È legittima la delibera della P.A. che vieta alla lavoratrice in gravidanza di prendere servizio.
Nota a Cass. (ord.) 13 giugno 2023, n. 16785
Fabrizio Girolami
Nel caso in cui sia stipulato un contratto di assunzione a tempo determinato tra una A.S.L. (Pubblica Amministrazione in senso stretto) e la lavoratrice e quest’ultima, immediatamente dopo la stipula, comunichi il proprio stato di gravidanza, è legittima la comunicazione con cui la medesima A.S.L. vieti alla lavoratrice di prendere servizio, stante il divieto di cui all’art. 7, D.Lgs. n. 151/2001 (Allegato A punto L), senza che venga in rilievo alcuna questione di disparità di trattamento tra generi o su interferenze rispetto al diritto della gestante, a tutela delle proprie chances lavorative. Ciò in quanto quelle condizioni di fatto rilevano come dato obiettivo e impeditivo per legge, con la forza del divieto, dell’instaurazione di un valido rapporto, i cui difetti genetici lo rendono nullo di pieno diritto.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 16785 del 13 giugno 2023, in relazione alla vicenda di una lavoratrice con mansioni di medico psichiatra, assunta da una Azienda Sanitaria Locale (A.S.L.) con contratto di lavoro a tempo determinato per la sostituzione di un medico assente nel reparto di psichiatria (previa apposita Determinazione dirigenziale di nomina), la quale, dopo una settimana dalla stipula del contratto, aveva comunicato alla A.S.L. datrice di lavoro il sopravvenuto stato di gravidanza. A seguito di tale comunicazione, il Direttore Risorse Umane aveva dapprima comunicato alla lavoratrice che essa non avrebbe dovuto prendere servizio il giorno iniziale stabilito nel contratto, perché lo stato di gravidanza impediva di farlo, stante il divieto di cui all’art. 7, D.Lgs. n. 151/2011. Successivamente, l’A.S.L. aveva disposto l’annullamento della Determina dirigenziale di nomina della lavoratrice (e del correlato contratto di lavoro a tempo determinato) in ragione della sopravvenuta inidoneità della stessa all’espletamento delle mansioni lavorative.
La lavoratrice aveva agito dapprima dinanzi al Tribunale di Tivoli e poi alla Corte d’Appello di Roma, chiedendo l’annullamento della delibera adottata dalla A.S.L. (da qualificarsi, a suo modo di vedere, come vero e proprio “licenziamento”) con reintegra nel posto di lavoro e, in subordine, comunque, l’accertamento della sua illegittimità, con immediata riammissione in servizio e condanna alle retribuzioni non percepite, ottenendo in entrambi i gradi di giudizio il rigetto della domanda.
La Cassazione ha rigettato il ricorso della lavoratrice (confermando la sentenza impugnata), affermando quanto segue:
- il nostro ordinamento prevede il divieto, durante la gravidanza, dell’assegnazione a certe mansioni, a tutela della gestante e del feto (art. 7, D.Lgs. n. 151/2001). Tra queste mansioni rientrano quelle di “assistenza e cura degli infermi nei sanatori e nei reparti… per malattia nervose e mentali” e ciò “durante la gestazione e per i setti mesi dopo il parto” (art. 7, All. A, lett. L);
- a fronte di un contratto a termine per esigenze sostitutive di uno specifico lavoratore, su un incarico con tratti di spiccata professionalità quale quello di psichiatra “non può esservi luogo a ragionare in termini di allocazione altrove della gestante che sia stata assunta a tempo determinato e proprio e solo per quello specifico fine”;
- l’incarico assegnato alla lavoratrice era “un incarico infungibile”, sicché non si poteva rimediare spostandola “ad altro incarico e adibendo un altro lavoratore già in forza a quelle funzioni, ma si sarebbe dovuto ricorrere ad una reiterazione del medesimo contratto con altro sostituto”;
- il ricorrere fin dal primo giorno di lavoro di un impedimento, connesso a un divieto normativo, destinato a perdurare per tutta la durata del rapporto, determina un vizio originario e radicale del contratto, per l’impossibilità giuridica (dell’oggetto) e l’illiceità (della causa), di attuare il programma negoziale in esso incorporato. Tale vizio determina la “nullità” del contratto a termine ai sensi dell’art. 1418, co. 2, c.c.;
- stante la nullità di natura oggettiva, la ASL ha correttamente impedito l’inizio del rapporto di lavoro con la lavoratrice in gravidanza, rifiutando l’attuazione del contratto.
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Sentenza
Corte di Cassazione Ordinanza 13 giugno 2023 n. 16785
(Omissis)
RILEVATO CHE:
1.(OMISSIS), medico psichiatra, in data 31.1.2012 è stata individuata dalla ASL (OMISSIS) (ora Azienda USL (OMISSIS), di seguito AUSL) quale destinataria di contratto a tempo determinato con apposita determinazione dirigenziale in pari data, seguita lo stesso giorno dalla sottoscrizione del contratto, in cui si dava atto dell’avvenuta favorevole sottoposizione della medesima alla visita di idoneità all’impiego, il tutto per il servizio da svolgere presso il OMISSIS), in sostituzione di medico assente e ciò dal (OMISSIS) al (OMISSIS) e comunque non oltre la data di rientro del titolare;
successivamente, in data 8.2.2012, la (OMISSIS) aveva palesato all’Azienda il proprio stato di gravidanza, a seguito di ultima mestruazione del (OMISSIS);
in esito a confronti e contestazioni tra le parti, il Direttore delle Risorse Umane aveva dapprima comunicato alla (OMISSIS) che essa non avrebbe dovuto prendere servizio il giorno iniziale stabilito nel contratto, perché lo stato di gravidanza impediva di farlo, stante il divieto di cui al Decreto Legislativo n. 151 del 2011, articolo 7 Allegato A punto L;
in data (OMISSIS) la AUSL ha quindi disposto l’annullamento della Det. Dirig. di nomina della (OMISSIS) e del conseguente contratto di lavoro in ragione della inidoneità della stessa alle mansioni;
2. la (OMISSIS) ha agito giudizialmente chiedendo, in primis, previa qualificazione come licenziamento della risoluzione posta in essere dalla AUSL, l’annullamento dello stesso con reintegra e con le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 18 e, in subordine, comunque, l’accertamento dell’illegittimità’ della delibera posta in essere in autotutela dalla AUSL, con immediata riammissione in servizio e condanna alle retribuzioni non percepite;
3. la domanda è stata disattesa in primo grado e la pronuncia del Tribunale di Tivoli ha trovato conferma attraverso la reiezione, da parte della Corte d’Appello di Roma, del gravame interposto dalla (OMISSIS);
4. la Corte d’Appello ha ritenuto che nel caso di specie si fosse avuto un legittimo esercizio di autotutela da parte della P.A. rispetto alla delibera di conferimento dell’incarico, rimarcando come le ragioni poste a base dell’annullamento di essa e del conseguente contratto di lavoro fossero risultate anche in concreto sussistenti, stante il disposto dell’articolo 7, All. A, lettera L cit. che avrebbe impedito lo svolgimento delle mansioni di assunzione per l’intero periodo di lavoro, senza contare il fatto che il comportamento del medico aveva tratto in errore la controparte, avendo fatto riferimento, in sede di visita, alla regolarità del ciclo mestruale, nonostante il risalire dell’ultima mestruazione a più di tre mesi prima ed avendo in sostanza celato lo stato di gravidanza;
5. (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, poi illustrati da memoria e resistiti dalla AUSL.
CONSIDERATO CHE:
1.il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione (articolo 360 c.p.c., n. 3) del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 5 e con esso si sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la P.A. potesse sottrarsi unilateralmente, in via di autotutela, all’osservanza del rapporto di lavoro esistente per effetto del contratto stipulato, non potendosi ritenere ammissibile che quest’ultimo venisse risolto sulla base dell’annullamento della fase c.d. pubblicistica di individuazione del contraente o che l’autotutela pubblicistica potesse costituire un espediente per raggiungere un tal scopo;
il secondo motivo è indirizzato a censurare la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione (articolo 360 c.p.c., n. 3) del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 63 e dell’articolo 1418 c.c.;
la ricorrente argomenta, per un verso, sul disposto dell’articolo 63 cit., nella parte in cui stabilisce che, in caso di assunzione avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, la sentenza del giudice abbia effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro, dal che dovrebbe desumersi la necessità della pronuncia giudiziale per l’assicurazione dei predetti effetti, che dunque non potrebbero conseguire automaticamente in ragione dell’accertamento dell’illegittimità della scelta pubblica, dovendosi affermare che il legislatore abbia inteso volutamente escludere un tal effetto automatico e che la patologia del contratto, in tali casi sarebbe non la nullità, ma l’annullabilità;
il ragionamento è poi condotto richiamando anche la disciplina del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55-quater il quale, in caso di falsità documentali o dichiarative, commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro, stabilisce che la sanzione sia quella del licenziamento, a riprova della necessità, in tali casi, comunque di un atto di recesso, non bastando ritenere sufficiente che la P.A. possa considerare tout court come mai sorto il vincolo;
infine, con riferimento all’articolo 1418 c.c., la ricorrente fa leva sul fatto che l’ordinamento regola esplicitamente svariate ipotesi di nullità di contratti di lavoro stipulati dalla P.A., ai sensi del secondo (rectius, terzo) comma della citata disposizione codicistica, il che sarebbe non comprensibile se, per svincolare la P.A. dalle corrispondenti pattuizioni bastasse già l’articolo 1418 c.c., comma 1;
il terzo motivo fa ancora riferimento all’articolo 1418 c.c., in relazione al Decreto Legislativo n. 198 del 2006, articolo 1 ed al Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 7di cui nel complesso sostiene la violazione e falsa applicazione (articolo 360 c.p.c., n. 3), affermando che un contratto con un lavoratore che, al momento della sua sottoscrizione, non avesse più i requisiti per svolgere l’incarico di dirigente medico per il solo fatto di trovarsi in gravidanza, non avrebbe potuto essere considerato nullo, determinandosi altrimenti una palese discriminazione di genere, stante il fatto che un uomo non si troverebbe mai in una condizione analoga, con violazione anche del principio di pari opportunità di accesso al mondo del lavoro (Decreto Legislativo n. 198 del 2006, articolo 1), erroneamente altresì essendosi ritenuta l’ostatività della condizione di gravidanza con il lavoro, in quanto l’articolo 7 cit. prevedeva semmai l’allocazione in altre mansioni;
il quarto ed ultimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione (articolo 360 c.p.c., n. 3) del Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 54, comma 3, lettera A sul presupposto che la decisione assunta dalla Corte territoriale avrebbe finito per aggirare il divieto di licenziamento previsto da tale norma per il caso in cui il lavoratore avesse omesso di rendere noto al proprio datore di lavoro il proprio particolare stato, ipotesi che, per giurisprudenza di questa S.C. non potrebbe integrare una giusta causa di risoluzione;
2. i motivi, da esaminare congiuntamente secondo la loro connessione logica, sono infondati;
2.1 il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 63, comma 2, prevede in effetti che se l’assunzione sia avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, le sentenze del giudice ordinario hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro;
tale norma non può tuttavia essere intesa nel senso di escludere le comuni regole riguardanti la nullità dei rapporti di lavoro, quando esistente, la quale, stante la sottoposizione al diritto privato comune, mantiene le proprie caratteristiche di invalidità destinata ad operare di diritto e senza necessità di pronuncia costitutiva, sicché in tali casi la statuizione ha natura meramente dichiarativa e la parte, anche prima ed al di fuori del giudizio, ha diritto a rifiutare l’esecuzione del contratto nullo;
la norma va dunque intesa, in linea con i principi e tenendo conto del fine da essa perseguito di coordinare i poteri del giudice ordinario nei riguardi di atti e comportamenti comunque riferibili, dal punto di vista soggettivo, ad una Pubblica Amministratine, nel senso di attestare la possibilità di emettere, qualora si renda necessaria, anche una pronuncia costitutiva nei confronti dell’ente pubblico non economico, così evitandosi ogni dubbio di interferenza della disciplina di cui alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, escluso dall’espresso riconoscimento del possibile esercizio di tali poteri rispetto ai rapporti contrattuali instaurati;
ciò evidentemente non significa però che, se non vi sia necessità di pronuncia costitutiva, non valgano gli ordinari principi sulla natura del vizio invalidante e pertanto, rispetto alla nullità, valgono le comuni regole sull’operatività di pieno diritto e sulla portata di mero accertamento della pronuncia giudiziale;
2.2 quanto alle modalità di individuazione dei vizi di nullità dei contratti di lavoro con la P.A., non vi è poi alcuna contraddizione tra le previsioni legali speciali che sanciscono un tale effetto e l’articolo 1418 c.p.c., comma 1, in quanto semmai quelle previsioni speciali sono tali da sollevare l’interprete dall’onere di individuare l’imperatività cui l’articolo 1418 c.c., comma 1 riconnette la sanzione di nullità;
ma non è poi neppure quello il punto, perché nel caso di specie quella emersa non è una nullità “speciale”, ma è ipotesi riportabile, come si dirà, all’articolo 1418 c.c., comma 2.
2.3. in proposito, va intanto richiamato quanto già chiarito da questa S.C. rispetto al disposto del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55-quater, lettera d), nel senso che l’assunzione sulla base di dati non veridici è causa di decadenza, con conseguente nullità del contratto, allorquando ciò comporti la carenza di un requisito che avrebbe in ogni caso impedito l’instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A, mentre è solo nelle altre ipotesi che le produzioni o dichiarazioni false effettuate in occasione o ai fini dell’assunzione possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il licenziamento, ai sensi del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55-quater, lettera d), in esito al relativo procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti (Cass. 11 luglio 2019, n. 18699);
2.3.1 non vi è dunque a parlale di licenziamento o recesso datoriale, se il rapporto sia viziato ab origine da un vizio di nullità ed in tali casi, l’atto con il quale l’amministrazione revochi un’assunzione o un incarico “equivale alla condotta del contraente che non osservi il contratto stipulato ritenendolo inefficace perché affetto da nullità, trattandosi di un comportamento con cui si fa valere l’assenza di un vincolo contrattuale” (Cass. 18699 cit; Cass. 8 gennaio 2019, n. 194; Cass. 1°ottobre 2015, n. 19626; Cass. 8 aprile 2010, n. 8328), ovverosia, secondo un più risalente ma pur sempre valido precedente, la decadenza in questi casi va apprezzata “semplicemente in termini di rifiuto dell’amministrazione scolastica di continuare a dare esecuzione al rapporto di lavoro a causa della nullità del contratto per violazione di norma imperativa” (Cass. 5 giugno 2006, n. 13150);
2.4 l’inquadramento del vizio, in questo caso, sulla base degli accertamenti di fatto svolti dalla Corte territoriale e previa parziale integrazione dell’argomentazione giuridica da essa svolta, va svolto muovendo dal dato normativo per cui vi è divieto durante la gravidanza all’assegnazione a certe mansioni (Decreto Legislativo n. 151 del 2000, articolo 7), a tutela della gestante e del feto;
tra queste mansioni rientra quelle di “assistenza e cura degli infermi nei sanatori e nei reparti… per malattia nervose e mentali” e ciò “durante la gestazione e per i setti mesi dopo il parto” (All. A, all’articolo 7, lettera L);
a ciò va associata la considerazione, sempre svolta dalla Corte di merito, per cui quel divieto sarebbe stato tale da coprire l’intero periodo del rapporto a termine per esigenze sostitutive instaurato; è chiaro che, a fronte di un contratto a termine per esigenze sostitutive di uno specifico lavoratore, su un incarico con tratti di spiccata professionalità quale è uno psichiatra, non può esservi luogo a ragionare in termini di allocazione altrove della gestante che sia stata assunta a tempo determinato e proprio e solo per quello specifico fine;
quello per cui vi era stata l’assunzione era chiaramente un incarico infungibile, sicche’ non si poteva rimediare spostando la (OMISSIS) ad altro incarico e adibendo un altro lavoratore già in forza a quelle funzioni, ma si sarebbe dovuto ricorrere ad una reiterazione del medesimo contratto con altro sostituto, il che significherebbe piena vanificazione del programma negoziale, inevitabilmente rigido data la natura dell’incarico;
il ricorrere fin dal primo giorno di lavoro di quell’impedimento e divieto, destinato a perdurare per tutta la durata del rapporto, porta a ravvisare nell’accaduto un difetto originario e radicale del contratto, impossibilitato ad essere attuato, secondo il programma negoziale in esso incorporato, per tutta la sua durata;
la fattispecie di pone all’intersezione tra l’ipotesi di una sostanziale impossibilità giuridica dell’oggetto (la prestazione resa non poteva infatti essere resa) ed al contempo di una illiceità della causa in concreto (perché l’attuazione di quello scambio si sarebbe posta in contrasto con il divieto di legge), in ogni caso ipotesi tutte destinate ad integrare la nullità ai sensi dell’articolo 1418 c.c., comma 2;
impossibilità giuridica ed illiceità della causa che operano – si badi bene – in forza di ragioni di tutela inderogabile che va ben oltre la persona del lavoratore, estendendosi, a tutela rafforzata anche del neonato, fino al settimo mese dopo il parto e dunque al di là delle ordinarie regole di astensione obbligatoria dal rapporto di lavoro;
a fronte di tale nullità la P.A. ha giustamente ritenuto di non far iniziare il lavoro e poi di rifiutare l’attuazione del contratto, per i medesimi principi sopra riepilogati al punto 2.3.1;
2.5 il ragionamento qui non ruota attorno ad un vizio del consenso datoriale, che presupporrebbe un obbligo della gestante di denunciare la propria condizione e che potrebbe comportare una disparità di trattamento tra generi, secondo quanto già ritenuto da questa S.C. nell’escludere “un siffatto obbligo di informazione – che, peraltro, non può essere desunto dai canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. o da altri generali principi dell’ordinamento”, in quanto esso “finirebbe per rendere inefficace la tutela della lavoratrice madre ed ostacolerebbe la piena attuazione del principio di parità di trattamento, garantito costituzionalmente e riaffermato anche dalla normativa comunitaria (Direttive CEE n. 76/207 e 92/85)” (v. Cass. 6 luglio 2002 n. 9864)”;
è poi vero che, secondo Corte Giustizia 4 ottobre 2001, Tele Danmark, “il licenziamento di una lavoratrice a motivo del suo stato interessante costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso, quali che siano la natura e l’estensione del danno economico subito dal datore di lavoro a causa dell’assenza legata alla gravidanza” e che “la circostanza che il contratto di lavoro sia stato concluso per una durata determinata o indeterminata non incide sul carattere discriminatorio del licenziamento”, stante il fatto che “in entrambi i casi, l’incapacità della dipendente ad adempiere il contratto di lavoro è dovuta alla gravidanza”;
entrambe le predette statuizioni non si attagliano tuttavia al caso di specie, perché ciò che in questo caso rileva, nel convergere del divieto e dell’estendersi di esso a tutta la durata del rapporto quale specificamente voluta e calibrata rispetto all’assenza del medico da sostituire, non è la conoscenza che il datore di lavoro avesse o meno di quella condizione della puerpera, ma il fatto obiettivo che il regolamento negoziale, su quella base di fato, non potesse proprio trovare attuazione e fosse anzi vietato dalla legge;
ogni questione su disparità di trattamento tra generi o su interferenze rispetto al diritto della gestante, a tutela delle proprie chances, di non rilevare la propria condizione al momento dell’assunzione non hanno dunque rilievo, in quanto quelle condizioni di fatto nel caso di specie rilevano come dato obiettivo e impeditivo per legge, con la forza del divieto, dell’instaurazione di un valido rapporto, i cui difetti genetici lo rendono nullo di pieno diritto;
per analoghe ragioni è mal posto il richiamo al divieto di licenziamento (Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 54) o alla valorizzazione di profili di colpa della gestante (comma 3, lettera a della norma), proprio perché qui non di licenziamento si tratta, come sopra spiegato, ne’ a fondare la decisione stanno addebiti mossi nei riguardi della (OMISSIS), ma solo i dati obiettivi da cui deriva la nullità del rapporto;
3. il ricorso va dunque rigettato e le spese del grado restano regolate secondo soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del cit. articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.