Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 maggio 2023, n. 13475

Lavoro,  Provvigioni per l’attività di subagente, Sussistenza del rapporto di sub-agenzia, Vizio attinente all’omesso esame di un fatto storico, Principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, Inammissibilità

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 332/2015, il Tribunale di Caltanisetta accoglieva l’opposizione proposta da T.C. al decreto del medesimo Tribunale, che gli aveva ingiunto il pagamento della somma di € 18.634,01, oltre interessi, rivalutazione e spese, su richiesta di P.C., il quale aveva assunto la debenza di detta somma a titolo di provvigioni per l’attività di subagente dai lui svolta in favore del T. nelle stagioni P/E anno 2013 e A/I anni 2012-2013;

annullava il decreto ingiuntivo opposto e condannava il P. al pagamento delle spese del primo grado.

2. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Caltanisetta, nella contumacia dell’appellato T., previa assunzione della prova testimoniale chiesta dal P. in primo grado, ma non espletata, in riforma della sentenza del Tribunale, rigettava l’opposizione proposta dal T. al decreto ingiuntivo e, per l’effetto, confermava tale decreto, condannando il T. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, come liquidate per ogni grado, e in distrazione.

3. Per quanto qui ancora interessa, la Corte territoriale accoglieva il primo motivo di gravame, con il quale il P. aveva denunciato difetto di motivazione, in riferimento alla mancata ammissione dei mezzi istruttori da lui richiesti, e violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c., e dava corso alla prova testimoniale richiesta già in primo grado dall’appellante. Riteneva, quindi, che, a seguito della compiuta istruttoria, che aveva fornito riscontri pienamente compatibili anche con le prove documentali già offerte dall’opposto, doveva ritenersi pienamente provata l’esistenza tra le parti in lite del rapporto di subagenzia posto a fondamento delle istanze monitorie. Considerava, altresì, fondato il secondo motivo d’appello, a mezzo del quale il P. denunciava violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., con riferimento alla statuizione con la quale il primo giudice aveva ritenuto discutibile la possibilità di qualificare i documenti prodotti come fatture aventi valore ai fini fiscali, aggiungendo che le fatture, ai sensi dell’art. 2709 c.c., possono spiegare efficacia probatoria contro l’imprenditore che le emette e non a favore delle stesso, trattandosi di questione mai proposta nelle proprie difese dall’opponente, né dalla stessa mai sollevata in via di eccezione di merito in senso stretto.

4. Avverso tale sentenza T.C. proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

5. Ha resistito P. Pietro con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 1742, comma 2, in combinato disposto con gli artt. 2725 e 2724, n. 3, c.c.), ex art. 360, n. 3, c.p.c.”.

Si duole, in sintesi, del fatto che la Corte territoriale, nell’accogliere il primo motivo d’appello della controparte, in violazione delle suddette norme, aveva poi ammesso la prova per testi, come formulata nella propria memoria difensiva dall’opposto, tendente a dimostrare proprio la sussistenza del rapporto di sub-agenzia da quello dedotto, in un caso in cui, secondo, il ricorrente “tracce scritte” di tale rapporto erano del tutto insussistenti.

2. Con un secondo motivo deduce “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, n. 5, c.p.c.”

3. Con un terzo motivo denuncia la “Nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360, n. 4, c.p.c. e/o violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 350 e 158 c.p.c.), ex art. 360, n. 3, c.p.c.”.

4. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

4.1. Ivi il ricorrente invoca anzitutto il principio di diritto secondo cui non è censurabile in sede di legittimità il giudizio, anche implicito, espresso dal giudice di merito in ordine alla superfluità, alla inconcludenza ed alla inammissibilità della prova testimoniale dedotta da una parte, specie quando lo stesso giudice, al quale spetta, appunto, di individuare le fonti del proprio convincimento, ed, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, abbia, con ragionamento logico e giuridicamente corretto, ritenuto di avere già raggiunto, in base alla documentazione in atti, sulla scorta delle eccezioni e delle prove fornite dalla controparte oltre che della istruzione probatoria già esperita, la certezza degli elementi necessari per la decisione.

Tale principio, infatti, peraltro valevole per il ricorso per cassazione, non ha nulla a che vedere con le norme di cui nella rubrica del motivo in esame il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione. E comunque la sua deduzione non tiene conto che la Corte d’appello, che è giudice di merito, nell’accogliere il primo motivo di gravame del P., aveva ritenuto che il Tribunale non poteva “rigettare le domande proposte dal P. per difetto di prova, senza neanche motivare in ordine alle ragioni che rendevano le relative richieste istruttorie, tempestivamente avanzate, irrilevanti o comunque non ammissibili”, e che aveva parimenti disatteso “senza motivazione alcuna” la richiesta “di ordinare alla ditta T. l’esibizione degli originali delle stesse lettere – prodotte solo in copia dal P. – che recavano invece, secondo quando dedotto da quest’ultimo, anche la sottoscrizione della controparte”.

4.2. Ma la prima censura è inammissibile anche per tutta e la più rilevante parte in cui vi si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 1742, comma secondo, c.c. in relazione agli artt. 2725 e 2724 n. 3 c.c.

Appare dirimente, infatti, considerare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno insegnato che l’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l’eccezione di inammissibilità, la prova sia stata ugualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione (così Cass. civ., sez. un., 5.8.2020, n. 16723).

Tale principio di diritto è stato affermato in termini generali dalle Sezioni Unite, e vale perciò anche per il caso di specie nel quale, secondo il ricorrente, troverebbe applicazione l’art. 1742, comma secondo, primo periodo, c.c., che, rispetto al contratto di agenzia, recita: “Il contratto deve essere provato per iscritto”.

4.3. Nella fattispecie in esame viene in considerazione una prova per testi pacificamente richiesta tempestivamente in prime cure dall’opposto, ma non ammessa dal Tribunale, ed ammessa ed assunta, invece, dalla Corte territoriale, nella contumacia dell’allora appellato T..

Quest’ultimo, pertanto, non può far valere per la prima volta in sede di legittimità la violazione delle norme di cui al combinato disposto di cui agli artt. 2725, comma primo, e 2724 n. 3) c.c., per giunta senza aver esplicitamente dedotto neanche in questa sede la nullità della prova testimoniale ammessa ed assunta in secondo grado.

5. Parimenti inammissibile è il secondo motivo.

5.1. Sempre le Sezioni Unite di questa Corte hanno insegnato che l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ammette la denuncia innanzi alla S.C. di un vizio attinente all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza provenga dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, con la necessaria conseguenza che è onere del ricorrente, ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6) e 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., indicare il fatto storico, il dato da cui esso risulti esistente, il come ed il quando esso abbia formato oggetto di discussione tra le parti e la sua decisività (così Cass. civ., sez. un., 30.7.2021, n. 21973).

5.2. Ebbene, pur essendo il secondo motivo di ricorso formulato esclusivamente con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., l’impugnante nello svolgimento di tale censura non ha dedotto nulla di quanto richiesto ai fini di un’ammissibile impugnazione per cassazione ai sensi di tale previsione.

Piuttosto, lo stesso lamenta che la Corte distrettuale, “dopo avere affermato – sulla base della sola prova testimoniale (inammissibilmente) assunta in secondo grado – la sussistenza tra le parti del rapporto di sub-agenzia, ha semplicisticamente riconosciuto la “compatibilità” tra tale circostanza e quanto originariamente richiesto dal P. in sede monitoria circa il quantum debeatur, senza dare contezza di come egli abbia superato, dal punto di vista probatorio, non solo il fatto che le lettere di incarico non fossero minimamente sottoscritte da parte del Sig. T. e, quindi, non potessero essere le stesse direttamente imputabili a quest’ultimo e di come, inoltre, abbia superato il limite disposto dall’art. 2709 c.c. circa la valenza probatoria avere efficacia probatoria solo contro l’imprenditore che assume di averle emesse (P.) e non a favore dello stesso”. Si duole, altresì, che la sentenza impugnata “nulla dice in ordine alla regolarità fiscale delle predette fatture”.

E’ di tutta evidenza, perciò, che il ricorrente in realtà critica nel merito l’accertamento probatorio compiuto dalla Corte di merito, il che non è deducibile con il mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c. e comunque non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.

6. È infine inammissibile anche il terzo motivo.

6.1. Dall’esposizione dello stesso si trae che la dedotta nullità per violazione degli artt. 350 e 158 c.p.c. deriverebbe dal dato che il Collegio d’appello avrebbe delegato per l’escussione di un teste un consigliere componente dello stesso Collegio, ma che il ricorrente si duole anche del fatto che la Corte territoriale avrebbe sostituito un teste ammesso con altro teste, in una situazione nella quale, a suo dire, tale sostituzione non sarebbe stata consentita.

6.2. Premesso che dal testo dell’impugnata sentenza non emerge nulla di quanto dedotto dal ricorrente (cfr. in particolare quarta e quinta facciata della stessa), sia circa la delega cui si riferisce il ricorrente che in ordine alla sostituzione di un teste, il motivo difetta di autosufficienza e comunque di specificità.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno sì precisato che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – quale corollario del requisito di specificità dei motivi – anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 – non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito (così Cass. civ., sez. un., 18.3.2022, n. 8950).

Nel caso di specie, però, non solo il ricorrente non ha prodotto in questa sede gli atti processuali sui quali si fonda la censura (fatta eccezione per un avviso ex art. 140 c.p.c., notificato il 12.2.2019, relativo alla citazione della teste T. M.), ma non ha trascritto almeno i passaggi essenziali, né ha riassunto il contenuto, di diversi di tali atti (cfr. Cass. civ., sez. I, 19.4.2022, n. 12481).

Più nello specifico, l’impugnante assume che la Corte d’appello, “su richiesta di parte appellante, ha ritenuto di dovere istruire la controversia … ai sensi dell’art. 437, comma 2, c.p.c., attraverso l’ammissione, con Ordinanza del 26.09.2018, di un testimone nella persona della Sig.ra T. M., “delegando” per la sua successiva escussione il “Consigliere M.S.” per l’udienza inizialmente fissata per il 06.12.2018”; tuttavia, pur dolendosi di tale “delega”, non solo non riferisce più puntualmente il contenuto di tale ordinanza, ma nel seguito delle sue deduzioni, in modo peraltro contraddittorio, attribuisce costantemente alla Corte d’appello (e non al consigliere asseritamente delegato) i successivi provvedimenti ordinatori adottati, compresa l’escussione della teste diversa da quella ammessa (cfr. pagg. 10, 12-13 del ricorso). Assume, infatti, che, su richiesta dell’appellante all’udienza del 13.2.2019, “La Corte ha autorizzato la predetta sostituzione del teste a suo tempo ammesso con la teste presente in aula che, quindi, nella stessa udienza, è stata immediatamente escussa sulle circostanze di fatto indicate nell’atto di appello” (cfr. pag. 10).

Omette del tutto di riferire, però, il ricorrente la motivazione di quel provvedimento di autorizzazione alla sostituzione di teste, pur riconoscendo che in taluni casi tale sostituzione sarebbe consentita (cfr. inizio di pag. 12 del ricorso), e senza specificare quale norma sarebbe stata violata nella specie dalla Corte territoriale e la nullità che ne sarebbe derivata. Peraltro, il ricorrente riconosce che la teste alla fine ascoltata era stata comunque indicata dall’appellante nell’atto di gravame.

7. Il ricorso deve dunque essere dichiarato complessivamente inammissibile. Il ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 maggio 2023, n. 13475
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