In assenza della prova della subordinazione, il recesso dal contratto di lavoro libero professionale di un medico non costituisce “licenziamento”. Al fine di accertare la natura autonoma o subordinata dell’attività del medico libero professionista occorre verificare l’intensità dell’etero-organizzazione della prestazione.
Nota a Trib. Roma 16 febbraio 2023, R.G. n. 11007/2021
Fabrizio Girolami
Il recesso da un contratto di lavoro formalmente definito come “autonomo” non può essere qualificato come “licenziamento” (alla stregua del rapporto di lavoro subordinato) se il prestatore non fornisce la prova della natura dipendente del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 2094 del codice civile.
È quanto affermato dal Tribunale di Roma, con ordinanza del 16 febbraio 2023 sul ricorso proposto da una lavoratrice che aveva prestato servizio come medico presso il centro emodialisi di una casa di cura gestita da una società privata. La società, durante il periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19, aveva intimato il recesso, con conseguente interruzione del rapporto di lavoro. La lavoratrice, ritenendo che tale recesso fosse configurabile alla stregua di un vero e proprio “licenziamento”, aveva impugnato il recesso dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo l’accertamento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato.
La lavoratrice sosteneva che il rapporto dovesse essere qualificato quale lavoro subordinato, in quanto – anche se i relativi contratti di lavoro erano formalmente denominati (c.d. “nomen iuris”) come “contratti di lavoro libero professionali” (e, dunque, apparentemente come di “lavoro autonomo”) – aveva prestato la propria attività esclusivamente e in via continuata per diversi anni presso la casa di cura gestita dalla società sotto la direzione e in virtù delle disposizioni impartite, per il tramite del primario del centro emodialisi, da questa, e secondo turni organizzati e turni di lavoro prestabiliti. Di diverso avviso era stata la società che aveva chiesto il rigetto di tutte le domande di parte attorea.
Il giudice romano ha respinto il ricorso della lavoratrice, rappresentando quanto segue:
- come rilevato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, qualsiasi attività umana può essere espletata tanto in regime di subordinazione quanto di collaborazione autonoma, eventualmente anche nella forma della c.d. “parasubordinazione” (caratterizzata cioè da una collaborazione prevalentemente personale, coordinata e continuativa) a seconda delle modalità del suo svolgimento. Al fine di accertare la natura subordinata o autonoma di un rapporto di lavoro, il giudice deve prendere in considerazione, in primo luogo, la volontà manifestata dalle parti (avendo come riferimento il nomen iuris utilizzato dalle parti in sede di stipulazione del contratto), giungendo “a una differente qualificazione giuridica solo qualora sia dimostrato che la subordinazione (o l’autonomia) si sia di fatto realizzata nella fase dell’esecuzione contrattuale”;
- l’elemento caratterizzante del rapporto subordinato è la c.d. “etero-direzione”, ovvero l’assoggettamento del prestatore al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro (altri elementi come la collaborazione, la continuità di essa, l’assenza di rischio economico, la forma della retribuzione e l’osservanza di un orario “possono avere soltanto una portata sussidiaria e non già decisiva ai fini (…) della distinzione tra i due tipi di rapporto”);
- qualora dall’indagine operata dal giudice non emergano elementi che depongano in maniera certa per la sussistenza dell’uno o dell’altro tipo di rapporto, l’interprete “non potrà che dare prevalenza alla volontà manifestata dalle parti al momento della conclusione del contratto”;
- in relazione alla qualificazione come autonome o subordinate delle prestazioni rese da un medico addetto al centro emodialisi di una casa di cura gestita da una società privata, la sussistenza o meno della subordinazione deve essere verificata “in ordine all’intensità della etero-organizzazione della prestazione”, al fine di stabilire se gli eventuali poteri di conformazione della prestazione lavorativa esercitati dal committente/beneficiario della prestazione siano tali da “ridurre o condizionare il margine di discrezionalità del prestatore nelle modalità concrete di espletamento della prestazione”;
- nel caso di specie, non è stato provato dalla ricorrente che la società che gestiva la casa di cura abbia condizionato “in maniera così incisiva” l’espletamento delle prestazioni lavorative rese dalla lavoratrice, essendo emerso soltanto che la lavoratrice medesima doveva attenersi soltanto alle terapie indicate (a lei come a tutti gli altri medici addetti al centro di emodialisi) dal medico responsabile dello stesso, nonché alle linee guida decise insieme, conservando, per il resto, un ambito di autonomia nell’esecuzione delle prestazioni;
- pertanto, la domanda della lavoratrice inerente il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro non è accoglibile, con la conseguenza che il recesso operato dalla società dal contratto di lavoro libero professionale non può essere qualificato come licenziamento.