Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 maggio 2023, n. 11483

Lavoro, CIGS, Clausola generale di buona fede, Credito da inadempimento contrattuale, Criteri di scelta dei lavoratori da sospendere – Criteri di rotazione dei lavoratori in CIGS, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 811/2021 la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della sentenza di primo grado ha dichiarato la illegittimità della sospensione e contestuale collocazione in CIGS di V.C. nel periodo 14.7.2008/15.10.201 e condannato N. s.p.a. al pagamento di una somma pari alla differenza tra la retribuzione spettante nei suddetti periodi e il trattamento di integrazione salariale, oltre accessori;

2. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso N. s.p.a. sulla base di undici motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso;

3. entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1.c.p.c.;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo la ricorrente – denunciando nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla eccepita violazione da parte del giudice di prime cure del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., nonché la mancanza della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ex art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.- si duole che il giudice di appello non si sia pronunciato sul motivo di gravame incentrato sul rilievo che la sentenza di primo grado non aveva preso in considerazione l’onere del lavoratore di prendere posizione su ogni accordo di CIGS e sui singoli vizi degli stessi al fine di dedurre la illegittimità della CIGS in relazione alla propria posizione soggettiva ed aveva utilizzato la documentazione prodotta dal lavoratore per supplire alla carenza di allegazioni del ricorso introduttivo, come non consentito ;

2. con il secondo motivo – deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto applicabile all’azione di risarcimento del lavoratore il termine decennale di prescrizione laddove, avendo la pretesa azionata nella sostanza ad oggetto differenze retributive, doveva trovare applicazione il termine di prescrizione quinquennale in relazione al credito del lavoratore e all’azione di annullamento dell’atto di gestione del rapporto;

3. con il terzo motivo – denunciando violazione o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che la Corte territoriale abbia omesso di considerare che l’inerzia del lavoratore – tradottasi nella mancata assunzione di alcuna iniziativa volta a contestare i provvedimenti datoriali e/o a rivendicare ipotetiche differenze retributive – nei nove anni di collocazione in CIGS, aveva determinato la perdita del diritto; in particolare assume la necessità di valorizzazione massima della clausola generale di buona fede espressione delle linee più significative del sistema normativo in relazioni a indicazioni assiologiche desumibili sia dalla Costituzione che dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione; in questa prospettiva, premesso il contrasto di indirizzi maturati all’interno della giurisprudenza di legittimità e il configurarsi di una questione di massima di particolare importanza chiede ex art. 374 comma 2 c.p.c. che il Presidente del Collegio disponga la trasmissione del fascicolo al Primo Presidente affinché questo ne valuti la rimessione alle Sezioni Unite;

4. con il quarto motivo – denunciando violazione o falsa applicazione dell’art. 1219, primo comma, c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame abbia ritenuto insussistente l’obbligo, per il lavoratore, di costituire in mora il datore di lavoro, mediante una intimazione o richiesta fatta per iscritto;

5. con il quinto motivo – denunciando nullità della sentenza per motivazione apparente in ordine alle argomentazioni esposte dalla corte territoriale quanto alla illegittimità della CIGS, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice, dopo aver dato atto del passaggio in giudicato dei capi di sentenza di primo grado relativi alle richieste correlate agli accordi antecedenti a quello del 10 ottobre 2013 per mancanza di impugnativa sul punto, abbia erroneamente assimilato quest’ultimo accordo a quelli precedenti, da un lato obliterando la circostanza che l’accordo in questione prevedeva, a differenza degli altri, i criteri di scelta dell’anzianità di servizio, dei carichi di famiglia e delle esigenze tecnico organizzative e produttive ai fini dell’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS, nonché, dall’altro, omesso di valutare che il citato accordo, sempre a differenza degli altri, non prevedeva un meccanismo di rotazione; il giudice di primo grado aveva quindi errato nel dichiarare la illegittimità delle sospensioni in CIGS perché risultava omessa tout court la comunicazione sindacale e perché l’esame congiunto si era svolto senza indicazione dei concreti criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e senza indicare la modalità della rotazione; la definizione della procedura con un accordo valido ed efficace aveva effetto sanante rispetto ad eventuali vizi della comunicazione di avvio;

6. con il sesto motivo di ricorso la società denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 comma 7 della legge n. 223 del 1991 e sostiene che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto generici i criteri di scelta dei lavoratori utilizzati osservando che “le parti contrattuali si sono limitate a richiamare i criteri di scelta dei lavoratori in esubero da licenziare nella procedura di licenziamento collettivo di cui all’art. 5 della legge 223.1991”; così facendo il giudice di appello avrebbe omesso di considerare che, da un lato, la legge non prevede che in sede di accordo debbano essere indicate le concrete modalità applicative dei criteri di scelta e, dall’altro, che la genericità dei criteri deve ritenersi esclusa ove siano richiamati i parametri individuati direttamente dal legislatore (che ha evidentemente ritenuto gli stessi specifici), con la conseguenza che il richiamo a detti criteri implica, attesa l’assenza nel caso di una diversa disposizione dell’accordo, che gli stessi dovevano essere applicati in maniera concorrente (incidenza di 1/3 per ogni criterio);

7. con il settimo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. per avere la Corte di merito ritenuto di censurare la collocazione in CIGS dei lavoratori in ragione della mancata esplicazione, da parte della società, delle relative modalità applicative mentre costituiva onere del lavoratore dimostrare il mancato rispetto da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede dei lavoratori da sospendere;

8. con l’ottavo motivo di ricorso denunciando nullità della sentenza per motivazione apparente, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice, nel motivare, non abbia tenuto conto del fatto che i criteri fissati erano stati oggetto di discussione nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro e condivisi con le OO.SS. firmatarie dell’accordo, così come evidenziato nell’atto di appello, senza che detta circostanza fosse stata oggetto di contestazione ad opera della controparte;

9. con il nono motivo, denunziando nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla applicabilità alla fattispecie del disposto di cui all’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che la Corte territoriale non si sia pronunciata sulla richiesta, contenuta nell’atto di appello, di abbattimento del risarcimento anche in applicazione dell’art. 1227 c.c.;

10. con il decimo motivo – denunziando violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte sia incorsa in vizio di extrapetizione, in quanto, a fronte di una domanda del lavoratore volta all’accertamento dell’illegittimità della sospensione e contestuale sua collocazione in CIGS, avrebbe fondato la propria decisione di rigetto del motivo di gravame, incentrato sulla necessità della rideterminazione del compendio risarcitorio – essendo stata la società ammessa al trattamento di CIGS in ragione di provvedimenti amministrativi validi ed efficaci, sicché i lavoratori, comunque, ruotando sarebbero stati collocati in CIGS, ancorché per un minor periodo rispetto al sofferto -, sulla base di una richiesta, mai formulata, di “disapplicazione incidenter tantum del provvedimento amministrativo concessorio della CIGS”;

11. con l’undicesimo motivo – denunciando nullità della sentenza per motivazione apparente nella parte in cui la Corte territoriale ha delibato in ordine ai motivi fondanti la richiesta della società di riduzione del compendio risarcitorio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame abbia rigettato la richiesta di divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti con motivazione apparente, ossia sul presupposto della “violazione delle disposizioni sulla indicazione e sulla comunicazione alle organizzazioni sindacali di adeguati criteri di scelta del personale da sospendere e di meccanismi di rotazione della sospensione”, attesa, per converso, la legittimità dei criteri determinati in sede di accordo sottoscritto in data 10 ottobre 2013 fra società OO.SS. e la previsione di non dar corso alla rotazione;

12. il ricorso non è fondato ritenendo il Collegio di dovere dare seguito ai precedenti di questa Corte (per tutti, Cass. n. 33343/2022; Cass. n. 28421/2022; Cass. n. 31927/2022; Cass. n. 33000/2022), che si richiamano anche ai sensi dell’art. 118 disp att. c.p.c., resi in relazione alla medesima vicenda relativa alla illegittimità dei provvedimenti di collocazione in CIGS da parte della N. spa;

13. orbene, il primo motivo è da disattendere, poiché, quanto al dedotto vizio di omessa pronunzia, vale il principio che esso non è configurabile su questioni processuali (cfr., tra le altre, Cass. 25/01/2018, n. 1876); il vizio di ultrapetizione è configurabile solo con riguardo alla ipotesi in cui il Giudice attribuisca o neghi, ad alcuno dei contendenti, un bene diverso da quello richiesto e non compreso, neppure virtualmente, nella originaria domanda (Cass. n. 22753/2019). Nel caso in esame, peraltro, la Corte di merito ha esaminato il materiale probatorio allegato comprensivo di tutti i documenti e verbali in discussione, traendo da essi il proprio convincimento decisorio;

14. il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui è introdotta la questione dell’avvenuta prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento dell’atto di gestione del rapporto, non risultando dal ricorso per cassazione (né dalla sentenza impugnata) che la questione predetta sia stata fatta oggetto di gravame in appello; per il resto, è da disattendere in quanto, per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in CIGS ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale (così, tra le altre, Cass. 13/12/2010, n. 25139; v., da ultimo, Cass. 20/04/2021, n. 10376, in motivazione);

15. il terzo motivo deve essere respinto alla luce dell’orientamento nettamente prevalente di questa Corte secondo il quale la mera inerzia non è sufficiente a determinare la perdita del diritto in capo al creditore, occorrendo un “quid pluris” che valga ad esprimere una chiara e certa volontà abdicativa (cfr., sul punto, Cass. 21/09/2011, n. 19235: «In materia di cassa integrazione guadagni straordinaria, la mancata iniziativa del lavoratore diretta a sollecitare l’attuazione della clausola di rotazione non preclude il diritto del medesimo di far valere la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento di detta clausola (non riconducibile alla figura del contratto a favore di terzo), poiché la mera inerzia ad esercitare un proprio diritto non prova di per sé una volontà abdicativa, dovendo ogni rinuncia essere espressa o ricavarsi da condotte univoche. Né può ritenersi che la non immediata proposizione dell’azione risarcitoria integri una concausa del verificarsi del fatto generatore del danno e, quindi, giustifichi una riduzione del risarcimento a norma dell’art. 1227 c.c.»; v., altresì, di recente, Cass. 5/02/2018, n. 2739: «La rinuncia ad un diritto oltre che espressa può anche essere tacita; in tale ultimo caso può desumersi soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa; al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni»; in senso analogo v. Cass. 13/02/2020, n. 3657: «La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto»); alla luce dei richiamati arresti non si ravvisano i presupposti per disporre la richiesta la trasmissione del fascicolo al Primo Presidente affinché questo ne valuti la rimessione alle Sezioni Unite;

16. il quarto motivo è inammissibile, non risultando dal ricorso per cassazione che la questione sia stata fatta oggetto di gravame, né l’effettuato esame della stessa emerge dalla sentenza impugnata, nella quale è affrontato il solo tema della mancata offerta della prestazione lavorativa, mediante il corretto richiamo, fra le altre, a Cass. 4/05/2009, n. 10236 (ove è affermato che «In caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale, ove il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa sia illegittimo, è questo stesso atto negoziale unilaterale, con il rifiuto di accettare la prestazione lavorativa, a determinare la “mora credendi” del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore non è tenuto ad offrire la propria prestazione ed il datore medesimo è tenuto a sopportare il rischio dell’estinzione dell’obbligo di esecuzione della prestazione»);

17. il quinto motivo è da rigettare, poiché la sentenza impugnata esplicita chiaramente le ragioni della ritenuta genericità dei criteri di scelta (cfr., tra l’altro, il seguente passo della motivazione, non riportata nel motivo: «Nella specie, gli accordi fanno riferimento a esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (…) il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (…). In definitiva, la N. ha autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione»);

18. il sesto motivo è da rigettare, già sol perché la genericità dei criteri si riverbera, inevitabilmente, in chiave negativa, sugli adempimenti prescritti dall’art. 1, comma 7, della I. n. 223 del 1991 (sicché la deduzione della predetta genericità è idonea ad identificare il “petitum” coerente con la previsione normativa);

19. il settimo motivo è inammissibile perché, riproponendo in parte le censure già contenute nel primo motivo (e sopra disattese), di nuovo non si misura con la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, imperniata non sul mancato rispetto di criteri di scelta, e dunque sulla prova della loro errata applicazione, bensì sulla previsione di criteri generici e, quindi, illegittimamente adottati. La censura si appalesa inadeguata rispetto al decisum;

20. l’ottavo motivo è inammissibile, poiché con esso – a fronte di una motivazione che soddisfa (tenuto conto dei passaggi sopra riportati) i requisiti minimi di cui all’art. 132 c.p.c. – si mira ad introdurre impropriamente il vizio di omesso esame di una circostanza (“id. est”: discussione dei criteri nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro) non decisiva, essendo la sentenza incentrata sull’assoluta genericità dei criteri (per come sopra visto);

21. il nono motivo è inammissibile trattandosi di questione affrontata dalla corte territoriale dovendosi escludere la configurabilità di un concorso colposo del lavoratore nella mera inerzia ad esercitare un proprio diritto, secondo quanto già ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., sul punto, Cass. n. 19235 del 2011, sopra citata nonché Cass. 31922 del 2022);

22. il decimo ed undicesimo motivo, trattati congiuntamente per connessione sono da rigettare, poiché sulla questione della divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti (sulla cui base il lavoratore comunque sarebbe stato assoggettato ad un periodo di CIGS) il giudice del gravame ha reso effettiva motivazione citando un precedente di questa Corte (Cass. 29/09/2011, n. 19618, ove si legge che «In materia di cassa integrazione guadagni straordinaria, l’illegittimità del provvedimento concessorio dell’intervento di integrazione salariale in ragione della mancata indicazione e comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di scelta dei lavoratori da sospendere – di rotazione ovvero, ove tale meccanismo non sia stato adottato per ragioni di ordine tecnico e organizzativo ritenute meritevoli di accoglimento, dei criteri alternativi determinati ai sensi dell’art. 1, comma 8, legge n. 223 del 1991 – comporta l’illegittimità della sospensione operata dal datore di lavoro dei lavoratori stessi, i quali, vantando una posizione di diritto soggettivo, possono chiedere al giudice ordinario l’accertamento, previa disapplicazione “incidenter tantum” del provvedimento amministrativo di concessione della c.i.g.s., dell’inadempimento del datore di lavoro in ordine all’obbligazione retributiva alla stregua dell’ordinario regime previsto dall’art. 1218 c.c., essendo venuta meno, quale ragione d’esonero dalle conseguenze dell’inadempimento, l’elevazione al livello dell’impossibilità della prestazione delle situazioni di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione industriale» e Cass. n. 12089 del 2016) ed aggiungendo che «la N. non ha neanche provato che ricorrevano tutti i presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte ricorrente e per quanto tempo»; la motivazione, sul punto, non si rivela apparente, in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione, sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell’ipotetico abbattimento del risarcimento derivante dall’applicazione di un periodo minore di cassa integrazione; senza contare che la stessa censura – imperniata sul rilievo che la questione non necessitava di alcuna prova “trattandosi di conseguenze automatiche di fatti pacifici” – è mal posta, poiché, da un lato, essa denunzia, nella sostanza, una errata applicazione del principio dell’onere della prova in materia, e, dall’altro (ciò che più conta), non illustra in maniera intelligibile, da un lato, in qual modo il ricorrente avrebbe potuto essere comunque collocato legittimamente in CIGS a fronte della accertata genericità dei criteri, e, dall’altro, come avrebbe potuto calcolarsi in concreto l’ipotetico (e non plausibile, per quanto appena detto) abbattimento della posta risarcitoria;

in base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto e le spese di lite liquidate secondo soccombenza; sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’ art.13 d. P.R. n. 115/2002 (Cass. Sez. Un. n. 23535 del 2019);

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 maggio 2023, n. 11483
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