Negato il risarcimento del danno differenziale da malattia professionale qualora manchi il nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia contratta. Onere della prova per le misure di sicurezza c.d. nominate e per quelle c.d. innominate.
Nota a Cass. (ord.) 21 luglio 2023, n. 21955
Giuseppe Rossini
“Il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito, a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione prevista dall’art. 1218 c.c.”.
Così si esprime la Corte di Cassazione (ord. 21 luglio 2023, n. 21955) dichiarando inammissibile il ricorso di un lavoratore infortunatosi che richiedeva il risarcimento del danno differenziale da malattia professionale ed escludendo, in linea con i giudici territoriali, l’esistenza di alcun nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia contratta. Nello specifico, i giudici hanno precisato che:
a) nell’ipotesi di omissione di misure di sicurezza cd. nominate espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore;
b) diversamente, nel caso in cui le misure di sicurezza siano “innominate” dovendo essere ricavate dall’art. 2087 c.c., “la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione” delle suddette misure di sicurezza, “imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione” (v. Cass. n. 10319/2017; Cass. n. 8855/2013). Più specificamente, sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute incombe l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra (Cass. n. 28516/2019, in q. sito con nota di S. GIOIA e Cass. n. 26495/2018).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 luglio 2023, n. 21955
Considerato che
1.La Corte d’appello di Messina ha accolto l’appello delle società E. s.p.a., R.M. s.c.p.a. e S. s.r.l. e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda originariamente proposta da S.S. e volta ad ottenere il risarcimento del danno differenziale da malattia professionale contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa di tubista carpentiere dal 28.1.1963 al 2006, alle dipendenze di diverse società appaltatrici; nel contraddittorio anche con R. spa, S.C.A. Cooperativa arl, A.E.L., E.I.L. e G.A. s.p.a.
2. La Corte territoriale, riportate le considerazioni dei consulenti medico legali sulla patologia che ha causato il decesso del lavoratore e sui relativi fattori di rischio, ha ritenuto che i dati raccolti non dimostrassero l’esposizione del lavoratore a specifici agenti chimici, il tempo e le modalità di tale esposizione e che, pertanto, non potesse individuarsi un rapporto di causalità tra l’attività lavorativa svolta dal predetto e la patologia che ne aveva causato il decesso.
3. Avverso tale sentenza gli eredi di S.S. hanno proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. E.s.p.a., R.M. s.c.p.a., R. s.p.a. e G.I. s.p.a. hanno resistito con distinti controricorsi. Le altre parti sono rimaste intimate.
4. E.s.p.a. e la S.C.A. s.p.a. (già S.C.A. Cooperativa) hanno depositato memorie, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c.
5. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Rilevato che
6. Con l’unico motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., violazione ed errata applicazione degli artt. 116 e 132 c.p.c., in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., all’art. 2087 c.c., all’art. 7, d.lgs. 626 del 1994, ora art. 26, d.lgs. 81 del 2008, all’art. 3 d.P.R. 1124 del 1965, nonché per violazione degli artt. 2, 32 e 35 Cost.
7. Si censura la sentenza d’appello per avere negato l’esistenza di un nesso causale tra l’attività prestata dal lavoratore deceduto e la patologia contratta, senza osservare il criterio civilistico di ragionevole e adeguata probabilità, e sebbene tale nesso di causalità fosse stato riconosciuto dal Tribunale sulla scorta di prove decisive e delle risultanze della c.t.u. medico-legale; si sostiene che debba riconoscersi il nesso causale in presenza di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie in assenza di concause addebitabili all’infortunato e nella conclamata e non contestata assenza di avvedutezza comportamentale di parte datoriale. Si critica la decisione impugnata per non avere valutato il dato, oggettivo e non contestato, dell’esposizione del lavoratore, per circa un ventennio, ad amianto, alle ammine a agli IPA presenti in Raffineria (come risultante dagli allegati 134 e 136 della Raffineria) nonché la sussistenza di altri fattori idonei a favorire l’azione dannosa di tali sostanze nocive o di aggravarne gli effetti; per non avere, inoltre, tenuto conto degli studi ambientali sulla popolazione di Milazzo, che hanno evidenziato una maggiore evidenza statistica del tumore alla vescica rispetto ad altre aree territoriali e l’assenza nel caso in esame di altri fattori di rischio o concause del tumore alla vescica come il fumo di sigaretta, l’abuso di alcolici o di analgesici, l’esposizione a veleni.
8. Il motivo di ricorso è inammissibile.
9. Come è noto, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito, a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione prevista dall’art. 1218 c.c. In particolare, nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, cd. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall’art. 2087 c.c., cd. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione (Cass. 19 luglio 2007, n. 16003; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319). E più specificamente, al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute incombe l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra (Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26495; Cass. 6 novembre 2019, n. 28516).
10.Nel caso di specie, la Corte d’appello ha esattamente applicato i principi di diritto regolanti la materia e il criterio causale proprio del giudizio civile, ispirato alla regola di preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non” (Cass. 3 gennaio 2017, n. 47; Cass. 27 settembre 2018, n. 23197).
11.In base a tale criterio e in esito ad un accertamento fondato sulla critica e argomentata valutazione delle risultanze istruttorie complessivamente acquisite, essa ha escluso l’esistenza di alcun nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia contratta.
12.Non vi è spazio per configurare le violazioni di norme di legge denunciate, non essendo stata in realtà censurata l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle disposizioni di legge indicate nel motivo né dedotta la falsa applicazione della legge, che consiste nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice (v. Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851); trattandosi piuttosto di allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione che integri violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155) oppure nei ristretti limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui non ricorrenti, nessuno dei quali nella specie rispettato.
13.Le censure mosse si risolvono, nella sostanza, in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali, insindacabili in sede di legittimità (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. s.u. 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987), siccome esclusivamente spettanti al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione.
14.Per le ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
15. La regolazione delle spese del giudizio nei confronti delle parti controricorrenti segue il regime di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535). Non si provvede sulle spese nei confronti delle parti rimaste intimate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida, in favore di ciascuna controricorrente, in euro 4.000,00 per compensi professionali, in € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, con distrazione in favore dell’avv. D.D.L., difensore della R. spa, antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.