Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 aprile 2023, n. 10184

Lavoro, Impugnativa di licenziamento, Discriminazione politica e sindacale, Controversie in materia di pubblico impiego contrattualizzato, Rito applicabile, Lettura del dispositivo in udienza, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 618 del 2018, la Corte d’Appello di Messina confermava la decisione n. 362 del 2018, con la quale il Tribunale di Patti aveva ritenuto improcedibile la domanda di impugnativa del licenziamento proposta da L.I., dipendente dell’E.P.N., per essere decorso il termine di 180 giorni previsto dall’art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012, non rilevando, ai fini dell’interruzione del termine decadenziale, l’avvenuto esperimento, da parte del dipendente, del ricorso ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ.;

2. avverso tale pronuncia il lavoratore ricorreva innanzi a questo giudice di legittimità che, con sentenza n. 3818 del 2021, accoglieva il ricorso proposto, argomentando sulla base della nuova qualificazione che deve essere data al ricorso c.d. d’urgenza all’esito dell’intervento della Corte costituzionale con sentenza n. 212 del 2020, e rinviava alla medesima Corte d’appello in diversa composizione;

3. a seguito della riassunzione, con decisione n. 399 del 2021, la Corte d’appello di Messina rigettava il reclamo proposto dallo I. con il quale quest’ultimo aveva dedotto: – la nullità della sentenza di primo grado per violazione dell’art. 429 cod. proc. civ. e per non essere stato il dispositivo letto in udienza; – la nullità del licenziamento impugnato per essere stato, lo stesso, intimato senza la sussistenza di giusta causa o di giustificato motivo e comunque senza la comunicazione dei motivi posti a suo fondamento, oltre che in conseguenza di una discriminazione politica e sindacale (essendosi, lo I., impegnato nella campagna elettorale del Comune di Mirto a sostegno di una coalizione di centrosinistra ed avendo, il medesimo, svolto attività sindacale di contestazione, in qualità di rappresentante della segreteria regionale del S.A.D.I.R.S., nei confronti dei vertici politici ed amministrativi dell’E.P.N.) ed aveva, conseguentemente chiesto, la reintegra nel proprio posto di lavoro con le medesime mansioni e qualifica e la corresponsione di tutto quanto dovutogli a titolo di retribuzioni ed oneri accessori maturati dal recesso illegittimo, a far data dal licenziamento sino all’effettiva reintegrazione;

riteneva la Corte territoriale non applicabile al caso de quo l’art. 429 cod. proc. civ., in quanto il processo era stato incardinato ed era proseguito secondo le forme ed i modi previsti dal c.d. rito Fornero, il quale essendo speciale e derogatorio rispetto all’ordinario rito di lavoro previsto dal codice di procedura civile prevale su quest’ultimo;

rilevava che, a termini dell’art. 1, comma 57, della l. n. 92 del 2012, l’unico obbligo è quello del deposito della sentenza entro 10 giorni dall’udienza di discussione e riteneva che, stante l’ordinarietà (e non perentorietà) di tale termine, non rilevasse, ai fini della nullità, l’avvenuto deposito dopo circa 9 mesi dalla data dell’ultima udienza di discussione avendo, il termine di 10 giorni previsto dal sopra citato comma 57, natura ordinatoria e non perentoria;

sosteneva la piena legittimità del licenziamento rilevando che la fattispecie in esame potesse agevolmente sussumersi in un’ipotesi classica di nullità del contratto di assunzione per violazione delle norme imperative che impongono la regola del concorso pubblico per l’accesso alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazione;

la vicenda traeva origine dall’essere stato il sig. I. immesso nei ruoli dell’E.P.N., con deliberazione n. 450 del 2005, dopo aver lavorato presso il medesimo Ente in posizione di comando dall’Anci Sicilia sin dal 28 marzo 2003;

successivamente, con le delibere n. 452 del 2010 e n. 7 del 2011, l’Ente aveva proceduto all’inquadramento economico del dipendente;

tale ultima deliberazione, però, era stata sospesa dall’Assessorato Regionale, il 26 aprile 2011;

con nota n. 9339 del 2012 l’Assessorato aveva espresso parere favorevole al trasferimento del lavoratore presso l’Ente Parco, a condizione che venisse confermata la natura di p.a. dell’Anci Sicilia, precedente datore di lavoro, e che l’assunzione presso quest’ultimo fosse avvenuta mediante procedura concorsuale;

acclarato che, invece, tale ultima assunzione era avvenuta per chiamata diretta e non attraverso il superamento di un concorso pubblico, con delibera n. 41 del 2015, l’ente aveva revocato i precedenti atti di immissione del ricorrente nei ruoli dell’ente Parco e, con nota n. 20902 del 2015, gli aveva notificato la cessazione del rapporto di lavoro richiamando, appunto, la delibera n. 41;

così ricostruita la vicenda storica, la Corte di merito riteneva nullo il rapporto di lavoro del ricorrente presso l’Ente Parco e qualificava l’attività lavorativa fino a quel momento prestata come prestazione di fatto ai sensi dell’art. 2126 cod. civ.;

da ciò derivava l’impossibilità di applicare le tutele – in modo particolare la reintegrazione – previste dall’art. 18 della l. n. 300 del 1970;

conseguentemente riteneva l’irrilevanza, oltreché infondatezza nel merito, delle doglianze prospettate dal lavoratore, incombendo sull’Amministrazione l’obbligo di rimuovere la situazione di illegittimità;

evidenziava che a conclusioni diverse non potesse portare l’invocato art. 7 L.R. 76 del 1995 in quanto anch’esso si riferisce al transito di personale regolarmente assunto mediante concorso;

inoltre, secondo l’indirizzo dettato dalla sentenza di questa Corte a sezioni unite, n. 10244 del 2021, l’ANCI, pur se titolare di compiti di natura tendenzialmente amministrativa, non poteva essere annoverato tra le p.a. indicate nell’art. 1 d.lgs. n. 165 del 2001;

l’applicazione di detto principio di diritto al caso in esame confermava l’illegittimità dell’immissione dello I. nei ruoli dell’Ente Parco e, dunque, il carattere giustificato del licenziamento;

4. nei confronti di tale sentenza L.I. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, successivamente illustrati da memoria;

 5. l’E.P.N. ha resistito con controricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione norme di diritto;

censura la sentenza impugnata per avere disatteso l’eccezione di nullità della decisione di prime cure proposta dal ricorrente sul presupposto dell’erronea applicazione dei commi dal 48 al 68 della l. n. 92 del 2012 nel procedimento in esame;

ribadisce che le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 all’art. 18 della l. n. 300 del 1970 non si applicano all’impiego pubblico privatizzato;

richiama Cass. 4 aprile 2017, n. 8722 secondo cui la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata l. n. 92 del 2012, resta quella prevista dall’art. 18 St. lav. nel testo antecedente la riforma;

2. il motivo è infondato;

una cosa è il regime di cui all’art. 18 della l. n. 300 del 1970, altra cosa è il rito previsto dalla legge Fornero;

come da questa Corte già chiarito (v. Cass. 2 marzo 2021, n. 5701) il rito previsto dalla l. n. 92 del 2012 è pacificamente applicabile alle controversie in materia di pubblico impiego contrattualizzato, stante l’immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado e in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando né le previsioni della l. n. 92 del 2012 (art. 1, comma 48 e seguenti), né il corpo normativo di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 e, anzi, militando per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 St. lav. l’espressa previsione dell’art. 1, comma 47, della medesima l. n. 92 del 2012 (v. anche Cass. 9 giugno 2016, n. 11868);

la qualificazione dell’atto come reclamo è, di conseguenza, corretta;

costituisce interpretazione consolidata di questa Corte quella secondo la quale il rito adottato dal giudice assume una funzione enunciativa della natura della controversia, indipendentemente dall’esattezza della relativa valutazione;

la ratio di tale interpretazione risiede nell’esigenza di sottrarre il regime dei termini per impugnare, per i quali è necessario il massimo grado di certezza, alle dispute circa la natura della controversia, oggetto del giudizio di merito, privilegiando l’affidamento del cittadino nelle forme del processo, e ciò in conformità al consolidato principio di ultrattività del rito che privilegia il principio dell’apparenza, sicché la qualificazione, anche implicita, dell’azione e del provvedimento compiuta dal Giudice costituisce criterio di riferimento per le parti, in assonanza con il principio secondo cui il mutamento del rito in un processo erroneamente iniziato compete esclusivamente al Giudice (così Cass. 9 novembre 2010, n. 22738; Cass. 9 agosto 2018, n. 20705; Cass. 11 luglio 2014, n. 15897; Cass. 8 luglio 2020, n. 14139);

3. con il secondo rilievo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 4, nullità della sentenza della Corte d’appello, sezione Lavoro, n. 399/2021 (R.G. n. 152/2021), per mancato accoglimento dell’eccezione di nullità della sentenza del Tribunale di Patti, sezione Lavoro, del 17.03.2018 (R.G. n. 3016/2016) senza lettura del dispositivo in aula, pubblicata 9 mesi dopo, il 22.03.2018, per violazione dell’art. 429 cod. proc. civ., per applicazione art. 18 l. n. 300 del 1970 tramite rito del lavoro ex art. 409 e ss. cod. proc. civ.;

4. il motivo è infondato;

premesso quanto osservato con riguardo al motivo precedente sulla scelta del rito, va richiamato il principio affermato da questa Corte (Cass. 21 febbraio 2022, n. 5649) secondo cui nel rito c.d. Fornero, di cui all’art. 1, commi 47 e ss., della l. n. 92 del 2012, non è prevista la lettura del dispositivo in udienza e l’eventuale pronuncia, che comunque vi sia stata, costituisce una mera anticipazione della pubblicazione del dispositivo rispetto alla motivazione, di tal che non è ravvisabile alcuna nullità della sentenza depositata, successivamente, entro il termine di dieci giorni dalla data dell’udienza di discussione, di cui al comma 57 del citato art. 1, essendo fatta salva la finalità acceleratoria del rito speciale e non configurandosi alcun pregiudizio del diritto di difesa ai fini dell’impugnazione, i cui termini decorrono dal deposito della motivazione (si veda anche, nel medesimo senso, Cass. 16 agosto 2018, n. 20749);

5. con la terza censura il ricorrente deduce la nullità della sentenza, con riferimento all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per mancata rilevazione ex-officio della nullità della sentenza di primo grado per superamento del termine dei 10 giorni dal deposito, così come previsto dall’art. 1, comma 57, della Legge Fornero; stante la natura perentoria e non ordinatoria del termine in questione;

6. il motivo è infondato;

secondo i principi generali il termine in questione, non essendo qualificato come perentorio, non può essere considerato tale in spregio alla regola fissata dall’art. 152 cod. proc. civ., secondo cui i termini perentori sono fissati dalla legge (cfr. Cass., n. 8685 del 2012 in motivazione);

7. infine, con l’ultimo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’omessa e/o insufficiente motivazione della sentenza sull’eccezione della mancata indicazione nella comunicazione di recesso dei motivi di licenziamento;

rileva che la sentenza impugnata sia incorsa in una omissione o, comunque, in una palese insufficiente valutazione delle ragioni a base del provvedimento di recesso, non avendo tenuto conto della eccezione in diritto proposta dall’odierno ricorrente, secondo la quale tali ragioni non erano state indicate e formalizzate per iscritto;

8. il motivo è infondato;

non è affatto vero che la Corte territoriale non abbia esaminato la relativa eccezione;

ed infatti, come si evince dal contenuto della sentenza (pag. 7), le doglianze relative alla “presunta inefficacia del licenziamento in oggetto per omessa esternazione della causa dello stesso e perché comunicato durate il periodo di malattia” sono state, da un lato, ritenute irrilevanti discutendosi, nella specie, non di un licenziamento ma di un atto inteso a rimuovere una situazione di illegittimità e, dall’altro, comunque ritenute infondate rilevando che l’atto predetto era stato adottato all’esito di un procedimento al quale il ricorrente aveva preso parte, “per cui l’asserita ignoranza di quest’ultimo circa le ragioni della sua estromissione è palesemente pretestuosa” ed aggiungendo: “priva di pregio è poi la censura di presunta inefficacia del licenziamento per non coincidenza tra la causa dichiarata al ricorrente e quella comunicata al Servizio per l’Impiego posto che quest’ultima comunicazione ha una valenza meramente amministrativa, del tutto ininfluente sulla posizione del lavoratore e sull’efficacia del recesso nei confronti dello stesso”;

9. da quanto detto consegue che il ricorso deve essere rigettato;

10. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

11. ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prescritto per il ricorso, ove dovuto a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

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