La lettera al Ministro competente con la quale alcuni dirigenti di un Ente pubblico esprimono motivato dissenso sull’operato del Presidente dell’Ente non è soggetta a sanzione disciplinare.

Nota a Trib. Roma 10 novembre 2022, n. 9312

Maria Novella Bettini

L’espressione di giudizi negativi sul datore di lavoro rientra nell’ambito del diritto di critica, purché tale diritto sia esercitato in maniera ragionevole e non pretestuosa e secondo modalità formali corrette.

Questo, il principio affermato dal Tribunale di Roma 10 novembre 2022, n. 9312 che ha accolto il ricorso presentato da alcuni dirigenti di un ente pubblico di ricerca, dichiarando la nullità dei provvedimenti disciplinari inflitti a causa della sottoscrizione di una lettera critica sull’operato del presidente dell’ente medesimo, inviata al Ministro per l’Università e la Ricerca. Nella fattispecie, i ricorrenti si erano limitati ad esprimere, mediante un parere circostanziato e specifico, il proprio dissenso in una lettera riservata inviata al Ministro competente.

Il giudice esclude che “la sola denuncia all’autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l’ipotesi in cui l’iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore. Perché possa sorgere la responsabilità disciplinare non basta che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito”.

Nello specifico, il Tribunale osserva che l’esercizio del diritto di critica (artt. 21 Cost., 1 Stat. Lav.):

a) va contemperato con il dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.;

b) incontra i limiti della c.d. continenza sostanziale (veridicità dei fatti contestati) e formale (correttezza del linguaggio adoperato) (v., da ultimo, n. 19092/2018, in q. sito con nota di F. ALBINIANO; n. 14527/2018, annotata in q. sito da F. BELMONTE; n. 18176/2018; Cass. n. 5523/2016, in q. sito con nota di F. ALBINIANO);

c) non può di per sé costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento “sia che si realizzi attraverso l’espressione di critiche, purché nei limiti di continenza formale e materiale tracciati, e sia che si traduca nella denuncia alle autorità competenti di fatti illeciti, di rilievo penale o amministrativo, purché non di carattere calunnioso”. Ciò poiché “l’obbligo di fedeltà imposto al lavoratore non può spingersi fino al punto da comprimere, oltre i limiti sopra individuati, l’esercizio del diritto tutelato dall’art. 21 Cost., e dallo Statuto dei lavoratori, art. 1.” (v. Cass. n. 17689/2022, in q. sito con nota di G. I. VIGLIOTTI). In particolare, con specifico riguardo alla condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o amministrativa fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, è escluso che “in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., il dovere di fedeltà possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento” (Cass. n. 4125/2017, in q. sito con nota di A. BREVAL e Cass. n. 6501/2013). L’esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall’art. 333 c.p.p., non può dunque costituire “fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell’illecito o della estraneità allo stesso dell’incolpato” (v. Cass. pen. n. 29237/2010 e Cass. n. 11898/ 2016).

d) può “configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione” (così, Cass. n. 1173/1986).

Sull’argomento v. M.N. BETTINI, Il diritto di critica del lavoratore nella giurisprudenza, in AA.VV., Diritto e libertà. Studi in onore di Matteo Dell’Olio, vol. I, Giappichelli, 2008, 141; P. PIZZUTI, Whistleblowing e diritto del lavoro, Giappichelli, 2019; ID., Privacy, libertà di opinione e informazione in azienda. Obbligo di fedeltà e whistleblowing, in C. PISANI- G. PROIA – A. TOPO (a cura di), Privacy e lavoro. La circolazione dei dati personali e i controlli nel rapporto di lavoro, Giuffré, 2022, 484; G. I. VIGLIOTTI, La divulgazione di illeciti aziendali tra diritto di critica e diritto di denuncia, nota a Trib. Milano 10 maggio 2021, n. 694, MGL, 2021, 1019.

Critica espressa in maniera ragionevole e non pretestuosa
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