Nel caso in cui il lavoratore rifiuti di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part time è possibile il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Nota a Cass. (ord.) 9 maggio 2023, n. 12244
Flavia Durval
La previsione legislativa (art. 8, co.1, D.LGS. n. 81/2015) secondo cui il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale o viceversa non può rappresentare un giustificato motivo di licenziamento, non va interpretata rigidamente, ossia nel senso di impedire sempre e comunque che il rifiuto del part-time consenta il recesso.
Nello specifico, il datore di lavoro che licenzi un dipendente in ragione del suo rifiuto di ridurre il proprio orario di lavoro, trasformando il contratto da tempo pieno a tempo parziale, deve dimostrare, per rendere legittimo il recesso: a) che sussistono delle esigenze economiche e organizzative effettive incompatibili con una prestazione full-time e che consentano esclusivamente il mantenimento di una prestazione part-time; b) di aver proposto la trasformazione del rapporto ottenendo un rifiuto da parte del lavoratore; c) e che il licenziamento è causalmente collegato alle esigenze di riduzione di orario.
È quanto afferma la Corte di Cassazione (ord. 9 maggio 2023, n.12244) la quale precisa che: “La previsione dell’articolo 8 cit., se esclude che il rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time possa costituire di per sé giustificato motivo di licenziamento, non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part-time ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere di prova posto a carico di parte datoriale” (v. Cass. n. 21875/2015). In tal modo, “il licenziamento non è intimato a causa del rifiuto ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time”.
Il limite al licenziamento di cui alla norma in questione non va dunque inteso in senso assoluto poiché non impedisce di intimare un licenziamento per impossibilità di utilizzare una prestazione a tempo pieno associata al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto in un part-time.
Qualora però il licenziamento rappresenti una ritorsione rispetto al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto in lavoro a tempo parziale, lo stesso va considerato nullo, anche se la nullità va suffragata dalla prova – a carico del lavoratore e possibile anche con il ricorso a presunzioni (v. Cass. n. 6838/2023 e Cass. n. 23583/2019, in q. sito con nota di K. PUNTILLO) – che l’intento ritorsivo abbia avuto efficacia determinante esclusiva del recesso, anche rispetto ad altri elementi che possono risultare rilevanti per configurare una giusta causa o un giustificato motivo (v. Cass. n. 9468/2019).
Sentenza
Corte di Cassazione – Ordinanza 9 maggio 2023, n. 12244
(Omissis)
Rilevato che
1.G.P. ha agito in giudizio nei confronti della sua datrice di lavoro C. srl per far dichiarare la nullità, l’inefficacia o l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole il 6.4.2018, e per ottenere la condanna della società datoriale al risarcimento del danno biologico.
2. Il Tribunale di Vasto con ordinanza del 3.12.2018 ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e condannato la società, ai sensi dell’art. 8, legge n. 604 del 1966, a riassumere la dipendente oppure a corrisponderle un’indennità liquidata in cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.
3. Il medesimo tribunale, con sentenza n. 2/2020, ha respinto l’opposizione principale della lavoratrice, con cui si chiedeva la declaratoria di nullità o inefficacia del licenziamento, ed anche l’opposizione incidentale della società diretta a far accertare la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
4. La Corte d’appello di L’Aquila, adita dalla sola lavoratrice, ha respinto il reclamo con cui si censurava la sentenza di primo grado per non aver riconosciuto la natura ritorsiva o, in subordine, l’inefficacia del licenziamento, oltre il diritto al risarcimento del danno.
5. La Corte territoriale ha accertato, per quanto ancora rileva: che a seguito della cessione del ramo d’azienda, costituito dal supermercato a cui era addetta la P., i tre soci della società cessionaria avevano deciso di prestare attività lavorativa nel punto vendita, con la conseguenza che la forza lavoro risultava sovradimensionata; che, per far fronte al problema dell’esubero di una unità, avevano chiesto ai tre dipendenti full time (B., C. e P.) la disponibilità alla riduzione dell’orario di lavoro; che il B. aveva opposto un rifiuto mentre la C. si era detta disponibile alla riduzione dell’orario; che la scelta della società di conservare a tempo pieno il B. e la C., in quanto addetti al reparto salumeria, sacrificando la P., addetta al reparto ortofrutta, doveva essere letta non quale intento ritorsivo bensì “nell’alveo di un bilanciamento delle esigenze organizzative, spettante al datore di lavoro”;
che la statuizione di illegittimità del licenziamento per assenza di un giustificato motivo oggettivo, adottata dal tribunale e non impugnata da parte datoriale, doveva essere “intesa nel corretto significato non della inesistenza di qualsivoglia motivo oggettivo […] ma della insufficienza di detto motivo a giustificare il licenziamento”, avendo lo stesso tribunale escluso che ricorresse un motivo illecito determinante; che non risultava provato il carattere ritorsivo del licenziamento; che neppure era fondata la censura di inefficacia per genericità della motivazione.
6. Avverso tale sentenza G.P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, illustrati da memoria. La C. srl ha resistito con controricorso.
Considerato che
7. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione dell’art. 1345 c.c. in relazione all’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015, all’art. 3, legge n. 604 del 1966 e al principio di buona fede, nonché violazione dell’art. 2697 e dell’art. 2909 c.c.
8. Si censura la sentenza d’appello per aver negato la natura ritorsiva del recesso sul presupposto che quest’ultimo trovasse una effettiva ragion d’essere in un motivo oggettivo e che la riduzione dell’orario prospettata alla lavoratrice per evitare il licenziamento costituiva un tentativo di repêchage. Tale argomentare, secondo la ricorrente, viola il giudicato formatosi sulla insussistenza di un giustificato motivo oggettivo e viola l’articolo 8, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015 secondo cui “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. Affinché si possa sostenere che la richiesta di riduzione delle ore di lavoro costituisca un tentativo di repêchage, occorre che il datore di lavoro dimostri l’esistenza di effettive esigenze tecnico-organizzative in base alle quali la prestazione di quel lavoratore non possa essere mantenuta a tempo pieno, onere nella specie non assolto.
9. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. La motivazione sarebbe apparente poiché non spiega in quale senso i fatti addotti dalla società come motivo oggettivo del licenziamento sarebbero esistenti (cioè non inventati) ma insufficienti a giustificare il licenziamento. La motivazione sarebbe inoltre contraddittoria nella parte in cui ha ravvisato nella richiesta di riduzione dell’orario l’assolvimento dell’obbligo di repêchage, pur giudicando insufficiente il motivo oggettivo di licenziamento.
10. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., per motivazione apparente nella parte in cui ha escluso il difetto di specificità dei motivi di licenziamento, senza adeguata valutazione degli stessi e limitandosi a ripetere la giustificazione adottata dalla società a fondamento della decisione di recesso.
11. Con il quarto motivo la medesima censura è formulata quale violazione dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966.
12. Con il quinto motivo si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per aver travisato il significato delle allegazioni, contenute nel ricorso introduttivo di primo grado, sullo svolgimento da parte della lavoratrice della propria attività in due supermercati, quale dipendente della Emme 2 srl, prima della cessione del ramo di azienda alla C. srl, ricavando da esse l’assunto di verosimiglianza della contrazione di lavoro e della impossibilità di mantenere i tre contratti full time.
13. I primi due motivi di ricorso, che si esaminano congiuntamente perché logicamene connessi, non possono trovare accoglimento.
14. Ai sensi dell’art. 8, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 (il cui art. 55 ha abrogato il d.lgs. n. 61 del 2000), “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.
15. La previsione dell’art. 8 cit., se esclude che il rifiuto di trasformazione del rapporto in part time possa costituire di per sé giustificato motivo di licenziamento, non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part time ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere di prova posto a carico di parte datoriale.
16. In tal caso, ai fini del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, occorre che sussistano e che siano dimostrate dal datore di lavoro effettive esigenze economiche ed organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto; l’avvenuta proposta al dipendente o ai dipendenti di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto dei medesimi; l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione dell’orario e il licenziamento (v. Cass. n. 21875 del 2015; v. anche Cass. n. 6229 del 2007).
17. Il rifiuto della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale diventa una componente del più ampio onere di prova del datore, che comprende le ragioni economiche da cui deriva l’impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo pieno e l’offerta del part time rifiutata.
18. Il licenziamento non è intimato a causa del rifiuto ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part time.
19. Ciò non esclude che, in linea generale, il licenziamento possa costituire una ritorsione rispetto al rifiuto di trasformazione del rapporto di lavoro in part time.
20. Secondo i precedenti di legittimità, affinché possa affermarsi la nullità del licenziamento occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), con onere probatorio che ricade sul lavoratore e che può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 6838 del 2023; Cass. n. 23583 del 2019; Cass. n. 9468 del 2019; Cass. n. 26035 del 2018; Cass. n. 20742 del 2018). La mancata prova dell’esistenza del giustificato motivo di recesso addotto da parte datoriale, che è di per sé causa di illegittimità del recesso, può costituire indizio del carattere ritorsivo del licenziamento.
21. Si è ulteriormente precisato che la valutazione, nella concretezza della vicenda storica, dell’esistenza di un motivo ritorsivo, unico e determinante, a base del licenziamento costituisce una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità (Cass. n. 6838 del 2023; Cass. n. 26399 del 2022).
22. Nel caso in esame, la Corte d’appello, premesso che il tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per mancata prova delle ragioni addotte (e che la relativa statuizione non è stata impugnata dalla società), ha escluso che il licenziamento fosse sorretto da un motivo di ritorsivo unico e determinante nei confronti della attuale ricorrente. Ciò sulla base di plurimi elementi, tra cui il comportamento di parte datoriale, avendo accertato che i soci della C. srl, subentrati nella gestione del supermercato, nel corso di una riunione avevano spiegato ai dipendenti full time (in numero di tre) che vi era una unità in esubero e che per evitare il licenziamento sarebbe stata necessaria la riduzione dell’orario di lavoro; che, a fronte del rifiuto del B. e della P., la scelta di licenziare quest’ultima non appariva quale risposta ritorsiva alla mancata adesione alla proposta di part time (rifiutata anche dall’altro dipendente), in assenza di altri dati significativi della volontà datoriale di espulsione di quella dipendente e nonostante l’insufficiente prova del motivo oggettivo posto a base del recesso.
23. Non vi è quindi spazio per ritenete integrata la violazione delle norme di diritto denunciate e neppure ricorre il vizio di motivazione apparente atteso che la decisione d’appello non presenta alcuna delle ipotesi di “anomalia motivazionale” denunciabile in cassazione, come definite dalle S.U. di questa Corte con le sentenze n. 8053 e 8054 del 2014.
24. Il terzo e il quarto motivo di ricorso, con cui si censura la sentenza d’appello per aver escluso, peraltro con motivazione apparente, il difetto di specificità dei motivi di licenziamento, sono inammissibili per difetto di interesse perché ove anche tale vizio (diverso dalla mancanza di forma scritta del licenziamento, che ne determina l‘inefficacia) fosse sussistente, la lavoratrice, in ragione del requisito occupazionale accertato, potrebbe aver diritto unicamente alla tutela obbligatoria di cui all’art. 8, della legge n. 604 del 1966, già riconosciuta dal tribunale a seguito della dichiarata illegittimità del licenziamento. Difatti, “nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1996, come modificato dall’art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, trova applicazione l’art. 8 della medesima legge, in virtù di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche l’art. 18 della l. n. 300 del 1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria” (Cass. n. 17589 del 2016).
25. Il quinto motivo di ricorso è parimenti inammissibile perché ininfluente ai fini del decidere e, comunque, perché denuncia non l’omesso esame di un fatto storico decisivo bensì la erronea lettura delle allegazioni e la valutazione degli elementi di prova, al di fuori del perimetro segnato dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (v. Cass., S.U. n. 8053 e 8054 del 2014 cit.).
26. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
27. La regolazione delle spese segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo, dichiarandosi esistenti i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto (Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.