Il licenziamento del lavoratore che in scritti difensivi utilizzi nei confronti del datore di lavoro espressioni offensive purché inerenti l’oggetto della causa è illegittimo.
Nota a Cass. 11 luglio 2023, n. 19621
Pamela Coti
Non integra una giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore che attribuisca al proprio datore di lavoro, in uno scritto difensivo, atti o fatti, pur non rispondenti al vero, che riguardino in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia e ciò quandanche in tale scritto siano riportate espressioni sconvenienti od offensive che sono invece soggette a cancellazione e possono dar luogo a risarcimento ai sensi dell’art. 89 c.p.c.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione 11 luglio 2023, n. 19621 in relazione al caso di un dipendente di una società licenziato in tronco perché in un giudizio da lui promosso nei confronti della datrice di lavoro aveva usato in scritti difensivi, per sostenere le proprie tesi, espressioni di aspra critica, con l’attribuzione di fatti costituenti in astratto reato.
Al riguardo la Corte ha precisato che:
- “l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro deve rispettare i limiti di continenza formale, il cui superamento integra comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento” (Cass. n. 19092/2018, annotata in q. sito da F. ALBINIANO);
- il superamento dei limiti di continenza e pertinenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore nei confronti del datore costituisce valutazione rimessa al giudice di merito, il quale, nella ricostruzione della vicenda storica, deve enucleare i fatti rilevanti nell’integrazione della fattispecie legale e motivare, rispetto a ciascuno di essi, circa il convincimento che tutti i predetti limiti siano stati rispettati, nonché delineando l’iter logico che lo ha indotto a maturare detto convincimento (Cass. 18/01/2019, n. 1379);
- “il contenuto della memoria difensiva depositata dal lavoratore per resistere in un giudizio instaurato nei suoi confronti dal datore di lavoro non integra una giusta causa che legittimi il suo licenziamento, sebbene tale atto utilizzi espressioni sconvenienti od offensive posto che queste sono soggette a cancellazione e possono dar luogo a risarcimento ex art. 89 c.p.c. Si tratta di documento giudiziario riferibile all’esercizio del diritto di difesa, oggetto dell’attività del difensore tecnico, al quale si applica la causa di non punibilità stabilita dall’art. 598 c.p. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all’Autorità giudiziaria quando concernano l’oggetto della causa”;
- l’esimente di cui all’art. 598 c.p. non si applica, però, alle accuse calunniose poiché la disposizione ricordata si riferisce esclusivamente alle offese e non può, pertanto, estendersi alle espressioni calunniose (Cass. Pen. 06/02/2019, n. 32823);
- inoltre, non è ravvisabile l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato di calunnia se l’intento del lavoratore era solo quello di sostenere la sua tesi difensiva in relazione all’oggetto della materia del contendere.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 11 LUGLIO 2023 n. 19621
(Omissis)
Svolgimento del processo
1.La Corte di appello di Napoli, rigettando il reclamo principale di (Omissis) Spa e quello incidentale di A.A., ha confermato la sentenza del Tribunale di Napoli Nord che a sua volta aveva respinto l’opposizione avverso l’ordinanza che, all’esito della fase sommaria, aveva accertato e dichiarato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato da (Omissis) Spa a A.A. il 26 marzo 2018 condannando la società a reintegrarlo nel posto di lavoro in precedenza occupato ed a corrispondergli tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla scadenza del credito al saldo, ed al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il medesimo periodo con gli interessi legali.
2. Il giudice del reclamo, per quanto qui ancora interessa, ha ritenuto che dai fatti allegati in giudizio dalla stessa società si potesse evincere che il lavoratore non aveva affatto inteso rinunciare ad essere ascoltato personalmente nel corso del procedimento disciplinare. Ha poi ritenuto che le frasi scritte nel ricorso giudiziario, proposto per ottenere le differenze retributive che assumeva gli spettassero, non contenevano “gravissime accuse” alla società e ai suoi superiori gerarchici e che fossero caratterizzate solo da veemenza nel sostenere le proprie tesi. Del pari ha escluso, quanto meno sotto il profilo soggettivo, il reato di calunnia o di diffamazione avendo accertato che la condotta era rimasta nei limiti di un’aspra critica finalizzata all’esercizio del diritto di difesa in giudizio. In conclusione, il giudice di appello ha confermato l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore e la correttezza della tutela reintegratoria ex art. 18 comma 4 dello Statuto dei lavoratori accordatagli. Ha rigettato poi le richieste formulate tese a dimostrare l’aliunde perceptum sul rilievo della estrema genericità delle allegazioni. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la (Omissis) Spa che ha articolato quattro motivi e A.A. ha resistito al ricorso con tempestivo controricorso. Il Procuratore generale ha formulato le sue conclusioni scritte ai sensi dell’art. 23, comma 8 – bis del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modificazioni della L. 18 dicembre 2020, n. 176 chiedendo il rigetto del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
3.Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 368 del c.p. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
3.1. Rileva la ricorrente che il Tribunale, nella fase sommaria, aveva ritenuto non sanzionabile il fatto addebitato dal datore di lavoro al A.A. perchè aveva considerato sussistente l’esimente prevista dall’art. 598 comma 1 c.p. che esclude la punibilità delle offese che siano contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti giudiziari dinanzi all’autorità giudiziaria, quando le offese concernono l’oggetto della causa.
3.2. Nelle successive fasi di cognizione, ed in particolare nella sentenza con la quale è stato definito il reclamo, invece, il giudice erroneamente interpretando l’art. 368 c.p. ha escluso l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato di calunnia. In particolare, ha ritenuto che l’intento del lavoratore fosse solo quello di sostenere la sua tesi difensiva in relazione all’oggetto della materia del contendere, senza considerare che il A.A. si era spinto ben oltre il perimetro della liceità, fino a rivolgere accuse di cui ben conosceva l’infondatezza e con un movente più che valido per configurare il reato di calunnia proprio dal punto di vista dell’elemento psicologico.
3.3. Rammenta la ricorrente che il reato si compone di due elementi: quello oggettivo, per il quale è sufficiente la falsa incolpazione di un soggetto, identificato o identificabile, manifestata nei confronti dell’autorità giudiziaria o di altra autorità che ha l’obbligo di riferirne, concernente fatti che pur non conducendo necessariamente ad un procedimento penale a carico del calunniato siano astrattamente suscettibili di determinare l’esercizio dell’azione penale nei suoi confronti (reato di pericolo). Per integrarne gli estremi è sufficiente un’accusa configurabile come notizia criminis che non sia manifestamente inverosimile sulla base del suo stesso contenuto. Quello soggettivo che, con riguardo all’ipotesi del dolo, è integrato non solo dalla coscienza e dalla volontà della denuncia ma anche dall’immanente consapevolezza dell’infondatezza dell’accusa mossa di incolpato.
3.4. Ha poi sottolineato che nella specie il fatto addebitato era oggettivamente riconducibile alla fattispecie penale che l’elemento psicologico sarebbe insito nella stessa dinamica del fatto. L’accusa mossa dal A.A., di violenza perpetrata in suo danno, non poteva che essere assistita dalla piena consapevolezza dell’innocenza dei soggetti indicati come autori del reato, ben chiara al A.A. che li denunciava. Il fatto poi che la redazione del ricorso sia stata affidata ad un avvocato, ad avviso del ricorrente, non scriminerebbe la condotta posto che tali elementi erano stati riferiti al difensore che li aveva poi utilizzati proprio per come a lui narrati dal A.A..
3.5. In conclusione, ad avviso della ricorrente erroneamente il giudice del reclamo aveva ritenuto che la finalità di difesa avesse escluso l’elemento soggettivo senza verificare in concreto se, al di là dello scopo prefissatosi, il lavoratore non si fosse coscientemente spinto fino al punto di accusare falsamente il datore di lavoro proprio per raggiungere l’obiettivo che voleva conseguire di annullamento dell’accordo economico, ed abbia così sconfinato nel reato di calunnia.
4. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la nullità della sentenza per difetto di motivazione in relazione degli artt. 132 numero 4 c.p.c. e 118 disp att. c.p.c. 4.1. Sostiene la ricorrente che la motivazione della sentenza sarebbe del tutto apparente in quanto dalla sua lettura non sarebbe possibile comprendere il percorso logico giuridico seguito dalla Corte territoriale per ritenere insussistente l’elemento soggettivo del reato di calunnia. Il giudice del reclamo avrebbe trascurato di esporre, seppure concisamente, quali erano gli elementi di fatto e di diritto posti e fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla.
5. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 598 c.p. e 368 c.p. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
5.1. Ad avviso della società ricorrente per poter applicare la causa di non punibilità prevista dall’art. 598 comma 1 c.p. il giudice di merito ha accertato che il comportamento del A.A. non integrava il reato di calunnia. Osserva dunque che, una volta accertato che invece la condotta tenuta dal A.A. era riconducibile a tale fattispecie doveva essere esclusa l’applicabilità dell’esimente di cui al citato art. 598 c.p..
6. Con l’ultimo motivo di ricorso è denunciata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., la nullità della sentenza per omessa pronuncia in violazione degli artt. 112 c.p.c. e dell’art. 111 comma 6 Cost..
6.1. La società ricorrente ha rammentato di aver contestato, nel corso del giudizio, che il lavoratore nel procedimento disciplinare avesse insistito nella richiesta di essere ascoltato personalmente. Ha inoltre ricordato di aver dedotto che lo stato di malattia cui era stata addebitata la mancata presenza del lavoratore all’audizione non era di per sè sufficiente per ritenere che questi non avesse potuto esercitare la sua difesa. Conseguentemente, nella prospettazione della ricorrente, la mancata presentazione all’audizione fissata doveva essere considerata ingiustificata ed il procedimento disciplinare avrebbe potuto regolarmente proseguire. Osserva che nè la Corte di merito, nè prima di lei il Tribunale, avevano preso in esame tali rilievi con la conseguenza che la sentenza, carente di motivazione sul punto, per tale aspetto era nulla.
6.2. In via subordinata, poi, ha dedotto che comunque la sanzione applicabile al caso concreto, stante il carattere procedurale del vizio che avrebbe viziato il licenziamento, avrebbe dovuto essere quella prevista dall’art. 18 comma 6 della L. n. 300 del 1970 e non, come disposto, la reintegrazione di cui al comma 4 della stessa norma.
7. Il primo ed il terzo motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
7.1. Integra il reato di calunnia, ai sensi dell’art. 368 c.p., la condotta di chi presenti denuncia, querela, richiesta o istanza diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia l’obbligo di riferire, addebitando un fatto costituente reato ad un soggetto che egli sa essere innocente. Ugualmente è ravvisabile il reato su indicato nella condotta di chi simuli tracce di un reato. Secondo l’orientamento della Cassazione il dolo nel reato di calunnia è ravvisabile quando colui che accusa falsamente un’altra persona di un reato abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato. L’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata infatti esclude l’elemento soggettivo che è integrato solo nel caso in cui vi sia una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo (sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato) e momento volitivo (intenzionalità dell’incolpazione). La consapevolezza del denunciante in merito all’innocenza dell’accusato è esclusa qualora la supposta illiceità del fatto denunziato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte di una persona, di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza. (cfr. Cass. Pen. 18/02/2020 n. 12209, 06/11/2009 n. 3964 e 02/04/2007, n. 17992). Nè può ritenersi ravvisabile l’elemento soggettivo nella forma del dolo eventuale. La formula utilizzata dalla norma “taluno che egli sa innocente” è chiara e indica la necessità di una piena consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato (Cass. Pen. 14/12/2016 n. 4112, 16/12/2008 n. 2750, 07/03/2007 n. 34881).
7.2. Con riguardo poi al diritto di critica del lavoratore va ricordato che il suo esercizio nei confronti del datore di lavoro deve rispettare i limiti di continenza formale, il cui superamento integra comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che è alla base del rapporto di lavoro e può costituire giusta causa di licenziamento (Cass. 18/07/2018 n. 19092). Il superamento dei limiti di continenza e pertinenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore nei confronti del datore costituisce valutazione rimessa al giudice di merito, il quale, nella ricostruzione della vicenda storica, deve enucleare i fatti rilevanti nell’integrazione della fattispecie legale e motivare, rispetto a ciascuno di essi, circa il convincimento che tutti i predetti limiti siano stati rispettati, senza trascurare gli elementi che potrebbero avere influenza decisiva – il cui omesso esame può determinare una lacuna tale da non consentire l’esatta riconduzione del caso concreto alla fattispecie astratta, cagionando un errore di sussunzione rilevante ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. -, nonchè delineando l’iter logico che lo ha indotto a maturare detto convincimento (Cass. 18/01/2019, n. 1379). Numero sezionale 1610/2023 ro di raccolta generale 19621/2023 Data pubblicazione 11/07/20237.4. Va poi ricordato che, come è stato affermato da questa Corte, il contenuto della memoria difensiva depositata dal lavoratore per resistere in un giudizio instaurato nei suoi confronti dal datore di lavoro non integra una giusta causa che legittimi il suo licenziamento, sebbene tale atto utilizzi espressioni sconvenienti od offensive posto che queste sono soggette a cancellazione e possono dar luogo a risarcimento ex art. 89 c.p.c.. Si tratta di documento giudiziario riferibile all’esercizio del diritto di difesa, oggetto dell’attività del difensore tecnico, al quale si applica la causa di non punibilità stabilita dall’art. 598 c.p. per le offese contenute negli scritti presentati dinanzi all’Autorità giudiziaria quando concernano l’oggetto della causa. Un’applicazione del principio generale posto dall’art. 51 c.p. Che individua la scriminante dell’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, e che è applicabile anche alle offese rinvenibili negli atti difensivi del giudizio civile sempre che riguardino l’oggetto del processo in modo immediato e diretto e che siano funzionali rispetto alle argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o all’accoglimento della domanda proposta (Cass. 26/01/2007, n. 1757). In definitiva, come già ritenuto da questa Corte in fattispecie analoghe (cfr. Cass. 11/12/2014, n. 26106) non integra una giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore che attribuisca al proprio datore di lavoro, in uno scritto difensivo, atti o fatti, pur non rispondenti al vero, che riguardino in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia e ciò quandanche in tale scritto siano riportate espressioni sconvenienti od offensive che sono invece soggette alla disciplina dettata dall’art. 89 c.p.c.). E’ ben vero che l’esimente di cui all’art. 598 c.p., che prevede che non siano punibili le offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie e amministrative non si applica alle accuse calunniose contenute in tali atti, poichè la disposizione ricordata si riferisce esclusivamente alle offese e non può, pertanto, estendersi alle espressioni calunniose (Cass. Pen. 06/02/2019, n. 32823) e tuttavia la Corte del reclamo, nel caso in esame, ha accertato che tali dichiarazioni erano strettamente connesse all’esercizio del diritto di difesa ed ha rilevato l’assenza di finalità dirette a diffondere notizie idonee a screditare il datore di lavoro.
7.3. Con la sua censura, allora, la società pur veicolando la sua doglianza come una violazione di legge nella realtà sollecita a questa Corte una diversa valutazione dei fatti positivamente accertati dalla Corte di merito sulla base dei quali è stata esclusa l’esistenza del reato di calunnia posto a base del provvedimento di recesso.
8. Il secondo motivo di ricorso è pure infondato.
8.1. Come è oramai pacificamente assodato davanti alla Corte di cassazione è denunciabile solo quell’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, sempre che il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, e che si prescinda dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. per tutte Cass. S.U. 07/04/2014, n. 8053 con la quale sono stati delineati i limiti del vizio di motivazione quale attualmente vigente successivamente alla novella dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed è stato individuato allo stesso tempo l’ambito di applicazione dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.). Per aversi motivazione apparente e, conseguentemente nullità della sentenza affetta da “error in procedendo”, è necessario che la motivazione, benchè graficamente esistente, non consenta di apprezzare il fondamento della decisione a cagione della obiettiva inidoneità delle argomentazioni a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento. Come affermato da questa Corte, infatti, non può essere lasciato all’interprete il compito di integrare una motivazione del tutto carente con varie ed ipotetiche congetture non altrimenti desumibili dal testo della motivazione (Cass. S.U. 03/11/2016, n. 22232). Ciò non vuol dire però che il giudice sia tenuto a confutare ogni singola tesi che ritenga di non accogliere nè a dar conto in maniera particolareggiata di tutti gli elementi di giudizio posti a fondamento della decisione o di quelli che non siano ritenuti significativi. Ai fini della validità della motivazione secondo il disposto dell’art. 132, comma 2, n. 4) c.p.c., infatti, è sufficiente che il convincimento raggiunto emerga chiaramente da riferimenti logici e coerenti alle prospettazioni delle parti ed alle emergenze istruttorie che, valutate complessivamente, siano idonee e sufficienti a giustificare la scelta decisionale e ad esplicitare il percorso logico seguito restando per implicito disattese le argomentazioni incompatibili con la decisione presa.
8.2. Alla luce di tali premesse va rilevato allora che dalla sentenza si evince con chiarezza che il giudice del reclamo ha esaminato le censure con le quali si era denunciata l’errata interpretazione ed applicazione degli artt. 368 e 598 c.p. e ha chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto insussistente il fatto addebitato al lavoratore e l’iter logico seguito.
9. Neppure l’ultimo motivo di ricorso può essere accolto.
9.1. Perchè sia ravvisabile il vizio di omessa pronuncia denunciato non è sufficiente che sia mancata una espressa statuizione su una domanda ma è necessario piuttosto che sia stato del tutto pretermessa la decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto. In sostanza, pur in assenza di una specifica argomentazione, non sussiste il vizio denunciato quando la decisione abbia ritenuto fondata la domanda sulla base di una argomentazione che renda inutile l’esame di altre questioni perchè comunque travolte (cfr. recentemente tra le altre Cass. 31/03/2022 n. 10284 ma già Cass. 29/01/2021, n. 2151 e 04/06/2019, n. 15255).
9.2. E’ questo il caso verificatosi nella specie. Una volta accertata l’inesistenza di una giusta causa di licenziamento per essere insussistente, dal punto di vista della sua rilevanza disciplinare, il fatto addebitato al lavoratore non era necessario verificare se, comunque, la procedura fosse o meno affetta da un vizio inerente al suo svolgimento. L’accertata insussistenza del fatto che vi aveva dato causa rende irrilevante ogni ulteriore verifica della regolarità della procedura che mai sarebbe dovuta iniziare.
10. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio, da distrarsi in favore dell’avvocato che se ne è dichiarato antistatario, devono essere poste a carico della soccombente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato D.P.R. n., se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 5.500 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Spese da distrarsi.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato D.P.R. n., se dovuto.