La decisione del prestatore di dimettersi dopo aver subìto un trasferimento ad altra sede distante oltre 50 km deve ritenersi, a prescindere dalla legittimità del provvedimento datoriale, una scelta non volontaria, imputabile a terzi e dà diritto all’indennità di NASpI.
Nota a Trib. Torino 27 aprile 2023, n. 429
Sonia Gioia
La Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (c.d. NASpI), istituita dall’art. 1, D. LGS. 4 marzo 2015, n. 22 (concernente “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”) per fornire una tutela di sostegno al reddito ai prestatori con rapporto di lavoro subordinato che siano rimasti involontariamente disoccupati, spetta anche al lavoratore che abbia rassegnato le proprie dimissioni per giusta causa in conseguenza del provvedimento datoriale di trasferimento presso un sito produttivo distante oltre 50 km dalla sede abituale di lavoro e/o raggiungibile in più di 80 minuti con i mezzi pubblici, indipendentemente dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale.
Lo ha stabilito il Tribunale di Torino (27 aprile 2023, n. 429), in relazione ad una fattispecie concernente una dipendente che, in seguito al provvedimento datoriale di trasferimento ad altra sede distante più di 80 km dalla propria residenza, aveva rassegnato le dimissioni per giusta causa, rivendicando conseguentemente il diritto a percepire il trattamento di disoccupazione.
All’esito del procedimento amministrativo, l’INPS aveva rigettato la domanda della lavoratrice sostenendo che il requisito dell’involontarietà dello stato di disoccupazione, quale condizione per l’accesso alla NASpI, può dirsi integrato, in caso di dimissioni per giusta causa, solo laddove il dipendente fornisca prova dell’illegittimità del provvedimento datoriale.
In particolare, secondo l’ente previdenziale, lo stato di disoccupazione può ritenersi involontario nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro in cui le parti optano per la risoluzione consensuale, sia in esito alla procedura di conciliazione di cui all’art. 7, L. 15 luglio 1966, n. 604 (come mod. dall’art. 1, L. 28 giugno 2012, n. 92, c.d. Riforma Fornero), sia in esito al rifiuto del lavoratore al trasferimento ad altra sede distante oltre 50 km dalla residenza o mediamente raggiungibile in oltre 80 minuti con i mezzi di trasporto pubblico, mentre, nel caso di dimissioni per giusta causa, per poter accedere al trattamento di disoccupazione, “è necessario che il lavoratore provi che il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” (MSG INPS n. 369/2018; Circ. INPS nn. 142/2015 e 142/2012).
Di diverso avviso, invece, è stato il Tribunale di Torino, secondo cui subire un trasferimento a notevole distanza dalla sede abituale di lavoro o dalla propria residenza impatta in misura rilevante sulle condizioni di vita personali, familiari e di impiego, sicché la decisione del dipendente di rassegnare le dimissioni dopo aver subìto un trasferimento di tale natura, “a prescindere dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale”, deve ritenersi una scelta involontaria, ascrivibile al comportamento di un altro soggetto ed a cui consegue il diritto di percepire l’indennità di NASpI, sempre che ricorrano congiuntamente i requisiti prescritti dall’art. 3, co. 1, D. LGS. n. 22 cit., vale a dire:
a) Lo stato di disoccupazione ex 1, co. 2, lett. c), D. LGS. 21 aprile 2000, n. 181 e succ. mod. (recante “Disposizioni per agevolare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro”);
b) La possibilità di far valere almeno 13 settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di mancanza d’impiego;
c) L’aver svolto – per i soli eventi di disoccupazione verificatisi prima del 1 gennaio 2022 – almeno 30 giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di inattività.
Peraltro, secondo il giudice, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro “è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell’accordo oggetto di risoluzione consensuale”, per cui sarebbe “ingiustificato riservare un diverso trattamento ad ipotesi del tutto analoghe”.
Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale, nel caso di specie, ha accertato che le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice dovevano “ritenersi involontarie perché determinate da una condotta datoriale che ha reso obbligata la scelta della dipendente”, con conseguente condanna dell’ente previdenziale al pagamento dell’indennità di NASpI.