Non è necessaria la sussistenza di una situazione di handicap connotata da gravità ai fini dell’esonero dal lavoro notturno.
Nota a Cass. (ord.) 10 maggio 2023, n. 12649
Francesca Fedele
Ai fini della possibilità di esonero dai turni notturni, la dichiarazione di gravità dello stato di handicap del familiare a carico del lavoratore non è necessaria.
Lo afferma la Corte di Cassazione (ord.) 10 maggio n. 12649 che, in linea con la Core di Appello di Milano, ha accertato il diritto di una lavoratrice a non prestare lavoro notturno “sino a quando (…) avrà a suo carico la madre disabile ai sensi della L. n. 104 del 1992”.
Nello specifico, la Corte esplicita il seguente ragionamento:
“la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni” è esonerata dal lavoro notturno (v. D.Lgs. n. 66/2003, art. 11, co. 2, lett. c); analoga disposizione è presente nel D.Lgs. n. 151/2001, art. 53, co. 3, in quanto già contenuta nella L. n. 903/1977, art. 5, co. 2, lett. c)). Tale esonero è rimesso alla volontà del lavoratore che si trovi nelle condizioni elencate dalla legge, il quale può far valere il suo dissenso espresso in forma scritta e comunicato al datore di lavoro entro 24 ore anteriori al previsto inizio della prestazione, con precetto assistito anche da sanzione penale (cfr. D.Lgs. n. 66/2003, art. 18 bis, co. 1; Cass. n. 10203/2020).
Come noto, secondo la L. n. 104/1992, art. 3: “1. È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. 2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative. 3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”.
Come si vede, chi presenta le menomazioni descritte dall’art. 3, co. 1 della suddetta disposizione è in condizione di disabilità, mentre “la connotazione di gravità” di cui al successivo co. 3 costituisce un carattere ulteriore ed aggiuntivo. Tale situazione di gravità “non può trarre decisivo argomento dalla circostanza che la disposizione preveda che il disabile sia “a carico” del lavoratore o della lavoratrice”. Ed infatti, l’essere “a carico” non evidenzia alcuna dirimente circa il grado di invalidità di cui debba essere affetta la persona con handicap, più o meno grave. La circostanza indica invece la relazione di assistenza che deve sussistere tra lavoratore e disabile. Infatti, si può aver cura di un soggetto che presenti una minorazione che è “causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”, anche quando lo stesso non richieda un “intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”.
Quando il legislatore ha inteso subordinare la concessione di un beneficio alla sussistenza di una situazione di handicap connotata da gravità, lo ha esplicitamente richiesto, come nel caso dei permessi giornalieri e mensili ovvero dei limiti al trasferimento (v. art. 33, L. n. 104/1992).
Pertanto, “una interpretazione che, pur nel silenzio della norma e in difetto di inequivoche indicazioni sistematiche, introduca surrettiziamente un requisito aggiuntivo, quale la gravità della situazione di handicap, si tradurrebbe in una indebita interpolazione ermeneutica del testo, tanto più ingiustificata in un ambito, quale quello dei diritti dei disabili, insuscettibile di limitazioni di tutela al di fuori di una chiara presa di posizione del legislatore”.
Del resto, rilevano i giudici, “il trasferimento senza consenso del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente è vietato anche quando la disabilità del familiare non si configuri come grave – anche se la situazione di gravità è testualmente richiesta con il rinvio al co. 3 del medesimo articolo – a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte” (Cass. n. 29009/2020; Cass. n. 25379/2016 e Cass. n. 9201/ 2012). Ai fini della valutazione dell’illegittimità del suo trasferimento si è altresì ritenuto ininfluente che una lavoratrice non godesse dei benefici di cui alla L. n. 104/1992, art. 3 considerando che la stessa assisteva la madre, presente nel certificato dello stato di famiglia, invalida al 100% (v. Cass. n. 22421/2015).
Sentenza
Corte di Cassazione – Ordinanza 10 maggio 2023, n. 12649
(Omissis)
Rilevato che
1.la Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado con la quale era stato accertato il diritto di B.D., nei confronti della datrice di lavoro (…) Spa, a non prestare lavoro notturno “sino a quando (…) avrà a suo carico la madre disabile ai sensi delle L. n. 104 del 1992”;
2.la Corte, in sintesi, ha condiviso l’interpretazione fornita dal giudice di primo grado del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 53, comma 3, e dal d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 11, comma 2, lett. c), nel senso che gli stessi non richiedono, ai fini della possibilità di esonero dai turni notturni, la dichiarazione di gravità dello stato di handicap del familiare a carico del lavoratore;
3.per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la soccombente società con due motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;
entrambe le parti hanno comunicato memorie.
Considerato che
1.il primo motivo di ricorso denuncia: “violazione e/o falsa applicazione della L. n. 151 del 2001, art. 53 (ndr D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 53) e D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 11 anche in relazione alla L. n. 104 del 1992, artt. 3 e 33 (Art. 360 c.p.c., n. 3)”; si sostiene che sia corretta l’interpretazione secondo cui, “pur nella (apparente) mancata specificazione della L. n. 151 del 2001, art. 53 (ndr D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 53) (…) l’accertamento dello stato di gravità dell’handicap è necessario per il riconoscimento (altresì) dell’esenzione dal lavoro notturno”, adducendo che “solo in caso di accertato stato di gravità dell’handicap può ritenersi provata e necessaria un’assistenza sistematica ed adeguata, effettiva appunto, alla persona del disabile tale da giustificare la compressione di contrapposti obblighi lavorativi”;
col secondo motivo si lamenta: “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (Art. 360 c.p.c., n. 5)”; si sostiene che la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che il B. non avrebbe mai offerto la prova dell’assistenza (sistematica e adeguata) effettivamente garantita alla persona bisognosa perché “a carico”, tale da determinare una maggiore difficoltà nella vita lavorativa, non essendo sufficiente la “sola circostanza della convivenza, di per sé sterile a tal fine, se non commisurata al grado di impegno (assistenza) che la condizione (gravità) di handicap può comportare”;
2.il Collegio giudica il primo motivo di ricorso infondato;
2.1. nell’ambito delle limitazioni al lavoro notturno previste per particolari esigenze familiari e assistenziali, il D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 11, comma 2, lett. c), prevede che non sono obbligati a prestare lavoro notturno: “la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni” (la medesima disposizione è presente nel D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 53, comma 3, in quanto già contenuta nella L. n. 903 del 1977, art. 5, comma 2, lett. c));
si tratta di un esonero dall’obbligo di prestare lavoro notturno (cfr. Cass. n. 10203 del 2020) rimesso alla volontà del lavoratore che si trovi nelle condizioni elencate dalla legge, il quale può far valere il suo dissenso espresso in forma scritta e comunicato al datore di lavoro entro 24 ore anteriori al previsto inizio della prestazione, con precetto assistito anche da sanzione penale (cfr. D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 18 bis, comma 1);
secondo la L. n. 104 del 1992, art. 3: “1. È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione. 2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative. 3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”;
2.2. dal disposto testuale della prima disposizione richiamata emerge che, per fruire dell’esonero dall’obbligo di prestare lavoro notturno, occorre che si sia in presenza di “un soggetto disabile ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni”;
dalla seconda disposizione, poi, si evince chiaramente che, ai sensi della L. n. 104 del 1992, è in condizione di disabilità già chi presenta le menomazioni descritte dall’art. 3, comma 1 di detta legge, risultando “la connotazione di gravità” di cui al comma 3 un carattere ulteriore ed aggiuntivo;
2.3. essendo sufficiente, sulla base del solo dato testuale, la condizione di disabilità al fine di fruire del beneficio in parola, la necessità che, invece, il disabile sia stato riconosciuto come in situazione di gravità non può trarre decisivo argomento dalla circostanza che la disposizione preveda che il disabile sia “a carico” del lavoratore o della lavoratrice;
l’essere “a carico” nulla di dirimente lascia inferire sul grado di invalidità di cui debba essere affetto la persona con handicap, più o meno grave, ma indica una relazione di assistenza che deve evidentemente sussistere tra lavoratore e disabile; infatti, non può certo negarsi che si possa avere cura e fare carico di una persona che presenti una minorazione che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione, anche quando la stessa non renda necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione;
2.4. a conferma dell’esegesi qui condivisa soccorre il tradizionale canone ermeneutico secondo cui: “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” (Cass. n. 1867 del 1982; Cass. n. 1248 del 1984; Cass. n. 5085 del 1991; Cass. n. 20898 del 2007);
infatti, laddove il legislatore ha inteso subordinare la concessione di un beneficio alla circostanza che sussistesse una situazione di handicap con connotato di gravità, lo ha esplicitamente richiesto, come nel caso dei permessi giornalieri e mensili ovvero dei limiti al trasferimento (cfr. L. n. 104 del 1992, art. 33);
2.5. peraltro la giurisprudenza di questa Corte, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata alla tutela del disabile – alla luce dell’art. 3 Cost., comma 2, dell’art. 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, ratificata con L. n. 18 del 2009 – ha ritenuto che il trasferimento senza consenso del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, L. n. 104 del 1992, ex art. 33, comma 5, è vietato anche quando la disabilità del familiare non si configuri come grave – anche se la situazione di gravità è testualmente richiesta con il rinvio al comma 3 del medesimo articolo – a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte (Cass. n. 9201 del 2012; Cass. n. 25379 del 2016; Cass. n. 29009 del 2020); in un caso si è ritenuto del tutto ininfluente, ai fini della valutazione dell’illegittimità del suo trasferimento, che la lavoratrice non godesse dei benefici di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 3 considerando, in fatto, che non risultava contestato che la stessa assistesse la madre, presente nel certificato dello stato di famiglia, invalida al 100% (cfr. Cass. n. 22421 del 2015);
l’insieme di tali orientamenti di legittimità è espressamente ispirato alla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha evidenziato come la L. n. 104 del 1992 abbia preso in particolare considerazione l’esigenza di favorire la socializzazione del soggetto disabile, predisponendo strumenti rivolti ad agevolare il suo pieno inserimento nella famiglia, nella scuola e nel lavoro, in attuazione del principio, secondo il quale la socializzazione in tutte le sue modalità esplicative è un fondamentale fattore di sviluppo della personalità ed un idoneo strumento di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica (cfr. Corte Cost. n. 215 del 1987; Corte Cost. n. 350 del 2003; ma anche Corte Cost. n. 167 del 1999, n. 226 del 2001 e n. 467 del 2002); è stato altresì sottolineato che una tutela piena dei soggetti deboli richiede, oltre alle necessarie prestazioni sanitarie e di riabilitazione, anche la cura, l’inserimento sociale e, soprattutto, la continuità delle relazioni costitutive della personalità umana (Corte Cost. n. 203 del 2013);
questa Corte ha di recente preso atto che i propri precedenti “orientano per una valorizzazione dell’esigenza di tutela del disabile al di là di ogni condizionamento derivante dal mancato accertamento di uno status o da preclusioni collegate all’inesistenza di un provvedimento formale che confermi la ricorrenza della situazione di fatto che conferisce fondamento al diritto del familiare che presta assistenza al disabile” (in termini: Cass. n. 29009 del 2020);
2.6. nel descritto contesto di diritto vivente una interpretazione che, pur nel silenzio della norma e in difetto di inequivoche indicazioni sistematiche, introduca surrettiziamente un requisito aggiuntivo, quale la gravità della situazione di handicap, si tradurrebbe in una indebita interpolazione ermeneutica del testo, tanto più ingiustificata in un ambito, quale quello dei diritti dei disabili, insuscettibile di limitazioni di tutela al di fuori di una chiara presa di posizione del legislatore;
2.7. naturalmente neanche soccorre la tesi qui non accolta di una prassi amministrativa che, oltre ad essere di certo priva di portata normativa, si fonda su circolari assertive prive di adeguato supporto argomentativo;
2.8. alla stregua di tutte le argomentazioni esposte la censura non può trovare accoglimento;
3.il secondo motivo è inammissibile perché in parte ripropone, sotto altra veste, l’assunto, qui disatteso, secondo cui sarebbe necessaria un’assistenza qualificata dalla gravità dell’handicap ed in parte invoca il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 in una ipotesi preclusa dall’esistenza di una cd. “doppia conforme” ex art. 348 ter c.p.c., u.c., e, comunque, per essere formulato al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014;
4.conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con distrazione al procuratore Avv. F. dichiaratosi antistatario;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per spese, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%, con distrazione.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.