “quando è finito il contratto con (…) la (…) mi ha spostata presso il supermercato (…)·di (…) e siccome a me il lavoro lì non piaceva mi sono dimessa. Oltre a me al (…) di (…) è stata mandata anche la collega (…) (la quale aveva un po’ più di 30 anni) e la collega (…), anche loro erano stati trasferiti lì”.

La medesima teste ha altresì dichiarato di essere stata mandata, oltre che alla·(…) di (…)”al supermercato (…) sempre come dipendente di. (…)”. Anche la teste (…) ha dichiarato che “c’erano altri lavoratori che lavoravano al (…) che sono stati collocati in altri appalti sempre della (…)”.

Lo stesso (…) ha confermato che “i dipendenti che lavoravano al (…) sono stati trasferiti o adibiti ad altre mansioni, altri sono rientrati dopo sei mesi o un anno”.

L’esistenza di plurimi appalti della (…) presso la provincia di (…) è pacifica in causa, tanto è vero che la parte resistente nella memoria difensiva, non solo non ha contestato, ma ha anche ammesso i cantieri elencati al capitolo 43 del ricorso, con la sola esclusione dell’ipermercato (…) a (…)

Nel corso del procedimento è, altresì, emerso che la società ha effettuato diverse nuove assunzioni poco prima e successivamente al licenziamento della ricorrente, anche per il supermercato (…) ove avrebbe dovuto operare la (…) (cfr. teste (…) “confermo che sia prima sia dopo il licenziamento della ricorrente la, (…) ha assunto altro personale … Ad agosto inoltre ci sono state delle assunzioni, se non sbaglio a giugno/luglio una ragazza che si chiamava (…) che è rimasta almeno fino a tutto agosto, poi ad agosto è stata assunta (…) e poi ci sono state persone che sono rimaste solo per qualche settimana e di cui non rammento i nomi e poi a gennaio 2022 è stata assunta (…)· ma il cognome non lo ricordo anche se ricordo che era un cognome doppio. Tra la primavera e l’estate erano stati assunti (…) e (…)”· teste (…) ha confermato “nuove assunzioni in altri appalti dopo il suo licenziamento”. La ricerca del personale a seguito del recesso della (…) risulta, peraltro, anche documentalmente dall’annuncio pubblicato dalla resistente di ricerca di personale scaffalista con luogo di lavoro a (…) e inizio del rapporto ad agosto 2021.

Nel contempo l’istruttoria ha confermato che la società resistente ha mantenuto il rapporto di lavoro con dipendenti più giovani della ricorrente che, all’epoca del licenziamento, aveva 45 anni (v. teste (…) la quale, tra i dipendenti trasferiti come lei presso il (…) di (…) ha citato la collega (…), specificando che la stessa aveva “un po’ più di 30 anni’], aveva due figli minori ed aveva già in precedenza lavorato per la resistente.

Va invece escluso che il licenziamento possa ritenersi ritorsivo.

Per consolidata giurisprudenza, in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento (Cass. sent. n. 9468/19).

Inoltre, in tema di licenziamento ritorsivo, il lavoratore deve indicare e provare i profili specifici da cui desumere l’intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso, atteso che in tal caso la doglianza ha per oggetto il fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi di una giusta causa, o di un giustificato motivo, pur formalmente apparenti (Cass. sent. n. 20742/18).

Nel caso di specie l’effettiva perdita dell’appalto presso il (…) e la possibilità che la lavoratrice venisse assunta in forza delle previsioni di contrattazione collettiva dall’impresa subentrante sono elementi fattuali che potevano astrattamente sostenere il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e ciò vale già di per sé ad escludere che l’intento ritorsivo sia l’unico motivo del recesso.

A ciò deve aggiungersi che ben poteva la parte resistente essere convinta che la lavoratrice che aveva lavorato presso il supermercato (…) dal 2014 in avanti e che aveva sottoscritto una richiesta di trasferta presso quella sede preferisse effettivamente continuare a lavorare in quell’esercizio commerciale.

Tale circostanza è stata anche confermata in sede di istruttoria delle dichiarazioni dei testi (…) e (…).

Atteso che la ricorrente è stata assunta successivamente al 07.03.2015 nel caso in esame troverà applicazione la disciplina contenuta nel D.lgs n. 23/2015 (Job act) ed in particolare applicabile la disciplina del primo comma dell’art. 3 d.lgs. 23/2015, così come modificata a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018.

È incontestato che la resistente occupa oltre 15 dipendenti, sicchè – accertata l’illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente e dichiarato estinto il rapporto di lavoro tra le parti – la cooperativa resistente deve essere condannata al pagamento in favore della ricorrente dell’indennità risarcitoria, che viene determinata in nove mensilità dell’ultima retribuzione, tenuto conto della dimensione economica della convenuta e degli altri parametri più sopra sottolineati con riguardo alla posizione soggettiva della lavoratrice. La retribuzione utile per il calcolo del TFR da prendere a riferimento è pari ad € 1.341,70.

Per quanto concerne la domanda relativa al corretto inquadramento della ricorrente si rammenta che ai sensi dell’art. 10 del CCNL Multiservizi rientrano nel secondo livello: “i lavoratori che, con un breve periodo di pratica/addestramento, sono adibiti ad operazioni per la cui esecuzione si richiede il possesso di (semplici) conoscenze pratiche, anche con macchine e mezzi meccanici senza autorizzazione. Appartengono a questo livello anche i lavoratori che svolgono mansioni esecutive che richiedono una generica preparazione professionale e conoscenze elementari di prodotti chimici. Appartengono altresì a questo livello, per i primi 18 mesi di effettivo servizio, gli impiegati esecutivi che svolgono semplici attività amministrative o tecniche che non richiedono particolare preparazione”. Profilo: Lavoratori che eseguono anche con mezzi a semplice conduzione il trasporto e la movimentazione e la distribuzione di materiali. Esempi: “…Addetti ai lavori di facchinaggio e movimentazione interna all’appalto”.

Appartengono invece al primo livello i lavoratori che: “svolgono attività semplici, a contenuto manuale, anche con attrezzature per le quali non occorrono conoscenze professionali ma è sufficiente un periodo minimo di pratica e che non necessitano di autorizzazioni.

Appartengono altresì a questo livello i lavoratori del Il livello di prima assunzione nel settore per i primi nove mesi di svolgimento di effettivo servizio. Esempi: Guardiano Manovale non addetto a comuni servizi di pulizia”

Sulla questione dell’inquadramento della ricorrente va evidenziato che l’attrice ha sottoscritto due contratti di lavoro con la resistente: il primo in data 28.03.2018 e il secondo in data 13.11.2020.

Entrambi i contratti riportano le medesime mansioni di addetto merci e lo stesso elenco di attività (“carico e scarico merci, disimballo confezioni, controllo scadenza merci su scaffali, controllo approvvigionamento merci su scaffali, esposizione merci, pulizia

scaffali, inscatolamento, confezioni merci”), l’unica differenza è che il contratto più risalente nel tempo (quello che ha regolato il rapporto dal 01.04.2018 al 30.06.2020) inquadrava la lavoratrice nel 2° livello, mentre il più recente, per le medesime mansioni la includeva nell’inferiore 1° livello.

La stessa resistente ha nuovamente riconosciuto il secondo livello alla lavoratrice a parità di mansioni anche nell’ultimo rapporto, a partire dal mese di marzo 2021.

Appare evidente, quindi, che è stata la stessa SLV a riconoscere che le mansioni svolte dalla ricorrente (sempre le stesse) rientrino a pieno titolo nel secondo livello. Tale diritto andrà, tuttavia, riconosciuto sin dall’inizio della (seconda) assunzione, poiché nel caso in esame non può trovare applicazione la disposizione del CCNL che legittima l’inquadramento al primo livello per i lavoratori che svolgano mansioni proprie del secondo livello nei primi nove mesi di svolgimento effettivo del servizio.

Tale previsione, invero, ha ragione di operare per i lavoratori assunti con mansioni di Il livello che lavorano per la prima volta nel settore, e quindi privi di esperienze, ipotesi nella quale non rientra la ricorrente la quale, come risulta dai contratti di lavoro allegati, aveva un’esperienza come addetta merci di oltre 6 anni, peraltro nel medesimo supermercato. Parte resistente al fine di negare il diritto della ricorrente al secondo livello ha sostenuto che la stessa non avrebbe avuto responsabilità/autonomia e che non avrebbe utilizzato sistemi informatici.

Si tratta di eccezioni del tutto irrilevanti, dato che nelle declaratorie contrattuali per il secondo livello non viene fatto alcun cenno a tali aspetti.

In base alle disposizioni del CCNL sopra riportate per l’inquadramento nel secondo livello è richiesto un breve periodo di pratica ed il possesso di semplici conoscenze pratiche.

E’ incontestabile che le attività svolte dalla ricorrente (riportate nel contratto di assunzione) – pur non essendo particolarmente complesse – necessitavano in ogni caso di semplici conoscenze pratiche (conoscenza dei reparti all’interno del supermercato, ordine di collocazione della merce nelle corsie dei reparti, criteri da rispettare per l’esposizione della merce sugli scaffali, organizzazione del magazzino, rispetto delle tempistiche per la sistemazione dei prodotti nelle celle frigorifere, distribuzione del lavoro tra colleghi).

Non va poi dimenticato che tra gli esempi del secondo livello il CCNL prevede proprio “gli addetti ai lavori di facchinaggio”, mansioni che si ripete è indubbio che la ricorrente svolgesse.

Dall’istruttoria espletata è risultato che la (…) utilizzava il transpallet (teste (…)”, quando la ricorrente lavorava al reparto freschi di (…) utilizzava un transpallet manuale”) e ciò benché l’utilizzo di macchinari non sia determinante ai fini del maggior inquadramento richiesto, come si ricava letteralmente dalla previsione del CCNL, ove è stabilito che le mansioni rientranti per il primo livello possono essere svolte “anche con attrezzature” (e non necessariamente con attrezzature).

Il CCNL applicato indica quale esempio per il primo livello il “guardiano manovale non addetto a comuni servizi di pulizia”, mentre per il secondo, “l’addetto ai lavori di facchinaggio”.

Le attività svolte dalla ricorrente sono di certo assimilabili maggiormente ad un addetto al facchinaggio rispetto ad un guardiano manovale.

Per quanto concerne il credito maturato dalla ricorrente, nei conteggi sindacali allegati la parte ricorrente ha già tenuto conto dell’importo indicato nella busta paga di marzo 2021 a titolo di “differenze contrattuali” (nei conteggi l’importo indicato come “percepito” nel mese di marzo 2021 – € 877,42 – è pari alla somma di € 762,05 per retribuzione + € 115,37 a titolo di arretrati contrattuali indicati in busta paga), onde permangono le differenze retributive come richieste in ricorso

La ricorrente ha conseguentemente diritto a tutte le tutele e le garanzie proprie del lavoratore subordinato, compresa l’applicazione integrale del CCNL richiamato nella lettera di assunzione (CCNL Pulizia Multiservizi).

Infatti, oltre al credito per un maggior inquadramento, la ricorrente ha maturato anche differenze retributive derivanti da un trattamento economico inferiore rispetto a quello previsto dal CCNL Pulizia Multiservizi.

Dai conteggi sindacali è risultato, infatti, che le mensilità supplementari (corrisposte in ratei mensili) i rol/ex festività sono stati complessivamente erogati in misura inferiore a quanto prescritto dal CCNL.

Riguardo alle differenze retributive la società resistente non ha dedotto che il regolamento o lo statuto della cooperativa prevedessero un trattamento inferiore rispetto a quello del CCNL richiamato nella lettera di assunzione, sicché alla ricorrente spettano le differenze come quantificate nel conteggio sindacale.

Riguardo al quantum si evidenzia che nella memoria difensiva la società resistente non ha effettuato alcuna contestazione, tantomeno specifica dei conteggi sindacali depositati con il ricorso, né ha evidenziato errori o ha proposto conteggi differenti e maggiormente convincenti.

Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono per legge la soccombenza e vanno, quindi, poste a carico della parte resistente.

Per la quantificazione delle stesse occorre dare applicazione al D.M. n. 55/14 per ciascuna fase ed in base allo scaglione di valore corrispondente alla domanda.

 

P.Q.M.

 

In composizione monocratica, in persona del Giudice del Lavoro dr.ssa I.C., definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa,

1) accerta l’illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente con lettera di data 18.08.2021;

2) dichiara estinto il rapporto di lavoro tra le parti;

3) condanna la cooperativa resistente al versamento in favore della ricorrente dell’indennità risarcitoria ex lege in misura pari a nove mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR (€ 1.341,70), oltre accessori di legge dalla messa in mora al saldo;

4) condanna la resistente (…) a pagare alla ricorrente le differenze retributive maturate, pari ad € 726,46 con rivalutazione ed interessi legali sul capitale rivalutato dal maturato al saldo;

5) condanna la società resistente all’integrale rifusione delle spese del presente giudizio sostenute dalla ricorrente, spese che liquida in € 5000,00 per compensi, oltre al 15% dei compensi a titolo di rimborso forfetario ed oltre accessori come per legge.

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI UDINE – Sentenza 23 marzo 2023, n. 88
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