Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 maggio 2023, n. 12132
Lavoro, Illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Obbligo di repêchage, Onere della prova, Codatorialità, Ricollocabilità del lavoratore, Riduzione di personale, Riorganizzazione aziendale, Inammissibilità
Fatti di causa
1. F.G. chiese al Tribunale di Busto Arsizio che si accertasse e dichiarasse l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 3 maggio 2011 da I.S. s.p.a. per giustificato motivo oggettivo, con conseguente condanna reintegratoria e risarcitoria, previo accertamento dell’imputabilità del rapporto di lavoro alla capogruppo I.S.H. s.p.a..
2. Il Tribunale di Busto Arsizio rigettò la domanda e la Corte di appello di Milano, in esito all’istruttoria orale, confermò la sentenza.
3. A seguito di ricorso per cassazione proposto da F.G. la sentenza della Corte di appello di Milano venne cassata con rinvio alla stessa Corte, in diversa composizione. La Corte di Cassazione ritenne che il giudice di appello fosse incorso nella violazione e falsa applicazione degli artt. 5 della legge n. 604 del 1966, 1375 e 2697 c.c. in relazione alla denunciata inosservanza dell’obbligo di repêchage. Rammentò che il datore di lavoro, che aveva addotto a fondamento del licenziamento l’avvenuta soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, aveva l’onere di provare che al momento del licenziamento non v’era alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo. Inoltre, ritenne che sarebbe stato necessario dimostrare che per un congruo periodo di tempo successivo al recesso non era stata effettuata alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato. Il giudice di legittimità sottolineò che era irrilevante poi accertare l’esistenza di una codatorialità evidenziando che la stessa avrebbe potuto rilevare come mero elemento indiziario da apprezzare nell’ambito di una valutazione globale (insieme con la conoscenza datoriale, al momento del licenziamento, di posizioni lavorative comportanti mansioni equivalenti e con le assunzioni avvenute in epoca immediatamente successiva proprio a loro copertura) della corretta applicazione del principio di buona fede nell’assoluzione dell’obbligo datoriale di repêchage.
4. F.G. ha riassunto il giudizio davanti alla Corte di appello di Milano, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento ed ha ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro condannando la I.S. s.p.a a risarcire il danno in misura pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento al 31.12.2015, detratto l’aliunde perceptum documentato, oltre che al pagamento delle spese dell’intero processo. Il giudice del rinvio ha invece respinto le domande avanzate dal G. nei confronti della I.S.H. s.p.a. con la quale ha interamente compensato le spese di tutti i gradi di giudizio.
5. Per quanto ancora interessa la Corte del rinvio ha accertato che al momento dell’intimazione del licenziamento del G. due dipendenti che svolgevano mansioni analoghe avevano rassegnato le dimissioni con un termine di preavviso destinato a scadere in un arco temporale brevissimo dall’intimazione del licenziamento e con necessità di provvedere alla loro sostituzione. Conseguentemente ha ritenuto che un comportamento secondo correttezza e buona fede avrebbe dovuto tenere conto di tali circostanze nel valutare la ricollocabilità del lavoratore. Ha ritenuto che la circostanza che i sostituti dei due dipendenti dimissionari siano stati assunti nei mesi di luglio ed agosto 2011 da un’altra società, la D.S. s.p.a. che prima si avvaleva della collaborazione delle due figure professionali in base ad un contratto di service, seppure non fraudolenta, era comunque divenuta nota alla datrice I.S. s.p.a. solo alla fine di giugno del 2011 e dunque non era giustificabile in tale contesto la scelta della società di licenziare il G..
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la I.S. s.p.a. affidato a due motivi. F.G. ha resistito con tempestivo controricorso. I.S. s.p.a. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
7. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 2697 c.c., 1175 e 1375 c.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.
7.1. Ad avviso della ricorrente, sebbene vi fossero due dipendenti dimissionari che stavano lavorando per completare il periodo di preavviso, tuttavia, la società stava procedendo ad una complessiva riduzione di personale per far fronte alle continue perdite di fatturato e non aveva intenzione di procedere a nuove assunzioni per coprire quelle posizioni.
7.2. La Corte del rinvio avrebbe trascurato quindi di considerare che il licenziamento si inseriva in un complesso procedimento di riorganizzazione aziendale che aveva comportato la soppressione delle funzioni intermedie e di collegamento e la risoluzione dei rapporti con tutti i dipendenti titolari delle posizioni di gestione e coordinamento delle vendite. Tra queste vi erano le posizioni dei due dipendenti che si erano spontaneamente dimessi, così riducendo il numero dei licenziamenti da irrogare, sicché non erano risultati liberati posti da ricoprire nuovamente.
7.3. Deduce che tali circostanze erano del tutto pacifiche in causa e che inoltre la scelta della società D.S. di dotarsi di una autonoma rete di vendita, assumendo i due lavoratori dimessisi, era legata alla insoddisfazione della gestione del ramo da parte della I.S. ed all’esistenza di contrasti sulle scelte organizzative da operare.
8. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata l’erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.c. oltre che, ancora una volta, per violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.
8.1. Ad avviso della società ricorrente non era dubbia la genuinità delle assunzioni dei due lavoratori dimessisi effettuate da parte della società D.S.. Nessuna prova infatti era stata offerta del suo carattere simulato o in frode alla legge ed inoltre la Corte di merito aveva trascurato di tenere conto delle risultanze istruttorie dalle quali era emersa sia la genuinità delle assunzioni che l’avvenuta risoluzione anche di altri rapporti di lavoro. Deduce che il malcontento della società D.S. e la volontà di dotarsi di una propria rete di vendita, dalla quale sarebbe poi derivata l’assunzione dei due dipendenti dimessisi, sarebbe stata nota essendo le due società parti del medesimo gruppo.
9. Il ricorso non può essere accolto.
9.1. Entrambe le censure, infatti, pur veicolate come vizi di violazione di legge, si risolvono in un diverso apprezzamento dei fatti allegati in giudizio e delle prove acquisite nel processo.
9.2. Al giudice del rinvio era stato demandato dalla Corte di Cassazione di accertare se la società era incorsa o meno nella violazione dell’obbligo di verificare l’esistenza in azienda di posizioni lavorative dove il lavoratore licenziato avrebbe potuto essere utilmente ricollocato. A tal fine era stato chiarito che era il datore di lavoro a dover provare che al momento del licenziamento non v’era alcuna posizione di lavoro, analoga a quella soppressa, dove adibirlo anche per lo svolgimento di mansioni equivalenti e tenendo conto della professionalità acquisita dal lavoratore. Era stato poi demandato alla Corte del rinvio di accertare che la datrice di lavoro, che ne era onerata, per un congruo periodo di tempo successivo al recesso non aveva effettuato alcuna nuova assunzione in qualifiche analoghe a quella rivestita dal lavoratore licenziato. Inoltre, il giudice di legittimità aveva precisato che una eventuale codatorialità avrebbe potuto rilevare solo come elemento indiziario da apprezzare nell’ambito di una valutazione globale di tutti gli altri elementi per verificare la corrispondenza della condotta ad un comportamento improntato a buona fede e correttezza.
9.3. Fatta questa premessa rileva il Collegio che la Corte territoriale non è incorsa in alcuna violazione delle norme indicate.
9.4. Va qui ribadito che la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni. Per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., poi, occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (cfr. Cass. 23/10/2018 n. 26769 e anche con specifico riferimento all’art. 2697 v. Cass. n. 13395 del 2018 e n. 15107 del 2013). In sostanza la violazione dell’art. 115 c.p.c. non può riguardare l’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo il caso in cui il giudice nello scegliere e valutare gli elementi probatori abbia omesso di prendere in considerazione risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività senza motivare in concreto le ragioni della irrilevanza ovvero abbia posto alla base della decisione fatti erroneamente ritenuti notori o appartenenti alla sua scienza personale (cfr. Cass. 28/02/2018 n. 4699 e 11/10/2016 n.20382 e recentemente Cass. 26/10/2021 n. 30173).
9.5. Non v’è dubbio poi che la condotta datoriale debba essere improntata a buona fede e correttezza nel verificare in concreto l’esistenza nella sua organizzazione di posizioni disponibili cui adibire il lavoratore il cui posto sia stato soppresso.
9.6. La sentenza della Corte del rinvio si è attenuta ai principi sopra esposti accertando in fatto che contestualmente al licenziamento del G. – responsabile della commercializzazione dei vini prodotti dalla D.S. s.p.a. nell’area territoriale Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta – intimato il 3 maggio 2011, due lavoratori con qualifica di area manager di I.S. s.p.a. si erano dimessi e stavano ultimando il periodo di preavviso che sarebbe terminato il successivo 31 maggio 2011. Ha ritenuto quindi provato che in un arco temporale assai breve si sarebbero rese disponibili delle posizioni analoghe a quella già occupata dal G. e soppressa. Ha inoltre accertato che al momento del licenziamento non poteva essere nota alla datrice di lavoro la scelta imprenditoriale della società D.S. di procedere all’assunzione dei dimissionari invece di continuare ad avvalersi del contratto di service in essere con la I.S. s.p.a.. La Corte territoriale ha infatti accertato che tale decisione venne comunicata alla I. solo il successivo 20 giugno 2011 e solo oggi si deduce che la creazione di una nuova ed autonoma rete di vendita da parte della Società D.S. era nota e che per l’effetto le posizioni lavorative ricoperte dai due area manager dimissionari erano oggetto del progetto di riorganizzazione in corso presso la I.S. s.p.a.
Si tratta di circostanze di fatto diverse rispetto a quelle allegate nel corso del giudizio dalla società che, come risulta dalla sentenza oggi impugnata, si è dall’origine difesa affermando che al momento del licenziamento le posizioni lavorative erano ancora coperte. Né l’odierna ricorrente chiarisce come dove e quando tali puntuali allegazioni erano state introdotte nel giudizio. Alla loro novità consegue l’inammissibilità delle deduzioni.
9.7. Va poi sottolineato che, nel contesto fattuale delineato, è corretta la decisione della Corte di merito che ha ritenuto che il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso. Quando, come nel caso in esame, tale circostanza sia ben nota al datore di lavoro questi ne deve tenere conto diversamente risultando il suo comportamento pur formalisticamente corretto in contrasto con i principi di correttezza e buona fede.
10. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso, che mira ad una diversa ricostruzione dei fatti già presi in esame dalla Corte e pretende di introdurne di nuovi, deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che si liquidano in € 6.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.