La motivazione della comunicazione di licenziamento deve essere tale da consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso datoriale.
Nota a App. Roma 6 marzo 2023, n. 637
Fabrizio Girolami
In caso di trasferimento d’azienda, l’art. 2112, co. 1, c.c. prevede l’automatica continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario e la conservazione di tutti i diritti maturati dal lavoratore sino al momento della cessione. Tale duplice effetto presuppone, dal punto di vista logico e giuridico, la vigenza del rapporto di lavoro in capo al cedente al momento del trasferimento. Detta vigenza non può dirsi sussistente laddove il prestatore di lavoro sia stato parte di plurimi rapporti lavorativi con datori di lavoro diversi e succedutisi a distanza di tempo l’uno dall’altro.
Inoltre, in materia di licenziamento individuale, il datore di lavoro nella comunicazione di recesso deve solo indicare in termini essenziali le ragioni del provvedimento espulsivo, non avendo invece l’onere di esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto posti alla base della propria scelta.
Tali principi sono stati affermati dalla Corte d’Appello di Roma con la sentenza 6 marzo 2023, n. 637, in relazione alla vicenda di un lavoratore il quale – dopo aver prestato attività alle dipendenze di tre distinte società succedutesi nel tempo (il primo periodo di lavoro era stato svolto totalmente “in nero”; il secondo e il terzo periodo erano stati parzialmente “regolarizzati”) – era stato licenziato dall’ultima società per giustificato motivo oggettivo motivato da “riduzione del personale”.
La Corte – nel confermare la sentenza di primo grado – ha respinto l’appello del lavoratore, affermando quanto segue:
- dagli atti di causa emerge che il lavoratore è stato parte di tre distinti rapporti lavorativi con tre datori di lavoro diversi e succedutisi a distanza di tempo l’uno dall’altro;
- la tesi del lavoratore dell’unicità del rapporto di lavoro nell’intero arco temporale oggetto di causa che scaturirebbe dall’avvenuta cessione di azienda ex art. 2112 c.c. da una società datrice di lavoro all’altra, non è accoglibile, in quanto – come già affermato dal giudice di primo grado – nel caso di specie difetta il presupposto cardine per l’operatività dell’art. 2112 c.c., ovvero la persistenza del vincolo lavorativo di natura dipendente al momento del trasferimento d’azienda tra il datore di lavoro cedente e quello cessionario, da cui consegue che la società appellata (ultima in ordine di tempo che ha intimato il licenziamento) “risponde esclusivamente per le obbligazioni afferenti all’ultimo periodo di rapporto di lavoro, formalizzato, di cui è stata parte”;
- la domanda del lavoratore dell’inquadramento professionale corrispondente alle mansioni svolte di fatto nel corso del rapporto (V livello retributivo del C.C.N.L.) non può trovare accoglimento. Secondo la Corte, il giudizio di inquadramento professionale – in aderenza ai principi della giurisprudenza di legittimità sull’art. 2103 c.c. in tema di mansioni – richiede la “piena sussunzione delle mansioni di fatto svolte dal lavoratore nella declaratoria contrattuale di riferimento e ciò avuto riguardo alle competenze professionali, al grado dell’autonomia e al carico di responsabilità connesso all’adempimento della prestazione lavorativa, ivi previsti”. Nel caso di specie, il lavoratore non ha provato che, nell’esecuzione delle operazioni meccaniche di sua competenza, si “avvalesse di schemi, interpretandoli con propria valutazione tecnica”, come prescritto dalla declaratoria contrattuale;
- con riferimento alla richiesta declaratoria di illegittimità del licenziamento, va evidenziato che l’art. 2, L. n. 604/1966 (come da ultimo sostituito dall’art. 1, co. 37, L. n. 92/2012) dispone che “il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro” (co. 1) e che “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato” (co. 2), pena la sua inefficacia (co. 3);
- come chiarito dalla giurisprudenza “la novellazione dell’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 per opera dell’art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, si è limitata a rimuovere l’anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato, introducendo la contestualità dei motivi, ma non ha mutato la funzione della motivazione, che resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l’onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, a esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento” (così. Cass. 7 marzo 2019, n. 6678; v. anche Cass. n. 16795/2020; Cass. 5 dicembre 2020, n. 35646, annotata in q. sito da P. COTI;
- nel caso di specie, il licenziamento “risulta giustificato con una ragione oggettiva, dichiaratamente integrata dalla necessità di ridurre il personale”. Tale motivazione “secondo criteri di normalità causale, consente al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, la ragione del recesso datoriale, il che esclude che la società odierna appellata non abbia assolto all’onere datoriale stabilito al fine dalla legge”.