Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 aprile 2023, n. 10194

Lavoro, Differenze stipendiali tra diversi livelli di inquadramento, Elementi differenziati tra le posizioni C3 e C4, Inquadramento di un lavoratore subordinato, Diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori nel pubblico impiego contrattualizzato, Retribuzione di posizione e di risultato, Accoglimento

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 47/2016, depositata il 18 maggio 2016, la Corte di appello di Lecce – sezione Distaccata di Taranto -, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava il diritto di N.M., dipendente I.N.P.S., alla retribuzione corrispondente alle mansioni di fatto svolte di cui alla posizione C4, limitatamente al periodo dedotto in giudizio e salva la prescrizione quinquennale, e conseguentemente condannava l’INPS al pagamento delle differenze stipendiali tra il livello di inquadramento (C3) e quello superiore (C4) nonché dell’indennità di posizione organizzativa ex art. 17 del c.c.n.l. enti pubblici non economici fino a novembre 2006;

respinta preliminarmente l’eccezione afferente alla interruzione di prescrizione sollevata dall’appellante (prescrizione che ancorava al 19.1.2008), la Corte territoriale rilevava che il M. aveva limitato i motivi di censura alla sola statuizione di rigetto della domanda di pagamento delle differenze retributive ed in ogni caso dava atto che il predetto era stato formalmente inquadrato nella posizione C4 a seguito del superamento della selezione indetta dall’INPDAP e conclusasi nel luglio del 2010, con decorrenza dall’1.1.2008;

riteneva che tale domanda di pagamento delle differenze retributive fosse fondata;

rilevava dalla documentazione prodotta dal ricorrente e dall’esito delle deposizioni testimoniali l’attribuzione e lo svolgimento di compiti rientranti nella posizione C4;

in particolare, evidenziava che il M. era stato responsabile del processo pensioni per il settore Enti Locali e Ferrovie, occupandosi della liquidazione di tali pensioni, delle linee di prodotto INPDAP nel settore previdenziale, svolgendo compiti di ordinatore di spesa e, dunque, avendo una responsabilità ricollegabile alla posizione C4;

riteneva spettanti anche le differenze relative alla posizione organizzativa rilevando che, pur in assenza del presupposto del contratto integrativo dell’allora vigente c.c.n.l. (contratto intervenuto nel 2006), il relativo riconoscimento si fondava sul precetto costituzionale sancito nell’art. 36 Cost.;

2. avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’I.N.P.S. con due motivi, cui ha resistito il M. con controricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo l’Istituto ricorrente denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.; omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

censura la sentenza impugnata per aver apprezzato le prove testimoniali in modo diametralmente opposto al primo giudice e per aver ritenuto sussistenze in capo al M. la responsabilità di un ‘processo aziendale’ che invece non sussisteva, là dove la posizione ordinamentale C3 presupponeva, come nella specie, la responsabilità del solo ‘processo produttivo’ all’interno del processo aziendale;

lamenta che la Corte territoriale abbia esaminato e valutato le deposizioni dei testimoni senza tener conto del diverso grado di autonomia e responsabilità richiesto dal livello di appartenenza del lavoratore e da quello di cui alla pretesa;

2. con il secondo motivo l’Istituto ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001, degli artt. 1362 cod. civ. e ss., degli artt. 13, 16 e 24 del c.c.n.l. 1998/2001 con riferimento all’interpretazione delle declaratorie contrattuali delle Aree di cui all’allegato A del c.c.n.l. Enti pubblici economici 1998/2001;

dopo un’ampia esposizione delle norme contrattuali collettive, lamenta che la Corte territoriale, trascurando il contenuto delle declaratorie contrattuali e gli elementi differenziali tra le posizioni C3 e C4, abbia ritenuto sussistenti in capo al M. la responsabilità riferita all’intero ‘processo aziendale’ essendo, invece, solo sussistente una responsabilità relativa al ‘processo produttivo’ in cui era articolata l’Area pensioni;

2. con il terzo motivo l’INPS denuncia deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., nonché degli artt. 17 e 18 del c.c.n.l. enti pubblico non economici e dell’allegato A – Declaratoria delle Aree del c.c.n.l. 1998/2001;

rileva che, nella specie, il M. non era destinatario di alcun incarico di posizione organizzativa e pertanto non era titolare di alcun diritto soggettivo con la conseguenza che non poteva trovare applicazione l’art. 36 Cost.;

rileva, altresì, che l’indennità di posizione organizzativa era stata istituita dal c.c.i.e. del 2006 e quindi nessuna rivendicazione poteva essere effettuata nel periodo ante 1.12.2006;

4. il primo motivo di ricorso è inammissibile;

la dedotta violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. U, 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892) e che la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è configurabile solo allorché il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass., Sez. U, n. 11892/2016 cit.; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965), situazioni queste non sussistenti nel caso in esame;

per il resto il motivo, nonostante il formale richiamo al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, si risolve nella critica della sufficienza del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. apportata dall’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge n. 134/2012;

con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le Sezioni Unite di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di «minimo costituzionale», ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris;

proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ.;

ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie;

per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito;

secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria);

ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti;

a sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale);

sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6 e 369, comma 2, n. 4 cod. proc. civ.: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il ‘come’ e il ‘quando’ tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività;

l’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza n. 8053/14, come il ‘tassello mancante’ (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario;

invece, con il mezzo in disamina, si lamentano, in sostanza, vizi di motivazione che non sarebbero stati denunciabili neppure alla luce del previgente testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.: la censura, infatti, suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio;

5. il secondo motivo di ricorso è infondato;

innanzitutto, non è vero che la Corte territoriale non abbia enucleato gli elementi differenziati tra le posizioni C3 e C4;

pur con una sintetica motivazione, la sentenza impugnata ha evidenziato tali elementi differenziali (‘responsabilità di struttura organizzativa’ e ‘responsabilità’ di processo di produzione’ come rispettivamente ascrivibili alle posizioni C4 e C3) ed ha ritenuto che, nello specifico, sulla base delle emergenze di causa, fosse riscontrabile, nella situazione del M. una responsabilità che non era solo limitata ad un segmento del processo produttivo ma estesa a tutte le fasi gestionali ed operative orientate al risultato del settore pensionistico affidatogli, a partire dalla responsabilità delle linee di prodotto INPDAP fino alle liquidazioni ed agli ordini di spesa;

il ricorso prospetta una erronea interpretazione, da parte del giudice di merito, delle disposizioni collettive ma non chiarisce le ragioni giuridiche per cui l’interpretazione del giudice di merito, esente da vizi logici, risulti erronea, limitandosi a contrapporre a quella della Corte di merito una diversa interpretazione e valutazione della disciplina collettiva, peraltro fondata su insindacabili accertamenti di fatto compiuti dal giudice del merito;

il c.c.n.l. del 16 febbraio 1999 per i dipendenti del compatto enti pubblici non economici inserisce nell’Area C il personale “competente a svolgere tutte le fasi del processo” che opera “a livelli di responsabilità di diversa ampiezza secondo lo sviluppo del curriculum”, e, quindi, differenziata in ragione della pluralità di ruoli organizzativi, di tipo sia gestionale (operatore di processo, facilitatore di processo, responsabile di processo, responsabile di struttura) che professionale (esperti di progettazione, specialisti di organizzazione);

nella declaratoria generale dell’Area si precisa che il personale nella stessa inserito “costituisce garanzia di qualità dei risultati, della qualità, di circolarità delle comunicazioni interne, di integrazione delle procedure, di consulenza specialistica”;

l’Area C, quindi, si caratterizza per il livello di conoscenze richiesto al dipendente in ragione della capacità di quest’ultimo di svolgere tutte le fasi del processo, garantendo la qualità del risultato e con assunzione di responsabilità che, seppure graduata con riferimento allo sviluppo professionale all’interno dell’Area stessa, è elemento richiamato in tutti i profili;

la posizione C3 presuppone “la capacità di gestire e regolare i processi di produzione sulla base di una visione globale dei processi produttivi della struttura organizzativa di appartenenza; attitudini al ‘problem solving’ rapportate al particolare livello di responsabilità; capacità di operare orientando il proprio contributo professionale all’ottimizzazione del sistema, al monitoraggio sistematico della qualità e alla circolarità delle informazioni; capacità di gestire le varianze del processo in funzione del ‘cliente’; attitudine alla cooperazione e all’integrazione operativa e funzionale, capacità di gestire teams di lavoro anche interfunzionali guidando e motivando gli appartenenti al gruppo”;

la posizione C4 presuppone “l’assunzione di responsabilità formale in ordine alla conduzione di strutture organizzative e alla gestione delle risorse nell’obiettivo di contribuire responsabilmente allo sviluppo e all’integrazione delle conoscenze rilevanti per i processi aziendali; la partecipazione al sistema di valutazione; la capacità di assumere decisioni anche in situazioni di criticità orientando il proprio contributo all’ottimizzazione del sistema, al monitoraggio sistematico della qualità, alla circolarità delle informazioni, all’integrazione interna ed esterna (…)”;

la Corte territoriale ha correttamente interpretato le disposizioni del c.c.n.l., evidenziando che i tratti differenziali fra il personale delle due posizioni, C3 e C4, vanno individuati nell’attribuzione al personale C4 della responsabilità di una struttura organizzativa intesa come gestione di tutte le fasi di un determinato settore con responsabilità del raggiungimento dei relativi risultati;

la sentenza impugnata, richiamate le prove documentali e le deposizioni testimoniali, all’esito dell’esame delle stesse ha ritenuto che il lavoratore fosse responsabile (significativamente la Corte territoriale utilizza l’espressione ‘diretto responsabile’) del processo pensioni per il settore Enti Locali e Ferrovie, delle linee di prodotto INPDAP nel settore previdenziale, di ordinatore di spesa e dunque svolgeva mansioni riconducibili alla posizione C4;

il giudice di appello si è dunque attenuto al principio di diritto, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 8683/2018) secondo cui il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda;

il giudizio di merito espresso dalla Corte territoriale sulla natura delle mansioni espletate dal ricorrente non è sindacabile in questa sede;

6. il terzo motivo è fondato nei termini di seguito illustrati;

va ricordato quanto affermato da questa Corte nella decisione n. 19772/2022 nella quale è stata data continuità al principio secondo cui, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost. (Cass. n. 2102/2019; conformi, fra altre: Cass. n. 18808/2013; Cass. n. 14775/2010);

è stato in particolare precisato che nel pubblico impiego privatizzato, la posizione organizzativa si distingue dal profilo professionale e individua nell’ambito dell’organizzazione dell’ente funzioni strategiche e di alta responsabilità che giustificano il riconoscimento di un’indennità aggiuntiva; ove il dipendente venga assegnato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall’ente, e ne assuma tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a commisurare l’entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa (Cass. n. 8141/2018);

già Cass., Sez. Un., n. 3814/2011 aveva stabilito che in caso di reggenza del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, vanno incluse, nel trattamento differenziale per lo svolgimento delle mansioni superiori, la retribuzione di posizione e quella di risultato, atteso che l’attribuzione delle mansioni dirigenziali, con pienezza di funzioni e assunzione delle responsabilità inerenti al perseguimento degli obbiettivi propri delle funzioni di fatto assegnate, comporta necessariamente, anche in relazione al principio di adeguatezza sancito dall’art. 36 Cost., la corresponsione dell’intero trattamento economico, ivi compresi gli emolumenti accessori (conforme Cass. n. 9878/2017);

deve, dunque, sussistere, quanto all’indennità di posizione organizzativa che qui rileva, una previa formale istituzione della stessa da parte dell’Amministrazione che costituisce condizione imprescindibile per poter, rispetto a questa, operare la suddetta valutazione di adeguatezza (si veda la citata Cass. n. 8141/2018);

diversamente, si opererebbe una sostituzione del giudice alla P.A. nelle scelte ad essa riservate;

solo allorquando la posizione organizzativa sia stata istituita e si accerti che il dipendente abbia svolto con pienezza di poteri le mansioni connesse all’incarico, assumendone la relativa responsabilità, non è corretto valorizzare quei compiti ai soli fini della comparazione fra i livelli di inquadramento (quello posseduto dal dipendente e quello sotteso alla posizione organizzativa), riconoscendo l’esercizio di fatto delle mansioni superiori, ma escludendo al tempo stesso il conferimento, sempre in via di fatto, della posizione in discussione;

nella specie risulta dalla sentenza impugnata che la posizione organizzativa in discussione era stata istituita solo a partire dal 1°/12/2006 (data in cui tale posizione organizzativa è stata conferita al ricorrente: si veda pag. 23 del controricorso);

solo da tale data in poi poteva essere riconosciuto al M. il relativo emolumento;

9. in conclusione, va accolto nei termini sopra evidenziati il terzo motivo di ricorso e vanno rigettati gli altri;

la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di Lecce che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame attenendosi ai principi sopra illustrati e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità;

10. non sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater d.P.R. n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il terzo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 aprile 2023, n. 10194
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