Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 aprile 2023, n. 10053

Lavoro, Dispositivi di protezione individuale, Raccolta dei rifiuti, Autista dell’autocompattatore, Risarcimento dei danni da inadempimento dell’obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.), Finalità di protezione del lavoratore dai rischi per la salute e sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, Imprese insalubri, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. La Corte d’appello di Cagliari (sentenza n. 33/2021), giudicando in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 26025/2019), ha respinto la domanda proposta da G.P.B., F.F., L.G., F.P., di condanna della D.V.T. spa al risarcimento dei danni da inadempimento dell’obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.).

2. La Corte territoriale ha premesso che l’applicazione del principio di diritto enunciato dalla S.C. (che ha ritenuto sussistente il denunciato vizio di violazione di legge della sentenza d’appello per avere interpretato l’art. 40, comma 1, d.lgs. n. 626 del 1994, e la nozione legale di D.P.I. come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate; laddove la disposizione suddetta, per l’ampio tenore letterale della previsione e la precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve essere letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, ai fini dell’adempimento datoriale all’obbligo, posto dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 626 del 1994”) richiedesse il previo accertamento di una esposizione dei lavoratori al rischio rispetto al quale il vestiario fornito da parte datoriale potesse costituire una difesa; ha ritenuto che l’allegazione dei lavoratori, di essere adibiti sia alla guida di automezzi vari, sia all’aggancio dei cassonetti stradali all’autocompattatore, non avesse trovato riscontro nell’istruttoria svolta; ha quindi escluso che le mansioni di autista, svolte dai predetti lavoratori, esponessero gli stessi al contatto con i rifiuti e che gli abiti forniti dalla datrice di lavoro costituissero D.P.I.

3. Avverso tale sentenza i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui ha resistito con controricorso la società. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c.

 

Considerato che

 

4. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 384 cpv. e 394 c.p.c. per non essersi la Corte territoriale uniformata al principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione e per indebita rinnovazione di ius dicere su parti coperte dal giudicato ex art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c.

5. Si sottolinea come l’ordinanza di legittimità abbia fatto riferimento, nella parte motiva, e nel trattare il tema del rischio a cui sono esposti i lavoratori, al settore della raccolta dei rifiuti e agli operatori ecologici e che abbia riconosciuto tutti i lavoratori impegnati nell’attività di raccolta dei rifiuti, senza alcuna distinzione tra autisti, operatori addetti alla raccolta o allo spazzamento, esposti al rischio di contaminazione, con conseguente necessità di considerare gli indumenti agli stessi forniti come D.P.I.

6. Con il secondo motivo di ricorso i lavoratori hanno censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 n. 5 c.p.c., per violazione e falsa applicazione del D.L.gs. n. 626 del 1994 e dell’art. 216, T.U. n. 1265 del 1934, per aver escluso che la D.V.T. s.p.a. fosse classificabile come impresa insalubre di prima classe.

7. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., per insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia, per avere la Corte d’appello erroneamente valutato ed immotivatamente disatteso le risultanze istruttorie, ritenendo che gli operatori ecologici con la qualifica di autisti non fossero esposti a rischio di infezione biologica e che gli indumenti forniti dall’azienda non potessero essere classificati D.P.I. con conseguente obbligo del datore di lavoro al relativo lavaggio.

8. Con il quarto motivo hanno denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. per avere la Corte d’appello erroneamente escluso il rischio alla salute cui erano esposti i lavoratori nell’espletamento dell’attività lavorativa.

9. Con il quinto motivo i ricorrenti hanno dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 379 d.P.R. 547/55, dell’art. 43, comma 4, d.lgs. 626/94, dell’art. 77, d.lgs. 81/2008, degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., per erronea interpretazione delle disposizioni suddette; nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per avere la Corte d’appello escluso che tra gli indumenti forniti dall’azienda ai lavoratori fossero compresi scarpe, guanti, l’impermeabile che nel D.V.R. erano classificati D.P.I.

10. Il primo motivo di ricorso è infondato.

11. Come è noto “il ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata in sede di rinvio, diretto a denunciare la mancata osservanza del principio di diritto fissato con la pronuncia di annullamento, o il mancato assolvimento dei compiti con essa affidati, implica il potere-dovere della suprema Corte di interpretare direttamente il contenuto e la portata della propria precedente statuizione” (Cass. n. 2020 del 1981; Cass. n. 5567 del 1982; Cass. n. 19212 del 2005; Cass. n. 9395 del 2006).

12. I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione (Cass. n. 12817 del 2014; Cass. n. 27337 del 2019; Cass. n. 448 del 2020), come nel caso che ci occupa. Nella prima ipotesi, il giudice è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo (Cass. n. 12347 del 1999; Cass. n. 5769 del 1999; Cass. n. 188 del 1994; Cass. n. 3572 del 1987); nella seconda ipotesi, invece, egli non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata; nella terza ipotesi, infine, la potestas iudicandi del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di Cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse (Cass. n. 6707 del 2004).

13. Nel caso in esame, nella ordinanza rescindente (Cass. n. 26025/2019) pronunciata da questa S.C., si legge: “La Corte territoriale, richiamata la definizione di D.P.I. dettata dall’art. 40, comma 1, D.Lgs. n. 626 del 1994, nonché le previsioni di cui al D.Lgs. n. 475 del 1992 e alla circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 29.4.1999, ha precisato che dispositivi di protezione individuale sono solo quelli aventi, secondo valutazioni tecnico scientifiche, la funzionalità tipica di protezione dai rischi per la salute e la sicurezza e che rispondono ai requisiti normativamente dettati per la relativa realizzazione e commercializzazione. Ha escluso che gli indumenti da lavoro forniti dalla società datoriale potessero essere qualificati D.P.I. in quanto non destinati a fornire una adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive o agenti patogeni”. (v. ordinanza pag. 3, par. 2 e 3).

14. Questa Corte, nel cassare la sentenza d’appello, ha ritenuto integrato il vizio di violazione dell’art. 40, comma 1, d.lgs. n. 626 del 1994, e della nozione legale di D.P.I. ove intesa “come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate” ed ha statuito che “la disposizione suddetta, per l’ampio tenore letterale della previsione e la precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve essere letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, ai fini dell’adempimento datoriale all’obbligo, posto dall’art. 4, comma 5, d.lgs. n. 626 del 1994”.

15. La categoria dei D.P.I. è stata definita in ragione “della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione contemplati nel contratto collettivo” (pag. 9). L’obbligo di fornitura e manutenzione dei D.P.I. è stato quindi collegato alla “idoneità, seppur minima, dei medesimi di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa, costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori e quindi per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l’insorgere e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito domestico” (pag. 12).

16. L’ordinanza n. 26025/2019 (pagg. 12 – 13), nell’accogliere anche il terzo motivo di ricorso, ha ritenuto integrato il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. per non avere la sentenza impugnata “dato atto dell’esito del sopralluogo effettuato dall’Asl il 12.5.2006 che aveva individuato l’esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti svolta dalla società, di un rischio infettivo, più esattamente di un rischio da contatto con sostanze tossiche, nocive ed agenti biologici”.

17. La pronuncia rescindente ha adottato una nozione di D.P.I. basata sulla funzione protettiva svolta “in concreto” da qualsiasi attrezzatura o indumento, sia pure in misura ridotta o limitata, “rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore”; ha cassato la sentenza d’appello per avere la stessa adottato una nozione formale di D.P.I., ancorata a pregresse valutazioni tecnico scientifiche; ha rimproverato alla Corte di merito di avere, partendo da tale errata nozione legale di D.P.I., omesso di svolgere i necessari accertamenti sebbene l’esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti, di un rischio da contatto con sostanze tossiche, nocive ed agenti biologici fosse attestato dalle indagini ispettive eseguite dall’Asl.

18. Le statuizioni adottate nella ordinanza n. 26025/2019 comportavano, dal punto di vista logico, la necessità di un accertamento “in concreto” che, in relazione alle specifiche mansioni dei singoli lavoratori che operano alle dipendenze di società incaricate della raccolta dei rifiuti, indagasse sulla esposizione dei medesimi al rischio di contatto con sostanze nocive e sulla funzione protettiva, sia pure minima, attribuibile in concreto a singoli attrezzi, indumenti o accessori, da classificare pertanto come D.P.I.

19. La Corte di rinvio ha proceduto a questo accertamento ed ha ricostruito nel dettaglio le mansioni di autista svolte dagli attuali ricorrenti escludendo che essi effettuassero anche l’aggancio dei cassonetti stradali all’autocompattatore o che, comunque, svolgessero altri compiti comportanti il rischio di contagio, come aiutare i colleghi nel prelievo e nel caricamento dei sacchi dalla strada. In tal modo i giudici di rinvio sono rimasti nei binari segnati dalla pronuncia rescindente ed hanno eseguito gli accertamenti fattuali resi necessari dalla nozione di D.P.I. come tratteggiata in sede di legittimità. Deve quindi escludersi la denunciata violazione degli artt. 384 e 394 c.p.c.

20. Il secondo motivo di ricorso è infondato. Non sussiste la violazione di legge denunciata, non essendo D.V.T. spa, per l’attività di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti urbani svolta, classificabile come impresa insalubre di prima classe, in quanto non rientrante nella previsione dell’articolo 216 r.d. 1265/1934. Esso, infatti, stabilisce: “Le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti sono indicate in un elenco diviso in due classi” (primo comma); “La prima classe comprende quelle che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni; la seconda quelle che esigono speciali cautele per la incolumità del vicinato” (secondo comma). Neppure essa può essere inclusa nell’Elenco delle industrie insalubri di cui all’art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie, oggetto del D.M. 5 settembre 1994, che prevede, nella parte I (industrie di prima classe) – lettera B) Prodotti e materiali, ai punti: 100. Rifiuti solidi e liquami – depositi ed impianti di depurazione, trattamento; 101. Rifiuti tossici e nocivi di cui al decreto del Presidente della Repubblica.

21. Il terzo e il quarto motivo di ricorso, che si trattano unitariamente per connessione logica, non possono trovare accoglimento. Non si configura la violazione di legge denunciata, la quale implica un problema interpretativo della stessa, ovvero di falsa applicazione della legge, che consiste nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addica, perché la fattispecie astratta da essa prevista non sia idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicano la pur corretta interpretazione (Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851); il motivo veicola l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 29 ottobre 2020, n. 23927), oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.; nel caso di specie, la censura non ha ad oggetto un vizio di sussunzione della fattispecie concreta nell’art. 2087 c.c., quanto piuttosto l’accertamento di fatto della Corte territoriale di esclusione della prova, in esito allo scrutinio delle risultanze istruttorie, di esposizione al rischio alla salute dei lavoratori nell’espletamento dell’attività di autista dell’autocompattatore, congruamente argomentato, pertanto insindacabile in sede di legittimità.

22. Neppure è fondata la censura di violazione degli artt. 115, 116 c.p.c., che presuppone, come precisato da questa Corte (cfr. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), il mancato rispetto delle regole di formazione della prova ed è rinvenibile nelle ipotesi in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale; deve parimenti escludersi la violazione dell’art. 2087 c.c. non essendo dedotta né risultando rinvenibile una inversione degli oneri di prova.

23. Il quinto motivo è assorbito per effetto del rigetto dei precedenti motivi, di negazione di esposizione al rischio alla salute del lavoratore, nello svolgimento della mansione (di autista), pertanto non esigente alcun dispositivo di protezione individuale.

24. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.

25. La regolazione delle spese segue il criterio di soccombenza, con il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto in presenza dei relativi presupposti processuali (Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

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