Seconda parte: il “lato oscuro” 

 

Fabrizio Giorgilli*

Nota. Questo contributo, suddiviso in due parti, prosegue la riflessione iniziata con un intervento precedente pubblicato il 7 settembre 2021 con il titolo “Per una diversa concezione della Riforma delle PPAA”.

“Come ogni altro sistema, il potere può andare male” (Like any other system, power can go wrong).

Boulding K. E., 1990

 

  1. Ricostruzione dell’idea di potere: le forme maligne della leadership in ambito pubblico[1]

Nelle organizzazioni delle Pubbliche Amministrazioni e del lavoro sociale si ha da sempre un ancoraggio forte sul tema del comportamento etico declinato nel potere e nelle sue forme leaderistiche. Questo ancoraggio è rappresentato dall’articolo 54 della Costituzione Italiana. Un articolo di psicologia del comportamento che descrive, con il linguaggio del tempo, l’essenzialità del rapporto con l’uso dei poteri. Ci fermeremo però qui nell’analisi di questa norma unica nel panorama occidentale delle culture costituzionalistiche, rimandando ad un lavoro precedente già citato[2] nel quale si è proposta un’interpretazione in termini di comportamento etico organizzativo. In questo contributo è però importante ricordare il riferimento ispirativo principale al quale ogni operatore dei poteri pubblici deve far riferimento.

Detto ciò, sappiamo già che il concetto di leadership è strettamente intrecciato a quello di potere visto in precedenza.

Sappiamo anche da tempo che lo studio della leadership deve confrontarsi con situazioni organizzative, gruppali e socio-culturali molto diverse tra loro, che “sfidano ogni tentativo di teoria generale”.  Sin dalle ricerche sul “cervello sociale” (insieme delle capacità cognitive degli individui, che permettono il riconoscimento empatico e la formazione conseguente gruppale), la leadership è stata sempre considerata uno dei fenomeni sociali più osservato e meno compreso, ma sicuramente connesso alla motivazione, alla personalità, all’esperienza, al dominio.

L’etimologia ci conduce al verbo inglese “to lead” ed a quello latino “ducere”, ambedue riferibili alla capacità di guidare altri. Una capacità generalmente osservata sul piano meramente individuale (personalità peculiare, ascendente personale, potere personale) e con una debole attenzione ai followers (coloro che seguono), ossia al contesto relazionale e dei poteri agiti.

In ogni caso, pur nella assenza di un accordo tra le diverse visioni disciplinari circa la definizione della leadership, questa si può per alcuni accettabilmente definire come una relazione sociale espressa in setting decisionali riferibili a principi od a comportamenti.

Dunque, stiamo parlando della capacità di determinare un comportamento di gruppo influenzandone (influenza come essenza della leadership) il sistema di relazioni anche attraverso l’“uso creativo” dei poteri riferiti ad una funzione, collocando poi tale uso in un punto di equilibrio tra fiducia nelle proprie doti di giudizio (responsabile verso a se stesso) e dovere di risposta rispetto al gruppo/organizzazione (responsabilità). E’ qui la prima possibile distinzione con il concetto generale di potere: la leadership richiede una certa congruenza tra gli obiettivi del leader e coloro che vengono guidati. E questo ci introduce immediatamente anche ad uno possibile seconda differenza: la leadership guarda fondamentalmente “in basso”, mentre il potere include l’attenzione a tutte le direzionalità dei fattori influenzanti.

Sempre seguendo il criterio ispiratore del potere, possiamo osservare come da sempre la psicologia sociale si sia interessata alla motivazione che spinge l’individuo alla conquista del potere ed alle figure specifiche ad esso connesse nelle diverse organizzazioni. In esse, il potere appare intrinsecamente legato alla motivazione a salire più in alto possibile nella gerarchia o a fare di più e meglio degli altri per conquistare e mantenere una posizione di leadership. Il potere è un luogo privilegiato in cui l’identità personale si afferma. Il comportamento del leader, alcuni affermano, andrebbe letto attraverso il suo modo di concepirsi e di porsi, il suo essere in sé ed il suo essere con gli altri. Aristotelicamente possiamo dire che la carica rivela l’uomo (“Etica Nicomachea”): la natura relazionale del potere ha questa capacità di svelamento dell’identità, considerando che normalmente il potere è esercitato con tutto sè stesso. Ed ecco allora l’occasione per individuare anche una terza differenza tra potere e leadership: è solo nella ricerca su quest’ultima che enfatizza il tema degli “stili comportamentali”.

Mantiene in ogni caso il collegamento con il potere l’idea di essenza della leadership intravista attraverso la sua presunta capacità di sconfiggere la discrasia tra pensiero ed azione (“avrei potuto fare, ma…”). Il suo potere risiederebbe allora nell’intelligenza agita: si può avere autorità e non essere un leader (il cd. hidden leader, leader occulto). Il leader dovrebbe saper riconoscere l’occasione per governare il fato/fortuna. La leadership, suscitata dalle circostanze, è l’incarnazione di idee che si trasformano in azione.

E’ così essenziale analizzare le relazioni leader-altri, facendoci ispirare da un’affermazione di Bonhoeffer, per il quale ‘Le quantità si contendono lo spazio, le qualità si completano a vicenda’ (in “Resistenza e resa”), dove ‘contendere’ è relazione in concorrenza e ‘completare’ è relazione in collaborazione. Così, in particolare, il potere nei piccoli gruppi è studiato a partire dalla leadership: Lewin; Rogers; la psicoanalisi, attraverso il tema dell’inconscio gruppale che recupera il vissuto infantile di dipendenza. La dimensione gruppale ci aiuta a capire che il potere non è una realtà estrinseca alla persona ma solo un modo di essere di questa nei riguardi della realtà: non è il potere a cambiare le persone: esso ci fa esprimere meglio quanto siamo di fatto.

Tutto ciò anche considerando che molti hanno evidenziato la “natura ambigua del leader”: è il capo, incarnazione fisica del potere e, nello stesso tempo, sua emanazione (il potere come suo attributo); ma anche rappresentante designato, semplice facente-funzione in riferimento ad altro attore. Una natura alimentata anche da la sua ulteriore dimensione “immaginaria”, ossia su di una fede nelle capacità e possibilità di alcuni, alimentandone così la centralità (ed offuscando il pensiero critico o realista)

Se ci si sofferma sul punto di vista antropologico, la prima qualità da attribuire la leader è quella di rappresentanza di un’Istituzione, mediazione che coinvolge le dimensioni emotiva, cognitiva e fisica servendosi principalmente del linguaggio simbolico.

L’identità personale in riferimento alle Istituzioni, andrebbe sottoposta ad una misura, nel senso classico di “metron” (ordine secondo precise quantità istituzione a misura di persona umana). Il leader delle organizzazioni Istituzionali è quindi colui che ha il “senso della misura”, come “chiara cognizione di ciò cui uno è tenuto nei confronti di se e degli altri” (sia quelli in alto che quelli in basso).

Il potere, quindi, non è una mera capacità tecnica. Molti approcci al potere colgono invece solo gli aspetti tecnici e pratici, conseguenza di una specifica e dominante interpretazione del contributo machiavellico, tale da esiliare ogni sensibilità antropologica ed etica. Particolare, tra queste, la lettura giuridica: si pensa di poter comprendere le istituzioni attraverso la mera conoscenza delle norme che le regolano e delle tecniche usate per amministrarle. Il potere è invece esercitato da persone ed investe altre persone e le istituzioni non sono un dato ma si esprimono attraverso i comportamenti delle persone.

Diversi contributi hanno poi investigato il livello intrapersonale dove il potere si manifesta con: consapevolezza (stato della mente: intenzione, interesse) di poter realizzare il cambiamento desiderato; capacità di far accadere le cose; abilità di esprimere tutto il proprio potenziale utilizzando diverse possibili risorse a disposizione (ricchezza, violenza, informazione, conoscenza, prestigio, legittimità, affettività, ecc.).

Il tema della leadership, così strettamente interpretato attraverso gli occhiali del potere, ci impone anche di dare conto del profilo di “autorevolezza”. Questo profilo esprime un tratto di personalità e caratteristica del comportamento che rende un soggetto credibile e affidabile, a prescindere dal ruolo ricoperto; è prerogativa delle persone esperte sicure di sé e carismatiche, che godono della massima fiducia e rispetto da parte degli altri e per tali ragioni vengono scelte come guide nell’ambito delle organizzazioni. L’autorevolezza differisce così dall’autorità (relativa a specifico ruolo o carica istituzionale) perché si guadagna sul campo

Questi ed altri aspetti sono oggetto di una più generale attenzione in letteratura (sin dai primi anni 2000) al circuito virtuoso innescabile, in particolare nell’organizzazione pubblica, tra efficacia etica della leadership (effective ethical leadership), indagini organizzative sul clima o le consapevolezze etiche (ethical quality of organization) e la prevenzione economica in termini di corruzione, furto, truffa, abuso di potere. Un’attenzione che, evidentemente, dovrebbe permettere l’evidenza delle criticità nel comportamento etico, la competenza a leggere segnali predittivi circa i diversi tipi di “condotta non etica” (unethical conduct) o “cattiva condotta” (misconduct), con i relativi “rischi etici” (ethical risks). L’esito di tali indagini porta poi generalmente: alla considerazione strategica da assegnare agli interventi di coaching e formativi per migliorare la consapevolezza delle “capacità morali” (moral skills); alla costruzione di aggiornati profili comportamentali per la leadership etica.

 

3.1. La leadership maligna: caratteristiche tipiche per le organizzazioni pubbliche[3]

Nel linguaggio organizzativo è emerso timidamente negli ultimi anni il tema interpretativo della “cattiveria”, diversamente letta (dominio, non riconoscimento dell’altro come valore, assenza di cura, ecc.).

Un tema in parte rafforzato dall’immensa letteratura sul mobbing, fenomeno relazionale organizzativo (generalmente collocato nella famiglia dei comportamenti “controproduttivi” (Counterproductive Work Behavior–CWB, riferibili a tutti gli atti aggressivi, ostili, di sabotaggio, realizzazione di danno fisico o patrimoniale, disimpegno rispetto ai doveri professionali).

Quanto abbiamo affermato in precedenza si riferisce al “lato oscuro dell’organizzazione” (in letteratura, conosciuto come Dark Side of Organization). Appare, questo, infatti, lo spazio elettivo del comportamento soggettivo maligno, il suo brodo primordiale. Ciò non sminuisce però affatto la rilevanza che in questo sistema di dinamiche assume il tratto di personalità e/o l’”occasione comportamentale” capace di farlo emergere.[4]

Si può anche essere d’accordo con chi afferma che il potere non crea i propositi malvagi (“che vengono dal cuore”, Matteo 15,19) ma li favorisce, li mette a nudo. In particolare chi detiene il potere ha forti possibilità di mostrare le sue ombre: immaturità, superbia, avarizia, invidia, arroganza, ambizione sfrenata demagogia, populismo, falsità, vanagloria, abuso, narcisismo, sociopatia, cinismo, ipocrisia, ambiguità. Platone (“Repubblica” – 520d), l’ambizione è considerata un impedimento ad un sano esercizio del potere: il buon governante sarà colui che ‘non ne abbia affatto il desiderio’, al contrario di colui che è ‘smanioso di potere’.

Non è facile, per una cultura classica organizzativa, profondamente razionalistica e funzionale, accettare che il “lato oscuro” possa essere profondamente radicato in un luogo nascosto (inner darkness) della psiche individuale. Quell’”Ombra” parte indissolubile della nostra identità, generalmente rifiutata se non rimossa, che non vogliamo riconoscere consapevolmente e che il potere nelle organizzazioni pubbliche mette alla prova cruentemente. Alcuni studiosi propongono a tal proposito il concetto interpretativo dell’”innocenza violenta” (violent innocence) proprio per indicare questo processo di rimozione da parte dell’organizzazione tutta (“struttura dell’innocenza”, structure of innocence) finalizzato a nascondere e condonare i comportamenti maligni. Non a caso questo tema riceve da anni attenzione dalla psicoanalisi e dalla psicologia psicodinamica in generale, impegnando molti ricercatori, soprattutto dalla crisi etica (ethical crisis) e da quella finanziaria del primo decennio degli anni 2000, sull’analisi degli impatti dei comportamenti degli “psicopatici aziendali” (corporate psychopaths). Un impegno spesso teso a ribaltare le narrative classiche che, in una semplicistica ed opportunistica rimozione collettiva, tentano contemporaneamente di proporre due modalità interpretative: una prima centrata solo sul riconoscimento enfatizzato delle caratteristiche positive del leader, occultandone i deficit e le negatività; una seconda modalità con la quale si considera il comportamento patologico come ragionevole e spiegabile, perfino “funzionale”, producendo in tal modo forti ambiguità valoriali e spazi per la crescita di carriere o percorsi professionali profondamente immorali (immoral careers).

Altri contributi ancora hanno proposto il tema del cd. “comportamento scorretto organizzativo” (organizational misbehaviour) che si definisce, al di là dei già noti comportamenti critici dirigenziali come di quelli dell’area grigia degli affari, come “tutto ciò che fai al lavoro che non dovresti fare” (anything you do at work you are not supposed to do), ampliando in tal modo rispetto alla tipologia classica più restrittiva riferibile a qualsiasi azione espressa in violazione delle norme organizzative e/o sociali.

Non sfugge inoltre, in questa letteratura, la centralità del “profilo intenzionale” (individual intentionality) connesso alla motivazione a comportarsi male.

Ognuno di questi approcci, salvo nel caso dei contributi riferibili al “comportamento scorretto”, difficilmente riesce poi a porre la riflessione oltre l’euristica della funzionalità (razionalità utilitaristica, miglioramento della prestazione, “capire per gestire”) organizzativa, rinunciando così a porsi sul diverso piano valoriale ed etico, quale obiettivo in sè significativo per l’azione operativa stessa. Certamente risultano comunque utili perché propongono spunti ulteriori per la descrizione più completa possibile dei comportamenti maligni (in questo capitolo indagati sul piano soggettivo ed interpersonale) anche di riflesso sotto il profilo etico stesso. Un profilo questo ancor più centrale quando si fa riferimento alla natura pubblica di un’organizzazione, titolare in tal senso di uno spettro di funzioni, criteri operativi e di azione non relegato al solo spazio funzionale ed utilitaristico tipico del business privato.

D’altronde non bisogna sottovalutare, come ci ammoniva anni fa Giorgio Ruffolo, la forte tendenza, nelle società tradizionali, del potere a “degenerare in potenza ed onnipotenza”. Con l’irruzione dell’individualismo il potere si è trasformato ancor di più in potenza, anzi deve essere continuamente riformato per arginarla considerando che ai ruoli di potere rimane sempre il compito di governare il dinamismo del cambiamento continuo. Questa situazione, si è già accennato, determina un’indifferenza verso l’etica a favore della “professionalizzazione funzionalistica”: cinismo del potere burocratico indifferente a fini e principi in una falsa “neutralità”. Serve allora un “rientro morale” che scongiuri l’irresponsabilità e la dissoluzione delle solidarietà sociali.

Arrivati sin qui, prima di concludere la riflessione  con i contributi utili ai nostri fini, in campo filosofico e quelli riferibili al The Dark Side of personality (DSP), ricorderemo i profili essenziali della “personalità autoritaria” così come descritti da Theodor Ludwig Adorno (La personalità autoritaria, 1950)[5].

  • Convenzionalismo (adesione acritica e rigida ai valori dei dominanti).
  • Sottomissione conseguente ad autorità superiore (sottomissione acritica nei confronti dell’autorità morale idealizzata del gruppo di appartenenza), percepita come Super-Ego esterno a Sé, in continuità con processi patologici generalmente familiari. Meccanismo di compensazione della mancanza di identità personale. L’insicurezza produce in tal senso anche un desiderio smodato di possesso come surrogato di estensione dell’Ego.
  • Aggressività (essere sulla difensiva, condannare, rifiutare, punire persone che violano i valori dominanti). Spesso anche prive di scopo personale, come la collera cieca, l’irritazione collerica.
  • Superstizione e stereotopia (mistica del destino individuale, pensiero organizzato secondo categorie rigide ed immutabili). Rifiuto di ogni ambiguità ed incapacità nell’affrontare l’ambivalenza (piano emotivo).
  • Durezza (interesse per la dominazione-sottomissione, la relazione forte-debole e quella leader-gregario, identificazione personaggi di potere, disposizione a trattare con arroganza e con disprezzo gli inferiori gerarchici e tutti quelli privi di forza o di potere).
  • Distruttività e cinismo (ostilità generalizzata, svilimento dell’umano, negazione del principio di uguaglianza tra gli uomini).
  • Proiettività verso l’esterno di impulsi emotivi inconsci (“il mondo è cattivo e contro di me”).
  • L’”anti-intraccezione”, ossia il rifiuto del mondo emotivo con la connessa negazione della parte materna, l’opposizione generale alla dimensione soggettiva, a quella immaginativa e sentimentale ed agli individui portatori di emozioni positive. Si propone anche come “pseudo-virilità”, in quanto rifiuto dell’ammissione di ogni profilo di debolezza.

 

Da quanto si è detto emerge inoltre l’importanza del cd. autoritarismo cognitivo, necessario ad integrare la lettura psicoanalitica e psicodinamica, in particolare sottolineando il ruolo dei gruppi e dei contesti organizzativi.

 

3.2. La leadership maligna: il concetto filosofico di comportamento malefico[6]

Molte delle riflessioni che provengono dal campo filosofico si rivolgono al comportamento maligno in generale (the concept of evil). Rimangono comunque riconducibili utilmente al piano della soggettività del leader, con la consapevolezza sulla molteplicità delle forme e delle radici del male (evil can have many faces and roots).

La teoria della “carenza motivazionale” osserva l’assenza di barriere rispetto alla possibilità di danneggiare od umiliare gli altri.

Alcuni si focalizzano poi sul rapporto tra comportamento malefico e responsabilità. La domanda centrale sembra essere: “Cosa significa essere malvagio” (What does it mean to be evil?), indagata attraverso l’osservazione di come il male si trasformi in azione (how evil surface in action) Si è responsabili solo se si agisce volontariamente, prevedendo gli esiti della propria azione e senza alcuna giustificazione morale (azione imperdonabile).

Tradizionale è la distinzione tra “interiorismo motivazionale” (motivation internalism) e “esternalismo motivazionale” (motivation externalism), partendo dalla comune convinzione secondo la quale il comportamento delle persone appare guidato dai propri giudizi morali (moral judgments). Si tratta di esplorare se questi hanno efficacia motivazionale diretta o se la fonte sia esterna ad essi[7].

Altra distinzione interessante, che si intreccia con la precedente, è quella proposta tra “male perverso” (perverse evil) e “male puro” (pure evil), due categorie distinte ma complementari.

  1. Comportamento di male perverso (o strumentale). Indica la situazione nella quale i comportamenti malvagi sono espressi con apparente giustificazione morale. L’individuo può avere un codice morale distorto (concezione addomesticata di ciò che è “buono”) che gli permette di razionalizzare l’atto sotto forme moralmente giustificate. Allo stesso modo alcuni usano il termine “male corrotto” (corrupt evil) per descrivere agenti morali che colpevoli “scelgono il male” quando avrebbero potuto fare l’opposto.
  2. Comportamento di male puro. Indica l’esecuzione di atti malvagi fine a se stessi, L’agente è motivato a compiere il male come tale, scegliendo così di non compiere la possibilità alternativa del bene. Il male per amore del male (evil for evil’s sake) richiede un carattere con principi e determinazione specifici, presenti ad un preciso grado del suo sviluppo (come affermava anche Aristotele nella sua “Etica Nicomachea”). Gli agenti puramente malvagi non cercano, di conseguenza, di giustificarsi come buoni o giusti. Ci si ispira ad una razionalità pratica chiamata anche “motivazione del male in quanto malvagio” (evil-qua-evil motivation).

 

Esiste poi una letteratura filosofica abbondante sul “carattere ed il personaggio malvagio” (contemporary theories of evil character/personhood), che ha proposto diverse modalità descrittive (spesso anche integrate) di comportamenti tipici, sia in quanto azioni che in quanto sentimenti.

Secondo alcuni  autori, vanno sostenuti alcuni tratti di identificazione tra loro non in contraddizione.

  • Deficit di coscienza (deficiencies of conscience). Mancanza di coscienza pienamente attiva (lack a fully active conscience), in quanto assenza di impegno sincero per il bene (con i conseguenti atteggiamenti passivi) e coerente disinteresse per le proprie mancanze morali (colpa, vergogna, ecc.).
  • Malizia (malice). Profonda ostilità e mancanza di fiducia nei confronti degli altri, verso i quali ci si augura ogni tipo di disgrazia.
  • Malevolenza (malevolence). Atteggiamento di fondo e generale basato su “cattive intenzioni” (bad intentions) e “cattiva volontà” (ill will) verso il contesto sociale generale, il mondo diverso dal Sè. Esprime una radicale inimicizia verso il bene (a deep-seated enmity towards goodness) e verso ogni forma di impegno morale. “Male, sii il mio bene” (evil, be thou my good).

 

3.3. La leadership maligna: il soggetto da solo (“the Dark Side of personality”-DSP)[8]

Da tempo, la letteratura internazionale si interroga sulla percentuale di “fallimento manageriale” dove, a fronte di profili valutativi in ingresso altamente brillanti, si mostra una prevalente causa di “difetto di personalità” (overriding personality defect). In particolare, il “deragliamento” osservato (derailment), sarebbe riconducibile all’incapacità di gestire il proprio comportamento, come disposizione di personalità disfunzionale indicata appunto con l’espressione DSP (opposta a quella di “lato luminoso”, bright-side).[9] La rilevanza di tale attenzione nell’osservazione dei comportamenti disfunzionali è data dal fatto che questi sembrano avere effetti ben più forti e condizionanti di quelli positivi, suggerendo il vero e proprio principio comportamentale che “il male è più forte del bene” (bad is stronger than good).

Non esiste ancora un accordo generale sulla tassonomia comportamentale della DSP e molti si affidano ad una rilettura dell’ultima versione del DSM prodotto dalla Amercan Psychiatric Association. Delle psicopatologie parleremo in questo lavoro in un capitolo apposito di approfondimento. La ricerca si è da tempo incentrata su tratti stabili che sono legati a comportamenti eticamente, moralmente e socialmente discutibili (si veda il lavoro di Adorno qui trattato in un paragrafo specifico; o il lavoro di Eysenck sullo psicoticismo  negli anni ’70).

Nell’approccio categorico tradizionale in psicologia clinica, i modelli duraturi di comportamento socialmente ed eticamente ostile (aversive behavior) sono attribuiti a disturbi della personalità (in manifestazioni cd. subcliniche riferite ad accentuazioni della personalità/personality accentuations, ossia riferite a qualsiasi quadro patologico che non si manifesti con segni o sintomi, ma solo con alterazioni di esami laboratoriali o con evidenze raccolte con esami strumentali).

Molti vedono così, nella psicologia della personalità, questi tratti (spesso definiti come “tratti oscuri”, dark traits; tutti inseriti nel cd. Fattore Oscuro di Personalità – D, Dark Factor of Personality) come aspetti controproducenti della normale espressione della personalità sul posto di lavoro, ossia valori “estremi” (extreme extensions) nello spettro comportamentale dei tratti positivi (bright-side traits) ed in una logica di continuum. Estremi, evidentemente associabili, in eccesso o difetto (criterio del deragliamento), a comportamenti controproducenti (counterproductive behaviors). Così appaiono tali tutti quei processi che interferiscono con le relazioni sociali (mettendo a rischio quelle positive) e con la capacità di giudizio (ad esempio, le tendenze perfezionistiche del tratto DSP possono essere una versione estrema dell’attenzione al dettaglio associata ad un’elevata “Coscienziosità”)[10].

Queste “strategie imperfette” generalmente vengono quindi identificare, in generale, in una tendenza generale verso un comportamento manipolativo dell’attore finalizzato ad ottenere benefici per sé (status più elevato, guadagni monetari, appagamento del desiderio di potere/superiorità, piacere emotivo, ecc.) a breve termine, consapevolmente ignorando, attivamente accettando o determinando la dannosità (disutilità, disutility) per altri, con la contemporanea assunzione di credenze funzionali al proprio convincimento giustificativo. Convinzione giustificativa, implicita/inconsapevole od esplicita, ad esempio riferibile ad un senso di diritto, ad una sfiducia e cinismo generalizzati, ad uno sminuire altri o determinati gruppi dal punto di vista del loro valore sociale o professionale, al credere alla inevitabile naturalità del principio per il quale ogni persona generalmente pensi prima a sè stessa, ecc.). Convinzione, in generale, capace, in quanto tale, di preservare fluidamente un’immagine di sé positiva.

Il profilo manipolativo permetterebbe anche di affermare che l’idea di massimizzazione dell’utilità non implica necessariamente che gli individui ad alto contenuto di D non si comporteranno mai in modo cooperativo o di accettazione di uno svantaggio per sé: questo infatti potrà avvenire, ad esempio, quando la cooperazione apparirà loro utile per costruirsi una falsa reputazione positiva, evitare sanzioni, ottenere un proprio vantaggio personale; o quando il proprio svantaggio sia necessario per determinare la sofferenza altrui (ritenuta fonte di soddisfazione maggiore). C’è inoltre da osservare che gli individui ad alto valore D, nel cercare la propria utilità, perseguono comportamenti che possono influenzare negativamente gli altri, attivando in essi propositi di ritorsione, vendetta o comportamenti di rabbia.

Se replicate frequentemente, queste strategie comportamentali accentuerebbero poi la loro portata negativa e distruttiva.[11]

Questo approccio, alla fine, ha portato all’identificazione e alla selezione di nove tratti oscuri, tutti sicuramente interessanti nell’analisi delle leadership delle organizzazioni pubbliche e di lavoro sociale.

  1. Egoismo (egoism). Eccessiva preoccupazione per il proprio piacere o vantaggio a scapito del benessere della comunità. “Cerco di badare a me stesso prima, anche se ciò significa rendere le cose difficili agli altri”. Tendenza generale all’insaziabilità e al comportamento sconsiderato nel perseguimento di interessi personali (ad es. “Non importa quanto ho di qualcosa, voglio sempre di più”; “Dirò qualsiasi cosa per ottenere ciò che voglio”). Criterio: egocentrismo (self-centeredness).
  2. Machiavellismo (machiavellianism, spesso abbreviato “Mach”). Il fine giustifica i mezzi: prescindere dalle virtù, se questo consente di raggiungere il proprio fine. In caso di competizione si tende all’inganno. Uso strategico della manipolatività (manipulativeness): il miglior modo di relazionarsi con l’altro è attraverso l’adulazione ed il dire ciò che questo vuole sentirsi dire; spesso gli altri percepiscono la finzione. Insensibilità nell’espressione affettiva (distacco emotivo) e determinato orientamento al calcolo (strategic-calculating orientation) come atteggiamento cinico, tutto sostenuto da una forte ambizione. Si sa riconoscere la debolezza altrui per approfittarne. “Mi piace usare una manipolazione intelligente per ottenere ciò che voglio”. “Se esistono gli ingenui peggio per loro”. Criterio: nutrimento/uso (nurturance).
  3. Disimpegno morale (moral disengagement). Capacità cognitiva di disimpegnarci dalle nostre autosanzioni morali e di venire a patti con i nostri criteri morali, riuscendo a mantenere comunque un senso di integrità. Si è osservata una stretta correlazione con la “devianza” (già vista in un diverso capitolo): chi decide di metterein atto un comportamento disfunzionale tende a “liberarsi” dai vincoli etici richiesti dalle diverse regole organizzative. Criterio: identità morale interiorizzata (internalized moral identity).
  4. Narcisismo (narcisism). Centratura assoluta solo sul rinforzo del proprio Ego, con un grandioso senso di importanza personale. Fantasia di grande successo sfruttando situazioni e persone. Il narciso ignora i feedback valutativi ed è spesso vive emozioni di rabbia. Criterio: dominazione (dominance). In modo essenziale si potrebbe affermare che il leader con patologia narcisistica perde la cognizione della propria misura in riferimento al mandato ricevuto. Detenere il potere esalta il narcisismo e procura privilegi o vantaggi (psicologici e materiali) ben oltre la necessità funzionale: si tende così a conservarlo a tutti i costi. Si ha un’”affermazione smisurata di se”, una vera “idolatria di se stessi” (autoreferenzialità) sul piano fisico, cognitivo od emotivo. E’ ciò che Platone (“Repubblica”, libro IX) chiama “tirannia” in quanto assoggettamento agli istinti più perversi; mentre Agostino la definisce “passione per la gloria di se stessi ed il dominio” (“De civitate Dei”). Per Weber si parla di ‘autoincensamento puramente personale’. Bodei propone il concetto di “Io mongolfiera”, gonfio di sé (Agostino parla di sé come primo allievo della scuola di retorica con la gioia legata al gonfiarsi di vento. Certo, le posizioni di potere stimolano eccessivi processi narcisistici (su tale profilo si veda meglio oltre) e se i sistemi formativi e culturali non funzionano, l’Istituzione di fatto favorisce questo processo. Il narcisismo non solo danneggia l’equilibrio personale, ma inficia le relazioni del leader con gli altri e con l’organizzazione. Per alcuni si deve intendere un’aspirazione spasmodica di occupare posizioni di comando, di avere il controllo su cose e persone, possedere oggetti di status symbol superiore; una vera e propria ansia da prestazione (potere conquistato come ansiolitico). Ciò può evidenziare incertezza, insicurezza sulla propria identità e sul piano dell’autostima.
  5. Diritto psicologico (psychological entitlement). Senso stabile e pervasivo che si meriti di più e si abbia diritto a più degli altri. “Se sono sicuro di aver ragione su qualcosa, non perdo molto tempo ad ascoltare le argomentazioni degli altri”. Criterio: assunzione diretta della prospettiva (perspective taking).
  6. Psicopatia (psychopathy). Forte deficit affettivo (insensibilità) e di autocontrollo (impulsività). “Dirò qualsiasi cosa per ottenere ciò che voglio. Spesso dico e faccio cose senza considerare le conseguenze”. Mancanza di senso di colpa o rimorso. Criterio: impulsività (impulsivity). Le ricerche suggeriscono una correlazione forte con tattiche manipolative e comportamenti di bullismo sul lavoro. Centrale anche l’astuzia utilizzata per guadagnare spazi di potere “cattivo”.
  7. Sadismo (sadism). Comportamento crudele o umiliante nei confronti degli altri. Impegno ad infliggere intenzionalmente dolore o sofferenza fisica, sessuale o psicologica agli altri per affermare potere e dominio o per piacere e divertimento. “Fare del male alle persone sarebbe eccitante. Vedere le persone piangere non mi turba molto”. Criterio: insensibilità (insensitivity).
  8. Interesse personale (self-interest). Perseguimento di vantaggi/guadagni in domini sociali apprezzati (beni materiali, stato sociale, riconoscimenti, ecc.). Criterio: potere (per acquisire) (power).
  9. Disprezzo (spitefulness). Sulla base di un personale giudizio morale, si sceglie di danneggiare altri (in campo sociale, economico, fisico, ecc.) anche se ciò può comportare una sofferenza per sè. “A volte vale la pena soffrire un po’ da parte mia per vedere gli altri ricevere la punizione che meritano”. Criterio: aggressività (aggression)

 

Si è quindi osservato che D assume carattere predittivo nell’ambito del comportamento eticamente, moralmente e socialmente discutibile. In tal senso D appare correlato a bassa gradevolezza e bassa coscienziosità, indicando che gli individui ad alto contenuto di D sono caratterizzati da una mancanza di conformità, gentilezza e modestia, nonché da una maggiore impulsività, mancanza di rispetto della legge, rispetto delle regole e autocontrollo, specialmente quando hanno a che fare con gli altri.

Il tratto di psicopatia aggiunge, alla caratterizzazione D, elementi più caratterizzati ed evidenti di impulsività, aggressività e minore sensibilità verso gli altri.

Particolari studi hanno poi considerato, con esito positivo, la sostanziale convergenza tra i tratti oscuri (D) e le quattro principali istanze di “psicopatologia di ostilità sociale” (socially aversive psychopathology): narcisismo, antisocialità, tendenza paranoica, borderline. Tutte accomunate da un comune profilo di “antagonismo” (antagonism) o “dissocialità” (dissociality), in quanto tendenza verso comportamenti che mettono un individuo in contrasto con altre persone

Diverse ricerche sul campo hanno puntato su di una “miscela” di cinque fattori specifici capace, secondo i ricercatori, di contribuire a descrivere particolarmente bene i temi di D: l’insensibilità, l’inganno, il diritto narcisistico, il sadismo e la vendicatività.

Anche il locus of control[12] diviene possibile elemento predittivo di D, considerando che le persone con punteggi alti su D sembrerebbero tendenti ad impegnarsi in comportamenti sociali inadeguati con una mancanza di senso di colpa, che gli permette di negare la responsabilità delle proprie azioni e ad attribuirla a cause esterne.

E’ apparso evidente, da molte ricerche, il fatto che il tratto di “stabilità emotiva” (emotional stability) modererebbe l’effetto dei tratti del lato oscuro sugli eccessi comportamentali. La bassa stabilità emotiva, in particolare, interrompe le comunicazioni e la qualità delle relazioni, anche in termini gruppali. Tutto ciò considerando, in generale, che la leadership in sé è definibile come “processo intrinsecamente emotivo” (inherently emotional process) capace di condizionare i climi in senso tossico, attraverso un intenso contagio emotivo negativo.

 

  1. Conclusioni

Dunque, a parere di chi scrive, è oggi necessario passare attraverso le culture etico-comportamentali del potere per poter riprendere seriamente la strada di riforma delle Pubbliche Amministrazioni e del sistema generale dei servizi alla Comunità.

Abbiamo provato a farlo seguendo la mappa concettuale seguente:

D’altronde, non è un’idea originale visto che questo fu il percorso scelto proprio dai Costituenti.

Certamente ciò vuol dire oggi avere il coraggio di mettere a nudo i meccanismi contorti operativi che la dinamica del potere sottende. Servirebbe introdurre, nella stessa formazione della dirigenza e delle figure del funzionariato apicale, percorsi finalizzati a proporre consapevolezze “cliniche” dei comportamenti propri e presenti nelle organizzazioni pubbliche.

Servirà, infatti, tornare ad una visione vocazionale del lavoro pubblico e sociale, utilizzando tale visione sin dal momento del recruitment e dell’assunzione.

Diversamente si continuerà a sfornare riforme che, nel migliore dei casi, realizzeranno un ottimo pakaging senza rivedere il contenuto della scatola: un bel fiocco ma una rinnovata delusione all’apertura del pacco.

Si rinvia alla prima parte (Prima parte)

*Fabrizio Giorgilli è dirigente della Pubblica Amministrazione da oltre 20 anni. Insegna, come docente a contratto, nell’area disciplinare del comportamento organizzativo presso l’Università del Molise. Segue per l’AIDP Abruzzo-Molise le tematiche riferite al lavoro pubblico. Tra i suoi lavori pubblicati: Etica e virtù nel lavoro pubblico, Giappichelli, 2020; Valori, etica ed efficienza nelle organizzazioni pubbliche, Palinsesto, 2014; Rilevanze organizzative, Palinsesto, 2013; Il gruppo nelle organizzazioni (con F.P. Arcuri e C. Ciccia), Palinsesto, 2009; Quaderno di psicologia e comportamento organizzativo. Il sapere minimo, Editoriale Scientifica, 2008; Il lavoro di gruppo (con F.P. Arcuri), Pirola, 1993; Riforma radicale delle Pubbliche Amministrazioni e ruolo strategico dei comportamenti etici, in “Salvis Juribus”, dicembre 2021.

[1] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: Ardoino (2005); Barus-Michel-Enriquez, 2005; Battista (2011); Cavalli (1996); D’Ambrosio (2004); Feltham-Dryden (2008); Galimberti (2006); Hillman (2002); Kaptein e alt. (2005); Robbins-Judge (2018); Sciandura (2019); Stoppino (2004c); Vincent (2019).

[2] Giorgilli (2020), in particolare il paragrafo 4.2.3..

[3] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: AA.VV. (2005); Barus-Michel-Enriquez, 2005; Battista (2011); Buffa-Archimede (2003); Castiello d’Antonio (2000); D’Ambrosio (2004); Ducan (1975); Ferrarotti, 1980; Galimberti (2006); Galzarano (2015) con utile bibliografia; Linstead-Marechal-Griffin (2014); Roccato (2006); Ruffolo (1988); Stoppino M. (2004b).

[4] Si vedano, come testimonianza significativa i “Vizi capitali” proposti da Celli (2016), facilmente integrabili con quelli di Hillman (2002).

[5] Sul tema e sui suoi sviluppi a seguito del contributo di Adorno, si veda l’utile contributo di De Grada (2006). Assme un profilo autoritario la figura del “leader contro l’istituzione” nelle forme proposte da Barus-Michel-Enriquez (2005).

[6] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: Calder (2018); Ferguson, 2009; Haybron (1999).

[7] Sotto quest’ultimo profilo si osserva, a suo sostegno, il fenomeno dell’”amoralità”: l’amorale sembra abbastanza consapevole delle regole della società e di quelle morali in particolare, ma le ignora volontariamente: si ha conoscenza del giusto/ingiusto in senso razionale, senza esserne condizionati nei comportamenti conseguenti (inerzia motivazionale). Si riconosce, quindi, che ci sono agenti che soffrono di “debolezza di volontà” (cioè akrasia), non essendo influenzati dalla forza motivazionale dei propri giudizi morali.

[8] Oltre la bibliografia citata nelle note, si sono utilizzati i seguenti contributi: Alvinius-Fors Brandebo (2019); Bader M. e alt. (2021); Bonfá-Araujo B. e alt. (2021); Hilbig-Thielmann-Klein-Moshagen-Zettler (2021); Kaiser-Le Breton-Hogan (2015); Metin Camgöz- Ekmekci (2021); Moshagen-Hilbig (2018); Moshagen-Zettler-Hilbig (2019); Robbins-Judge (2018); Scandura (2019).

[9] Si veda, tra gli altri, l’utilissimo sito scientifico: www.darkfactor.org.

[10] Il profilo subclinico già citato dei tratti oscuri non deve far sottovalutare quanto questi siano associabili a un aumentato rischio di disadattamento, tra cui aggressività e delinquenza, deficit socioemotivi ed, appunto, difficoltà interpersonali. In alcuni casi è stata evidenziata anche la loro incidenza sulla sicurezza nei lluoghi di lavoro, con particolare evidenza per gli infortuni.

[11] Su questo specifico carattere, con riferimento a quanto già accennato nel capitolo precedente, si vedano gli interessanti lavori di Alvinius-Fors Brandebo (2019) e Metin Camgöz-Ekmekci (2021) sulla “leadership distruttiva”.

[12] Variabile psicologica che indica il grado e la modalità di percezione rispetto al “luogo” del controllo del proprio destino e gli eventi: LoC interno, se la persona tende ad attribuire i risultati/eventi (positive o negative) alle proprie azioni); LoC esterno, se invece l’attribuzione dei risultati/eventi è assegnata a circostanze che esulano dal proprio controllo.

Riforma del lavoro pubblico: ricostruire la dimensione culturale e comportamentale del potere e della leadership. Parte seconda
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