I proventi derivanti da un piano di performance share sono, ai fini fiscali, di norma redditi di lavoro dipendente. La presunzione legale per cui tali redditi si qualificano come redditi di natura finanziaria opera esclusivamente in riferimento ai proventi derivanti da strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati ex art. 60, D.L. n. 50/2017, e non riguarda il reddito derivante dalla assegnazione degli stessi.
Nota a AdE Risposta 13 marzo 2023, n. 249
Francesco Palladino
L’Agenzia delle entrate, con la Risposta in oggetto, ha fornito taluni chiarimenti sulla qualifica fiscale da attribuire all’assegnazione di azioni (avvenuta sulla base delle condizioni previste da un apposito piano di performance share) da parte di società al proprio amministratore delegato ed ai manager.
L’istanza di interpello atteneva, in particolare, ad un piano di performance share che subordinava l’attribuzione gratuita di azioni al verificarsi di alcune condizioni, tra cui il raggiungimento di determinati livelli di patrimonializzazione della società emittente e di rendimento del titolo ed al raggiungimento di specifici obiettivi.
Il dubbio dell’istante verteva sull’esatta qualificazione reddituale da dare ai proventi derivanti dall’assegnazione ed alla successiva cessione dei titoli da parte del percettore. Infatti, considerato il duplice ruolo rivestito dai loro titolari in seno alle società, vale a dire amministratore o manager dipendente, per effetto dell’esistenza di un rapporto di lavoro (e quindi possibili titolari di un reddito di lavoro dipendente o assimilato) e azionista, per effetto della titolarità di tali strumenti (e quindi anche possibili titolari di reddito di natura finanziaria), era in dubbio se dovesse prevalere la qualificazione dei connessi proventi come redditi di lavoro, piuttosto che come redditi (di capitale o diversi) di natura finanziaria.
Ne primo caso avrebbe prevalso il principio di omnicomprensività del reddito di lavoro dipendente di cui all’art. 51 TUIR, nel secondo caso avrebbe prevalso la disposizione di cui all’art. 60 D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (c.d. Carried Interest) secondo cui i proventi derivanti da partecipazioni, se relativi a strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati, sono “in ogni caso” ricondotti nel novero dei redditi di natura finanziaria e sono, dunque, qualificati come di capitale (se si tratta dei proventi derivanti ad esempio dall’incasso di cedole) o diversi (se si tratta dei proventi derivanti dalla loro negoziazione) e non già come redditi di lavoro dipendente.
L’Amministrazione finanziaria ha ritenuto che, nel caso di specie, le azioni ricevute dall’amministratore delegato e dai manager non costituissero il rendimento di uno strumento finanziario avente diritti patrimoniali rafforzati in quanto la loro attribuzione non rappresentava né una particolare forma di remunerazione delle azioni ordinarie detenute dai manager e dall’amministratore delegato, né una forma di rendimento legato al possesso delle medesime in quanto non riconosciuto agli altri soci detentori dei medesimi titoli. Non era, pertanto, possibile invocare la presunzione di cui all’art. 60, D.L. n. 50/2017, sicché il reddito derivante dalla assegnazione degli stessi andava ricondotto, quindi, nel novero dei redditi di lavoro dipendente la cui base imponibile è data dalla differenza tra il valore di mercato del titolo e il prezzo pagato dal dipendente.
Quanto alla successiva cessione dei titoli da parte dei percettori, l’Agenzia delle entrate ha chiarito che, siccome la qualifica di lavoratore dipendente rileva esclusivamente al momento dell’assegnazione delle azioni, a maggior ragione la fase successiva (ovverosia quella della cessione) non può ritenersi attenere in alcun modo al rapporto di lavoro subordinato intrattenuto dall’azionista con l’emittente, sicché, questa volta, le eventuali plusvalenze/minusvalenze realizzate attraverso la cessione delle azioni configurano reddito diverso di natura finanziaria ai sensi dell’art. 67, co. 1, lett. c) e c-bis), del TUIR.