Il licenziamento è legittimo solo nell’evenienza in cui si superi il periodo di comporto.
Nota a Cass. 27 aprile 2023, n. 11174
Francesco Belmonte
Quando vi sia un collegamento tra il licenziamento e le assenze per malattia del lavoratore le regole dettate dall’art. 2110 c.c. prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e si sostanziano nella regola consistente nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cd. comporto). Nell’ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro, a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce, e del lavoratore, a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento, solo quel superamento è condizione di legittimità del recesso. Lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale, determinato dalle assenze per malattia del lavoratore, infatti, non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In tale linea si è pronunciata la Corte di Cassazione (27 aprile 2023, n. 11174), in relazione ad una fattispecie concernente il licenziamento intimato dalla Tim Telecom Italia s.p.a. ad un lavoratore, in ragione della non proficuità della prestazione, dipesa dalle modalità e dal rilevante numero di assenze per malattia (808 giornate lavorative) nell’arco di sei anni.
La Suprema Corte, a sostengo del suo decisum, richiama quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12568/2018 (in q. sito, con nota di M.N. BETTINI) secondo cui: “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, co. 2, c.c.”.
I giudici di legittimità ribadiscono inoltre la distinzione tra il licenziamento per scarso rendimento e quello per eccesiva morbilità.
In particolare, la prima fattispecie, “è riconducibile ad una ipotesi di recesso per giustificato motivo soggettivo che, per essere legittimo, deve connotarsi di una condotta imputabile al lavoratore la quale, complessivamente valutata e sulla base delle allegazioni e delle prove offerte, evidenzi una violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente e determini una rilevante sproporzione tra gli obiettivi fissati e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione con conseguente grave inadempimento del lavoratore dei compiti a lui affidati” (in questo senso, v. Cass. n. 18678/2014).
La nozione di “scarso rendimento” è “legata ad un inadempimento del lavoratore che abbia carattere notevole e sia a lui imputabile e non piuttosto al dato obiettivo della inidoneità della prestazione al conseguimento degli obiettivi aziendali” (cfr. Cass. n. 7522/2017).
Il licenziamento connesso all’elevata morbilità del lavoratore è qualificabile invece come un particolare tipo di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. “Esso si collega da un lato all’esistenza di una o più malattie e dall’altro al fatto oggettivo del tempo complessivamente trascorso in malattia. È l’esaurimento del periodo di comporto che di per sé giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro. Le norme speciali che regolano il comporto perseguono il fine preservare il rapporto di lavoro durante la malattia del lavoratore impedendo al datore di lavoro di porvi unilateralmente fine per il tempo – predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice – di tollerabilità dell’assenza”.
Per la Corte, l’unica condizione di legittimità del recesso è dunque quel superamento del periodo di comporto, espressione del contemperamento degli interessi confliggenti del datore di lavoro e del lavoratore. “Né un rendimento inadeguato alle esigenze aziendali né un disservizio cagionato dalle assenze per malattia del lavoratore possono legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di quel lavoratore prima che sia stato superato il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro espressione di un bilanciamento degli opposti interessi coinvolti” (in tema, v. anche App. Milano 24 giugno 2020, n. 462, in q. sito, con nota di F. DURVAL e K. PUNTILLO).
Sentenza
Corte di Cassazione – Sentenza 27 aprile 2023, n. 11174
(Omissis)
Fatti di causa
1.G.M. impugnò il licenziamento intimatogli dalla datrice di lavoro T.T.I. s.p.a. in data 14.1.2015, all’esito della procedura dinnanzi alla Direzione Territoriale del lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966, per la non proficuità della prestazione lavorativa resa dal dipendente in considerazione delle modalità e del rilevante numero delle assenze realizzate nell’arco temporale dal 1° giugno 2008 al 31.10.2014 per complessive 808 giornate lavorative. Chiese che ne venisse accertata l’illegittimità con conseguente condanna della società a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a risarcire il danno.
2.Il Tribunale di Milano, con l’ordinanza resa ex art. 1 co. 41 legge n. 92/2012, accolse in parte il ricorso, accertò la illegittimità del licenziamento e, dichiarato risolto il rapporto di lavoro tra le parti a far data dal 14.1.2015, condannò la società datrice al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Lo stesso Tribunale poi respinse l’opposizione proposta dal M. e dichiarò inammissibile quella incidentale della società.
3.La Corte di appello di Milano, nel decidere sui reclami di entrambe le parti, in riforma della sentenza del Tribunale, annullò il licenziamento e condannò la datrice di lavoro T.I. spa a reintegrare il M. ed a corrispondergli una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione oltre accessori dovuti per legge.
4. Con sentenza n. 15757 del 2019 la Cassazione accolse il primo motivo del ricorso proposto dalla T.I. s.p.a. e cassò la sentenza di appello che aveva ritenuto inammissibile l’opposizione incidentale tardiva della società osservando che, in caso di soccombenza reciproca nella fase sommaria e di opposizione proposta da una sola delle due parti è comunque consentito all’opposta di riproporre, con la memoria difensiva, le domande e le eccezioni che non erano state accolte e ciò anche dopo la scadenza del termine per la proposizione dell’opposizione. La Corte chiarì che nella fase di opposizione, che non ha natura impugnatoria, si determina la espansione del giudizio che si svolge davanti al giudice di primo grado con cognizione piena. Conseguentemente la Corte di Cassazione ritenne assorbiti gli altri motivi di ricorso rimessi all’esame del giudice di merito insieme alle questioni ritenute inammissibili.
5. Il giudizio è stato riassunto davanti alla Corte di appello che in sede di rinvio ha accertato che il licenziamento era stato intimato al lavoratore in relazione alle sue numerose assenze per malattia. Che si trattava quindi di un recesso da ricondurre ad un giustificato motivo oggettivo, atteso che la condotta tenuta dal lavoratore era lecita e priva di colpa. Ha quindi accertato che nello specifico non era stato superato il periodo di comporto, limite oltre il quale il danno si presume come apprezzabile, ed ha ritenuto che le assenze per malattia non potessero essere rilevanti ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro.
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la TIM – T.I. s.p.a. affidato a due motivi. G.M. ha resistito con tempestivo controricorso. Il Procuratore Generale ha concluso, ai sensi dell’art. 23 comma 8 bis del d.l. 28 ottobre 2020 n. 137 convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020 n. 176, chiedendo la reiezione del ricorso. La ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
7. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966 e dell’art. 2697 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 c.p.c., per avere la Corte del rinvio errato nel non ammettere le istanze istruttorie, articolate dal datore in tutte le fasi e i gradi del giudizio, finalizzate a dimostrare le gravi criticità e la non proficuità di una prestazione intermittente e saltuaria.
7.1. Sostiene la ricorrente che la prova avrebbe dovuto essere ammessa poiché, diversamente, assecondando l’impostazione seguita della Corte territoriale che ha ritenuto rilevanti ai fini dell’intimazione del licenziamento solo le assenze che culminano nel superamento del periodo di comporto, in nessun caso sarebbe possibile procedere al licenziamento prima, anche laddove risulti dimostrato che la prestazione come resa non sia compatibile con la specificità dell’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il suo regolare funzionamento.
7.2. Deduce che la fattispecie delineata sarebbe diversa da quella prevista per il comporto ai sensi dell’art. 2110 c.c. e ricadrebbe, più in generale, nell’ipotesi di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966 rispetto alla quale T. si era offerta di provare, anche per testi oltre che documentalmente, la scarsa utilità della prestazione e le gravi criticità connesse al fatto che essa era resa in maniera intermittente con impossibilità, per effetto delle assenze, di formare proficuamente il lavoratore in modo tale da fargli raggiungere i livelli standard necessari ed ottenibili. In definitiva ritiene che la mancata ammissione delle prove si riverbererebbe in una violazione del riparto degli oneri probatori.
8. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 c.c. e dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 oltre che dell’art. 41 Cost. e si sostiene che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che il licenziamento intimato al M. fosse riconducibile all’ipotesi prevista dall’art. 2110 c.c.
8.1. La società ricorrente insiste nel ribadire che una cosa è il licenziamento per superamento del periodo di comporto, in relazione al quale il datore di lavoro può recedere provando solo il protrarsi dell’assenza per malattia oltre il massimo consentito; altra cosa è invece il licenziamento intimato a cagione di ragioni oggettive integrate dal modo, dal tempo e dalla durata delle assenze che finiscano per incidere apprezzabilmente sulla prestazione del lavoratore rendendola inutilizzabile o comunque non utile a prescindere dall’avvenuto superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro in relazione alla malattia. Osserva che la malattia viene in rilievo solo come circostanza materiale di ostacolo alla normale funzionalità dell’azienda. Deduce che nella sostanza ciò che rileva, in disparte il titolo dell’assenza, è la circostanza della non proficuità della prestazione anche nel periodo in cui è stata resa.
9. Le censure da esaminare congiuntamente non possono essere accolte.
9.1. Secondo il costante insegnamento di questa Corte, dal quale non vi è ragione di discostarsi, quando, come nel caso in esame, vi sia un collegamento tra il licenziamento e le assenze per malattia del lavoratore le regole dettate dall’art. 2110 c.c. del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e si sostanziano nella regola consistente nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cd. comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice. Nell’ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro, a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce, e del lavoratore, a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento, solo quel superamento è condizione di legittimità del recesso. Lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale, determinato dalle assenze per malattia del lavoratore, infatti, non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cfr. Cass. 07/12/2018 n. 31763).
9.2. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c. (Cass., SU, 22/05/2018, n. 12568)
9.3. La suggestiva lettura degli istituti prospettata dalla ricorrente – la quale ritiene che nel caso di specie la malattia rilevi solo come circostanza materiale e che, in disparte la giustificatezza dell’assenze, queste per i modi e per i tempi in cui si sono verificate avrebbero creato un disservizio tale da rendere non utile la prestazione a prescindere dal superamento del comporto – si pone in contrasto con i principi su ricordati ai quali, invece, il Collegio intende dare continuità.
9.4. Va qui ribadito che il licenziamento per scarso rendimento è riconducibile ad una ipotesi di recesso per giustificato motivo soggettivo che, per essere legittimo, deve connotarsi di una condotta imputabile al lavoratore la quale, complessivamente valutata e sulla base delle allegazioni e delle prove offerte, evidenzi una violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente e determini una rilevante sproporzione tra gli obiettivi fissati e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione con conseguente grave inadempimento del lavoratore dei compiti a lui affidati (in questo senso proprio la sentenza richiamata dalla società ricorrente: Cass. 04/09/2014 n. 18678). La nozione di «scarso rendimento» è legata ad un inadempimento del lavoratore che abbia carattere notevole e sia a lui imputabile e non piuttosto al dato obiettivo della inidoneità della prestazione al conseguimento degli obiettivi aziendali (cfr. Cass. n. 7522 del 2017 con riguardo ad una fattispecie disciplinata dal R.D. n. 148 del 1931).
9.5. Il licenziamento connesso all’elevata morbilità del lavoratore è qualificabile invece come un particolare tipo di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Esso si collega da un lato all’esistenza di una o più malattie e dall’altro al fatto oggettivo del tempo complessivamente trascorso in malattia. È l’esaurimento del periodo di comporto che di per sé giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro. Le norme speciali che regolano il comporto perseguono il fine preservare il rapporto di lavoro durante la malattia del lavoratore impedendo al datore di lavoro di porvi unilateralmente fine per il tempo – predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice – di tollerabilità dell’assenza.
9.6. L’unica condizione di legittimità del recesso è dunque quel superamento del periodo di comporto, espressione del contemperamento degli interessi confliggenti del datore di lavoro e del lavoratore. Né un rendimento inadeguato alle esigenze aziendali né un disservizio cagionato dalle assenze per malattia del lavoratore possono legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di quel lavoratore prima che sia stato superato il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro espressione di un bilanciamento degli opposti interessi coinvolti.
9.7. Non può essere ragionevolmente invocato il principio della insindacabilità da parte del giudice delle scelte organizzative dell’imprenditore che abbia valutato non utile la prestazione sul rilievo che l’unico controllo possibile sarebbe quello sulla effettività delle ragioni che l’hanno determinata. Il potere organizzativo del datore di lavoro comprende certamente la predisposizione di regole finalizzate ad una migliore efficienza dell’attività produttiva in relazione agli obiettivi economici da perseguire, espressione della libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost., ma non può prescindere da un equo bilanciamento con il diritto del lavoratore alla tutela della sua salute ai sensi dell’art. 32 Cost. ed al lavoro ex art. 4 comma 1 Cost. da conservare per un periodo di tempo ragionevole stabilito dalla legge, dal contratto, dagli usi o in via equitativa dal giudice. Un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce e del lavoratore a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento.
9.8. Così ricostruito il contesto in cui valutare l’odierna fattispecie, ritiene il Collegio che la Corte del rinvio non sia affatto incorsa nelle violazioni di legge denunciate, abbia correttamente qualificato il licenziamento e, del pari correttamente, abbia ritenuto di non dover dare ingresso a prove tendenti a verificare la scarsa utilità della prestazione per come resa a cagione della malattia. Il mancato superamento del periodo di comporto esclude in sé la legittimità del recesso intimato proprio a cagione delle frequenti e ripetute assenze dovute a malattia ed in tale prospettiva non rileva in che modo l’alternarsi della malattia ai periodi di presenza sul lavoro abbia potuto incidere sull’efficienza dell’organizzazione datoriale e sui risultati da conseguire.
10. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio vanno poste a carico della società soccombente nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.