Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 aprile 2023, n. 10069
Lavoro, CIGS, Sospensione del rapporto di lavoro, Cassa integrazione guadagni a zero ore, Clausola di rotazione, Inerzia del lavoratore non preclusiva a far valere la responsabilità risarcitoria del datore, Divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti, Rigetto
Fatti di causa
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Bari, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere in relazione alla domanda proposta dall’attore S.B.; per il resto ha rigettato l’appello che la N. s.p.a. aveva proposto nei confronti degli altri lavoratori appellati, attuali controricorrenti, contro la stessa sentenza, che aveva dichiarato l’illegittimità della sospensione in CIGS del rapporto di lavoro dei suddetti e la loro collocazione in cassa integrazione guadagni a zero ore, condannando la società al pagamento di somme pari alla differenza tra la retribuzione piena spettante e il trattamento di integrazione salariale percepito dai lavoratori in relazione ai periodi indicati per ognuno di loro, oltre accessori come per legge.
2. Avverso tale sentenza la N. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad undici motivi.
3. I lavoratori intimati hanno resistito con unico controricorso.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento per le ragioni diffusamente esposte in plurime decisioni di questa Corte in analoghe controversie, alle cui motivazioni si rinvia ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. per ogni ulteriore aspetto qui non direttamente esaminato (v. Cass. n. 37021 del 2022; Cass. n. 33343 del 2022; Cass. n. 31856 del 2022; Cass. n. 31855 del 2022; Cass. n. 31854 del 2022; Cass. n. 31843 del 2022; Cass. n. 31841 del 2022; Cass. n. 31840 del 2022; Cass. n. 31839 del 2022; Cass. n. 28421 del 2022).
2. Con il primo motivo la ricorrente – denunciando nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla eccepita violazione da parte del giudice di prime cure del disposto di cui all’art. 112 c.p.c. nonché mancanza della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione di cui all’art. 132 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – deduce che il giudice di appello e quello di primo grado hanno omesso di statuire sull’eccezione relativa al mancato rispetto dell’onere, gravante sul ricorrente, di prendere posizione in ordine a ciascun accordo di CIGS nonché in relazione agli specifici vizi da cui ciascun accordo sarebbe stato affetto.
3. La censura va disattesa, poiché, quanto al dedotto vizio di omessa pronuncia, vale il principio che esso non è configurabile su questioni processuali (cfr., tra le altre, Cass. n. 1876 del 2018; Cass. n. 22799 del 2017; Cass. n. 7653 del 2012); peraltro il vizio di ultrapetizione è configurabile solo con riguardo alla ipotesi in cui il giudice attribuisca o neghi, ad alcuno dei contendenti, un bene diverso da quello richiesto e non compreso, neppure virtualmente, nella originaria domanda (Cass. n. 22753 del 2019), mentre, nel caso in esame, la Corte territoriale ha scrutinato il materiale probatorio allegato comprensivo di tutti i documenti e verbali in discussione, traendo da essi il proprio convincimento decisorio, con conseguente rigetto di tutti i motivi di gravame, disattendendo, quindi, quanto meno implicitamente, tutte le censure formulate nell’appello.
4. Con il secondo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., sostenendo che “le somme richieste dal lavoratore altro non sono che quote di retribuzione ‘illecitamente’ non versate dal datore (non autorizzato a sospenderne la prestazione) e pertanto soggette alla prescrizione breve di cui all’art. 2948 c.c.”.
5. Il motivo è inammissibile nella parte in cui è introdotta la questione dell’avvenuta prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento dell’atto di gestione del rapporto, non risultando dal ricorso per cassazione (né dalla sentenza impugnata) come la questione fosse stata posta nel giudizio di primo grado e come la stessa avesse eventualmente costituito oggetto di gravame in appello; per il resto, è da disattendere in quanto, per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale (tra molte, Cass. n. 25139 del 2010 e Cass. n. 10376 del 2021).
6. Con il terzo motivo, denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., si sostiene che il giudice del gravame abbia omesso di considerare che l’inerzia del lavoratore – tradottasi nella mancata assunzione di alcuna iniziativa volta a contestare i provvedimenti datoriali e/o a rivendicare ipotetiche differenze retributive – nei dieci anni di collocazione in CIGS aveva determinato la perdita del diritto.
7. Il motivo va disatteso, perché l’orientamento nettamente prevalente di questa Corte è nel senso che la mera inerzia non è sufficiente a determinare la perdita del diritto in capo al creditore, occorrendo un “quid pluris” che valga ad esprimere una chiara e certa volontà abdicativa (cfr. sul punto, Cass. n. 19235 del 2011: “In materia di cassa integrazione guadagni straordinaria, la mancata iniziativa del lavoratore diretta a sollecitare l’attuazione della clausola di rotazione non preclude il diritto del medesimo di far valere la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento di detta clausola (non riconducibile alla figura del contratto a favore di terzo), poiché la mera inerzia ad esercitare un proprio diritto non prova di per sé una volontà abdicativa, dovendo ogni rinuncia essere espressa o ricavarsi da condotte univoche. Né può ritenersi che la non immediata proposizione dell’azione risarcitoria integri una concausa del verificarsi del fatto generatore del danno e, quindi, giustifichi una riduzione del risarcimento a norma dell’art. 1227 c.c.”; v., altresì, di recente, Cass. n. 2739 del 2018: “La rinuncia ad un diritto oltre che espressa può anche essere tacita; in tale ultimo caso può desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa; al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni”; in senso analogo v. Cass. n. 3657 del 2020: “La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto”).
8. Con il quarto motivo – denunciando violazione o falsa applicazione dell’art. 1219, primo comma, c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – censura la sentenza impugnata per avere ritenuto insussistente l’obbligo, per il lavoratore, di costituire in mora il datore di lavoro, mediante una intimazione o richiesta fatta per iscritto.
9. La censura è infondata perché la sentenza impugnata è conforme al principio per il quale: “In caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale, ove il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa sia illegittimo, è questo stesso atto negoziale unilaterale, con il rifiuto di accettare la prestazione lavorativa, a determinare la “mora credendi” del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore non è tenuto ad offrire la propria prestazione ed il datore medesimo è tenuto a sopportare il rischio dell’estinzione dell’obbligo di esecuzione della prestazione” (Cass. n. 10236 del 2009).
10. Con il quinto motivo si deduce, a mente del n. 4 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., la “nullità della sentenza per motivazione apparente in ordine alle argomentazioni esposte dalla Corte territoriale quanto alla illegittimità della CIGS”.
11. Il motivo è da rigettare, poiché la sentenza impugnata esplicita chiaramente le ragioni della ritenuta genericità dei criteri di scelta, argomentando: “Nella specie, gli accordi fanno riferimento a esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (…) il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (…) In definitiva, la N. ha autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati (anzianità, carichi, esigenze produttive), le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione”.
Come noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno ritenuto che l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integri un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014); il che non ricorre nella specie in quanto è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per ritenere illegittima la sospensione in cassa integrazione del lavoratore, mentre eventuali insufficienze motivazionali non sono più sindacabili innanzi a questa Corte.
12. Con il sesto motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1, comma 7, L. n. 223 del 1991, criticando la sentenza impugnata per avere di fatto “confuso” la specificità dell’individuazione dei criteri, rispetto alle concrete modalità applicative”.
13. Il motivo è da rigettare per le ragioni già espresse nei precedenti richiamati in premessa; invero, già la genericità dei criteri si riverbera, inevitabilmente, in chiave negativa, sugli adempimenti prescritti dall’art. 1, comma 7, della L. n. 223 del 1991 (sicché la deduzione della predetta genericità è idonea ad identificare il “petitum” coerente con la previsione normativa); inoltre, la doglianza non si confronta con la intera motivazione della sentenza impugnata, la quale, con riguardo al parametro delle esigenze tecnico-organizzative, ha evidenziato che “La prova evidente dell’assoluta genericità dei criteri è nelle stesse giustificazioni addotte dall’appellante con l’atto di gravame: <… N. ha quindi provveduto ad assegnare un punteggio per ciascuno de tre criteri di cui sopra (anzianità aziendale, carichi di famiglia, esigenze organizzative) a tutti i lavoratori aventi mansioni fungibili, sospendendo coloro i quali, nella ponderazione dei tre criteri di cui sopra (ciascuno con rilevanza di 1/3 ai fini della graduatoria) avessero un punteggio più basso …> (…) Dunque, il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario>; sicché la illegittimità è stata ravvisata, in primo luogo, nell’attribuzione assolutamente discrezionale dei predetti punteggi, che ha inevitabilmente alterato l’applicazione in maniera concorrente dei tre richiamati criteri; le stesse ragioni sono state poste a base, da parte dei giudici di seconde cure, correttamente anche in relazione alla statuizione concernente la illegittimità delle proroghe che comunque si riferivano ad un accordo genetico viziato da una inammissibile genericità.
14. Ne consegue che non può essere accolto neanche il settimo motivo, con cui si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., lamentando che la Corte territoriale avrebbe ritenuto di censurare la collocazione in CIGS dei lavoratori in ragione della mancata esplicazione, da parte della società, delle modalità applicative, violando il riparto degli oneri probatori; infatti, la censura non si misura con la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, imperniata non sul mancato rispetto di criteri di scelta, bensì sulla previsione di criteri generici e, quindi, illegittimamente adottati.
15. Con l’ottavo motivo si denuncia la nullità della sentenza per motivazione apparente, non avendo, la Corte pugliese, tenuto conto della circostanza che i criteri fissati negli accordi erano stati oggetto di discussione nell’ambito degli incontri presso il Ministero del Lavoro.
16. La censura è inammissibile, poiché con essa – a fronte di una motivazione che soddisfa (tenuto conto dei passaggi sopra riportati) i requisiti minimi di cui all’art. 132 c.p.c. – si mira ad introdurre impropriamente il vizio di omesso esame di una circostanza (id est: discussione dei criteri nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro) non decisiva, essendo la sentenza incentrata sull’assoluta genericità dei criteri.
17. Con il nono motivo – denunciando nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla applicabilità alla fattispecie del disposto di cui all’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si contesta che il giudice del gravame abbia valorizzato alcuni elementi, come l’inerzia del lavoratore, che avrebbero potuto o dovuto ridurre l’arco temporale di riferimento del compendio risarcitorio, ai sensi dell’art. 1227 c.c..
18. La censura è inammissibile, non emergendo dal motivo di ricorso che già in primo grado la ricorrente ebbe a dedurre l’applicabilità (come noto, esclusa, in materia, da costante giurisprudenza; cfr., sul punto, Cass. n. 19235 del 2011) dell’art. 1227, secondo comma, c.c., oppure che la questione (non rilevabile di ufficio; cfr., tra le altre, Cass. n. 19218 del 2018) ebbe ad essere comunque esaminata nel detto grado.
19. Con il decimo motivo – in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. per omesso esame della necessità di procedere alla divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti. Con l’ultimo motivo si denuncia la nullità della sentenza per motivazione apparente nella parte in cui ha delibato i motivi fondanti la richiesta della società di riduzione del compendio risarcitorio.
20. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per connessione, non meritano accoglimento – come più volte statuito da questa Corte – poiché sulla questione della divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti (sulla base del quale il lavoratore comunque sarebbe stato assoggettato ad un periodo di CIGS) il giudice del gravame ha reso effettiva motivazione citando pertinenti precedenti di questa Corte (Cass. n. 12089 del 2016, ove si legge che <La violazione delle indicate disposizioni sulla indicazione e sulla comunicazione alle organizzazioni sindacali di adeguati meccanismi di rotazione nella sospensione – in assenza di comprovate ragioni di ordine tecnico e organizzativo giustificative dell’adozione di precisi meccanismi alternativi alla rotazione determinati ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 8 – comporta – in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte – l’illegittimità del provvedimento concessorio dell’intervento di integrazione salariale e quindi l’illegittimità della sospensione operata dal datore di lavoro dei lavoratori stessi, i quali, vantando una posizione di diritto soggettivo, possono chiedere al giudice ordinario l’accertamento, previa disapplicazione incidenter tantum del provvedimento amministrativo di concessione della CIGS, dell’inadempimento del datore di lavoro in ordine all’obbligazione retributiva alla stregua dell’ordinario regime previsto dall’art. 1218 cod. civ., essendo venuta meno, quale ragione d’esonero dalle conseguenze dell’inadempimento, l’elevazione al livello dell’impossibilità della prestazione delle situazioni di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione industriale>, conf. a Cass. n. 19618 del 2011) ed aggiungendo che <la N. non ha neanche provato che ricorrevano tutti i presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte ricorrente e per quanto tempo>; la motivazione, sul punto, non si rivela apparente, in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione, sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell’ipotetico abbattimento del risarcimento derivante dall’applicazione di un periodo minore di cassa integrazione; senza contare che la stessa censura – imperniata sul rilievo che la questione non necessitava di alcuna prova “trattandosi di conseguenze automatiche di fatti pacifici” – è mal posta, poiché, da un lato, essa denuncia, nella sostanza, una errata applicazione del principio dell’onere della prova in materia, e, dall’altro (ciò che più conta), non illustra in maniera intellegibile, da un lato, in qual modo i ricorrenti avrebbero potuto essere comunque collocati legittimamente in CIGS a fronte della accertata genericità dei criteri, e, dall’altro, come avrebbe potuto calcolarsi in concreto l’ipotetico (e non plausibile, per quanto appena detto) abbattimento della posta risarcitoria.
21. Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto e le spese vanno liquidate secondo soccombenza come da dispositivo. La ricorrente è, altresì, tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre a rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.