Legittimo il licenziamento del part timer che rifiuti la formazione in materia di sicurezza, impartita in orario non coincidente con la normale articolazione oraria della prestazione.
Nota a Cass. 14 luglio 2023, n. 20259
Flavia Durval
La richiesta datoriale nei confronti di un lavoratore a tempo parziale di seguire un corso di formazione in orario corrispondente a quello astrattamente destinabile al lavoro supplementare è legittima. Il lavoratore non può opporre un generico rifiuto “ma solo allegare e dimostrare, a giustificazione di esso, comprovate esigenze, lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale”. Ne consegue la legittimità del licenziamento del dipendente non essendo utilizzabile la sua prestazione da parte del datore di lavoro, impossibilitato a offrire il modulo formativo con le articolate modalità pretese dal lavoratore. Peraltro, nella vicenda in esame, il corso era destinato ad assicurare al lavoratore una “formazione di base” in materia di sicurezza, vale a dire un minimo di conoscenze elementari che costituiscono profili imprescindibili per l’espletamento di ogni prestazione lavorativa, la cui carenza rende obiettivamente inutilizzabile la prestazione del dipendente non formato o formato solo a metà.
Così si è espressa la Corte di Cassazione (14 luglio 2023, n. 20259) in relazione al ricorso di un lavoratore part time licenziato per giustificato motivo oggettivo motivato in ragione dell’impossibilità per la società datrice di lavoro di utilizzare la prestazione del dipendente a causa del reiterato rifiuto di questi di completare le residue quattro ore del corso di formazione in tema di sicurezza di base predisposto dall’azienda in adempimento dell’obbligo di legge.
Secondo la Corte, la fattispecie è disciplinata dal co. 2 dell’art. 6, D.Lgs. n. 81/2015, il quale facoltizza il datore di lavoro a chiedere l’espletamento di una prestazione di lavoro supplementare nel rispetto del limite del 25% dell’orario di lavoro; “in tali limiti temporali diviene quindi esigibile dal datore di lavoro la collaborazione del prestatore di lavoro al fine dell’adempimento dell’obbligo formativo”.
Posto poi l’obbligo datoriale di assicurare ai dipendenti una adeguata formazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ex D.Lgs. n. 81/2008 (v. artt. 15 e 37) durante l’orario di lavoro (senza oneri economici a carico dei lavoratori), i giudici analizzano la definizione di orario di lavoro (di cui all’art. 1, co. 2, L. n. 66/2003), quale “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Ciò chiarendo che la formula “conferisce all’espressione orario di lavoro un significato molto ampio, comprensivo di ogni periodo in cui venga prestata attività di lavoro e quindi anche di attività prestata in orario eccedente a quello ordinario o normale”. Con la conseguenza di farvi ricadere l’orario corrispondente a prestazioni svolte anche al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, comunque esigibili dal datore di lavoro.
In altre parole, “orario di lavoro” va inteso come comprensivo “anche dell’orario relativo a prestazioni esigibili al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, di legge o previsto dal contratto collettivo, per i lavoratori a tempo pieno, e di quello concordato, per i lavoratori a tempo parziale”.
Il datore di lavoro, quindi può richiedere che formazione avvenga in orario corrispondente a prestazioni di lavoro esigibili oltre l’orario normale, fermo restando, sotto il profilo della remunerazione, l’applicazione delle prescritte maggiorazioni.
Con riguardo poi al caso specifico, ove si negasse la necessità di offrire al dipendente un’adeguata formazione, indispensabile a prevenire rischi per la sicurezza e la salute non solo del singolo ma della intera comunità dei lavoratori nonché dei terzi che vengano in contatto con l’ambiente di lavoro, la Corte precisa che si finirebbe “per pregiudicare o rendere comunque eccessivamente difficoltoso, l’adempimento dell’obbligo formativo da parte del datore di lavoro; se, infatti, questo dovesse necessariamente modularsi sull’articolazione del “normale” orario di lavoro del dipendente potrebbe darsi una oggettiva difficoltà, se non impossibilità di rispettare tale obbligo, considerato che esso di regola postula la necessaria collaborazione di enti formatori sulla cui modalità di organizzazione dei corsi e della relativa articolazione oraria, non è dato in alcun modo incidere al soggetto datore (si pensi ad esempio all’ipotesi del lavoro notturno o del lavoro articolato in turni ecc.)”.
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 luglio 2023, n. 20259
Fatti di causa
1.La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di A.S., dipendente a tempo parziale di R. s.p.a. Con tale domanda l’odierno ricorrente aveva chiesto l’accertamento della nullità/illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli da R. s.p.a. in data 8.2.2018, motivato con la impossibilità per la società datrice di avvalersi della prestazione del dipendente a causa del rifiuto di questi di completare, in orario non corrispondente a quello concordato – pari a venti ore settimanali articolate su una prestazione effettuata per cinque giorni lavorativi, dalle ore 6,00 alle ore 10.00, con riposo a scorrimento – , le residue quattro ore del corso obbligatorio di formazione di base sulla sicurezza del lavoro, corso della complessiva durata di otto ore; il lavoratore aveva, infatti, rifiutato reiteratamente di completare la partecipazione al corso di formazione dichiarandosi indisponibile nelle sei convocazioni successive a tal fine disposte dalla società datrice di lavoro, anche in relazione a corsi organizzati ad hoc, in orario previamente concordato con il difensore di fiducia del lavoratore medesimo.
2. La Corte di merito, esclusa la esistenza del motivo ritorsivo del recesso datoriale, affermata, invece, dal primo giudice, ha ritenuto il lavoratore comunque tenuto all’effettuazione della formazione nell’orario a tal fine stabilito dalla società, qualificando tale partecipazione, ai fini della relativa remunerazione, come prestazione di lavoro straordinario, esigibile dalla società.
3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso A.S. sulla base di quattro motivi; R. s.p.a. ha resistito con controricorso; parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
4. Il PG ha depositato requisitoria scritta concludendo per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri motivi.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 37, comma 12, d. lgs. n. 81/2008. Sostiene che la disposizione in oggetto, nel prescrivere che la formazione deve avvenire durante l’orario di lavoro, oltre che senza oneri economici a carico dei lavoratori, implica, in ipotesi di lavoro a tempo parziale, la necessità dell’espletamento dei corsi di formazione in orario corrispondente all’orario concordato in sede contrattuale tra le parti, il quale nello specifico prevedeva una prestazione articolata su cinque giorni alla settimana, dalle ore 6.00 alle ore 10, in modo fisso e senza clausole di flessibilità. Argomenta che in tal senso militava la disciplina previgente al d. lgs. n. 81/2015, che limitava fortemente la potestas variandi datoriale in materia consentendola solo con le modalità e alle condizioni previste dalla contrattazione collettiva (d. lgs. n. 61/2000) e regolava con rigore anche il ricorso al lavoro supplementare, consentito solo con il consenso del lavoratore e nei casi e nei limiti previsti dalla contrattazione collettiva; rappresenta che tale rigore di disciplina era stato mantenuto dal legislatore del 2015, che ammetteva le <<clausole elastiche>> solo nei limiti stabiliti dalla contrattazione collettiva o con patto individuale assistito e soggetto a precisi limiti, e conteneva in vario modo la possibilità di lavoro supplementare.
2. Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduce contraddittorietà di motivazione in relazione alla interpretazione del disposto dell’art. 37 d. lgs. n. 81/2015.
3. Con il terzo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1464 cod. civ.; premesso che il licenziamento era stato irrogato non per giusta causa ma per giustificato motivo oggettivo, ed in particolare per impossibilità sopravvenuta della prestazione determinata dal mancato completamento del corso di formazione sulla sicurezza di base, assume che costituiva onere della società dimostrare sia la impossibilità di effettuazione dei corsi di formazione in orario corrispondente all’orario di lavoro del dipendente, sia la <<intollerabilità>> per la società del periodo di assenza, inferiore all’anno dal rientro, determinato dalla mancata ammissione al lavoro per non avere il dipendente completato il prescritto iter formativo, sia la concreta rilevanza di tale assenza, a fronte di una società con migliaia di lavoratori, rispetto alle mansioni semplici svolte da un pulitore quale era il ricorrente.
4. Con il quarto motivo deduce violazione delle norme relative agli effetti della sentenza tra le parti, denunziando il contrasto della decisione con altra precedente che aveva definito il giudizio instaurato da esso S. per il pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo in cui non era stato ammesso al lavoro dalla società per non avere conseguito la prescritta formazione.
5. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, trattati congiuntamente per connessione, sono infondati.
5.1. In fatto è pacifico che il S. è stato licenziato per giustificato motivo oggettivo motivato con l’impossibilità per la società datrice di lavoro di utilizzare la prestazione del dipendente in ragione del reiterato rifiuto di questi di completare le residue quattro ore del corso di formazione in tema di sicurezza di base predisposto da R. s.p.a. in adempimento dell’obbligo di legge.
5.2. In diritto si osserva che l’obbligo per il soggetto datore di assicurare ai dipendenti una adeguata formazione in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro si inscrive nel quadro della più generale disciplina dettata dal d. lgs. n. 81/2008, di attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
In particolare, il relativo art. 15 del d. lgs. cit. nello stabilire “le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro”, annovera fra queste anche la formazione ed informazione dei lavoratori, dei dirigenti e preposti e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (art. 15, comma 1, lettere m), n) o) ).
L’art. 37 d. lgs cit. pone specificamente a carico del soggetto datore di lavoro l’obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza (comma 1) dettando una articolata disciplina circa le modalità ed i contenuti di tale obbligo, in particolare stabilendo al comma 2 che “La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sono definiti mediante accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo.”
Infine, il comma 12, di immediato rilievo in relazione alla presente fattispecie, stabilisce che “La formazione dei lavoratori e quella dei loro rappresentanti deve avvenire, in collaborazione con gli organismi paritetici, ove presenti nel settore e nel territorio in cui si svolge l’attività’ del datore di lavoro, durante l’orario di lavoro e non può comportare oneri economici a carico dei lavoratori”.
Dal complesso delle richiamate disposizioni si evince il carattere ineludibile per il soggetto datore di lavoro dell’obbligo di assicurare ai dipendenti una adeguata formazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Tale tema intercetta quello, fondante la questione sottoposta allo scrutinio del giudice di legittimità, rappresentata dalla verifica della esigibilità da parte del soggetto datore della partecipazione del dipendente ad un corso di formazione che si tenga in orario non corrispondente a quello ordinario; in particolare, in caso di lavoratore a tempo parziale, quale è l’odierno ricorrente, occorrerà verificare se la formazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro debba necessariamente essere impartita in orario corrispondente a quello concordato tra le parti in sede di contratto o anche successivamente, o, invece, ed in che limiti, possa avvenire in orario non coincidente con la normale articolazione oraria della prestazione.
5.3. Ritiene il Collegio che a tale quesito, nei limiti che si andranno a delineare, debba darsi risposta positiva.
La opposta soluzione, propugnata dall’odierno ricorrente, non trova innanzitutto conforto nel dato testuale dell’art. 37, comma 12, d. lgs. n. 81/2008, il quale si limita a stabilire che la formazione debba avvenire “durante l’orario di lavoro”, senza ulteriori specificazioni.
Nel ricostruire la portata normativa della espressione “durante l’orario di lavoro”, ritiene la Corte che non possa prescindersi dalla definizione di orario di lavoro di cui all’art. 1, comma 2, l. n. 66/2003, (ndr art. 1, comma 2, decreto legislativo n. 66 del 2003) vigente all’epoca di emanazione del d. lgs. n. 81/2008 e quindi evidentemente tenuta presente dal legislatore del 2008.
Per l’art. 1, comma 2 l. n. 66/2003 (ndr art. 1, comma 2, decreto legislativo n. 66 del 2003) l’orario di lavoro è “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.
Si tratta di una definizione che conferisce all’espressione “orario di lavoro” un significato molto ampio, comprensivo di ogni periodo in cui venga prestata attività di lavoro e quindi anche di attività prestata in orario eccedente a quello ordinario o “normale”.
Tale ampiezza di formulazione è destinata, come detto, a riverberarsi sul significato normativo da attribuire all’espressione “durante l’orario di lavoro” utilizzata dall’art 37 comma 12 d. lgs. n.81/2008, nel senso di farvi ricadere l’orario corrispondente a prestazioni, anche al di fuori dell’orario di lavoro “ordinario”, comunque esigibili dal datore di lavoro.
L’approdo ermeneutico sopra condiviso risulta avvalorato, sempre sul piano testuale, dal fatto che il legislatore del 2008, nello stabilire che l’attività di formazione deve avvenire “durante l’orario di lavoro”, chiarisce contestualmente che essa non può comportare oneri a carico del lavoratore. Il che rappresenta un implicito riconoscimento della possibilità datoriale di richiedere che la formazione avvenga in orario corrispondente a prestazioni di lavoro esigibili oltre l’orario normale, fermo restando, sotto il profilo della relativa remunerazione, l’applicazione delle prescritte maggiorazioni.
5.4. Al di là del dato testuale, vi è una considerazione di ordine generale che conforta la soluzione accolta e che scaturisce dalla natura e dalla rilevanza, anche costituzionale, degli interessi coinvolti in coerenza con la ratio di tutela del bene “sicurezza” e del bene “salute” sui luoghi di lavoro che sorregge l’impianto normativo del d. lgs. n. 81/2015.
Rispetto alle necessità di offrire al dipendente un’adeguata formazione, indispensabile a prevenire rischi per la sicurezza e la salute non solo del singolo ma della intera comunità dei lavoratori nonché dei terzi che vengano in contatto con l’ambiente di lavoro, la pretesa dell’odierno ricorrente al completamento della formazione solo nell’orario corrispondente al tempo parziale concordato costituisce espressione di un interesse che non può che essere recessivo rispetto a quelli tutelati dal legislatore del 2008.
La opposta soluzione finirebbe, invero, per pregiudicare o rendere comunque eccessivamente difficoltoso, l’adempimento dell’obbligo formativo da parte del datore di lavoro; se, infatti, questo dovesse necessariamente modularsi sull’articolazione del “normale” orario di lavoro del dipendente potrebbe darsi una oggettiva difficoltà, se non impossibilità di rispettare tale obbligo, considerato che esso di regola postula la necessaria collaborazione di enti formatori sulla cui modalità di organizzazione dei corsi e della relativa articolazione oraria, non è dato in alcun modo incidere al soggetto datore (si pensi ad esempio all’ipotesi del lavoro notturno o del lavoro articolato in turni ecc.).
5.5. Le considerazioni che precedono orientano quindi nel senso della ragionevolezza di una lettura meno rigida di quella propugnata dal lavoratore ricorrente, della espressione di “orario di lavoro”, da intendersi quindi come comprensiva anche dell’orario relativo a prestazioni esigibili al di fuori dell’orario di lavoro ordinario, di legge o previsto dal contratto collettivo, per i lavoratori a tempo pieno, e di quello concordato, per i lavoratori a tempo parziale.
La sentenza impugnata, in disparte la inammissibilità della denunzia di vizio di motivazione di cui al secondo motivo di ricorso, ove riferito, come nello specifico, all’interpretazione di una norma giuridica (v. Cass. n. 4863 del 2020, Cass. n. 11883 del 2013), risulta quindi sul punto corretta.
5.6. Tanto premesso e venendo al tema, che intercetta quello ora affrontato, rappresentato dalla verifica dei limiti di esigibilità della prestazione di lavoro in orario diverso da quello concordato con il dipendente a tempo parziale, occorre individuare la disciplina in concreto applicabile tenuto conto che l’assunzione risale al 1 marzo 2012, ed era quindi all’epoca dell’assunzione assoggettata alle disposizioni dettate dal d. lgs. n. 61/2000, di attuazione della direttiva 97/81/CE, relativa all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, e successive modifiche e integrazioni, che prevedeva limiti stringenti sia in ordine alla possibilità di espletamento di lavoro supplementare sia in ordine alla possibilità di variazione della collocazione temporale della prestazione stessa mediante il ricorso alle clausole cd. flessibili.
Tale disciplina è stata abrogata dall’art. 55 del d. lgs. n. 81/2015, il quale non ha dettato, diversamente da quanto avvenuto in relazione ad altre ipotesi di abrogazione (v. per esempio, il comma 1, lettera l) che fa salva temporaneamente, in certi limiti, l’applicabilità della norma abrogata), una disciplina transitoria specificamente intesa a regolare rapporti, quale quello in esame, già vigenti all’atto della entrata in vigore del d. lgs n. 81/2015; in conseguenza, tale rapporto deve ritenersi interamente regolato dalla nuova disciplina ( artt. 4-12 d. lgs cit.).
5.7. A riguardo, diretto rilievo assume al fine del decidere l’art. 6 d. lgs. n. 81/2015, rubricato “lavoro supplementare, lavoro straordinario, clausole elastiche”, il quale così recita : “ Nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro ha la facoltà’ di richiedere, entro i limiti dell’orario normale di lavoro di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 66 del 2003, lo svolgimento di prestazioni supplementari, intendendosi per tali quelle svolte oltre l’orario concordato fra le parti ai sensi dell’articolo 5, comma 2, anche in relazione alle giornate, alle settimane o ai mesi. 2. Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini il lavoro supplementare, il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare in misura non superiore al 25 per cento delle ore di lavoro settimanali concordate. In tale ipotesi, il lavoratore può rifiutare lo svolgimento del lavoro supplementare ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. Il lavoro supplementare è retribuito con una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti. 3. Nel rapporto di lavoro a tempo parziale è consentito lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario, così’ come definito dall’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 66 del 2003. 4. Nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, le parti del contratto di lavoro a tempo parziale possono pattuire, per iscritto, clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa ovvero relative alla variazione in aumento della sua durata. 5. Nei casi di cui al comma 4, il prestatore di lavoro ha diritto a un preavviso di due giorni lavorativi, fatte salve le diverse intese tra le parti, nonché a specifiche compensazioni, nella misura ovvero nelle forme determinate dai contratti collettivi. 6. Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto non disciplini le clausole elastiche queste possono essere pattuite per iscritto dalle parti avanti alle commissioni di certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Le clausole elastiche prevedono, a pena di nullità, le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro, con preavviso di due giorni lavorativi, può modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata, nonché la misura massima dell’aumento, che non può eccedere il limite del 25 per cento della normale prestazione annua a tempo parziale. Le modifiche dell’orario di cui al secondo periodo comportano il diritto del lavoratore ad una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell’incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti. 7. Al lavoratore che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 8, commi da 3 a 5, ovvero in quelle di cui all’articolo 10, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, è riconosciuta la facoltà di revocare il consenso prestato alla clausola elastica. 8. Il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento “.
5.8. Nel caso specifico, premesso che parte ricorrente non ha allegato ed ha anzi negato che il contratto collettivo applicabile contenesse previsioni relative al lavoro supplementare, la fattispecie deve essere ricondotta all’ambito regolato dal comma 2 dell’art. 6 il quale facoltizza il datore di lavoro a chiedere l’espletamento di una prestazione di lavoro supplementare nel rispetto del limite del 25% dell’orario di lavoro; in tali limiti temporali diviene quindi esigibile dal datore di lavoro la collaborazione del prestatore di lavoro al fine dell’adempimento dell’obbligo formativo.
Tale limite non è stato in concreto superato atteso che la richiesta datoriale di effettuazione delle ulteriori quattro ore destinate al completamento del corso di formazione base, è inferiore al 25% del complessivo orario settimanale, pari a venti ore.
5.9. Da tanto consegue che alla – legittima – richiesta datoriale di seguire il corso di formazione in orario corrispondente a quello astrattamente destinabile al lavoro supplementare, il lavoratore non poteva opporre un generico rifiuto ma solo allegare e dimostrare, a giustificazione di esso, “comprovate esigenze, lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale”, come, viceversa, non avvenuto, secondo quanto accertato, con affermazione rimasta incontrastata, dalla sentenza impugnata e, come del resto smentito dalla circostanza che per ben sei volte il lavoratore aveva per il tramite del suo legale acconsentito alla effettuazione della formazione in orari secondo un piano concordato, seppure sottraendosi ogni volta al rispetto degli accordi in tal senso intervenuti.
6. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
E’ innanzitutto destituito di fondamento l’assunto del ricorrente secondo il quale il giudice di appello avrebbe mostrato, in definitiva, di considerare il licenziamento de qua come intimato per giusta causa e non per giustificato motivo oggettivo; invero, la sentenza impugnata, pur formulando considerazioni in ordine alla contrarietà a correttezza e buona fede della complessiva condotta del dipendente, ha mostrato di tenere ben presente che la ragione alla base del licenziamento era costituita dalla non utilizzabilità della prestazione del S. per essere il datore di lavoro, “impossibilitato a offrire il modulo formativo con le articolate modalità pretese dal dipendente” (sentenza, pag. 13). Ciò posto, risulta innanzitutto privo di fondamento normativo l’assunto del ricorrente secondo il quale la possibilità per il datore di lavoro di esigere la prestazione di lavoro supplementare richiedeva la prova, a carico di quest’ultimo, della impossibilità di articolare il corso di formazione nell’orario ordinario; invero, alla luce del chiaro disposto del comma 2 dell’art. 6 cit. è sul lavoratore che gravava la dimostrazione delle specifiche esigenze, riconducibili all’ambito lavorativo, di salute, familiari o di formazione professionali, che avrebbero reso legittimo il rifiuto da lui opposto.
6.1. Parimenti da respingere è la censura che condiziona la legittimità dell’intimato licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla verifica datoriale della possibilità di adibizione del lavoratore in una posizione di lavoro compatibile con la carente formazione in materia di sicurezza e salute sul lavoro acquisita dal dipendente in ragione della parziale partecipazione al corso di formazione. A tal fine è dirimente il rilievo dell’assenza di valida censura alla condivisibile affermazione della sentenza impugnata, secondo la quale la prestazione del lavoratore “non formato” è intrinsecamente inidonea a consentire l’espletamento della prestazione e tale valutazione risulta avvalorata dalla considerazione che nel caso di specie, per come pacifico, il corso in questione era destinato ad assicurare al lavoratore una “ formazione di base”, vale a dire quel minimo di conoscenze elementari in materia di sicurezza e salute sul lavoro che costituiscono profili imprescindibili per l’espletamento di ogni prestazione lavorativa, la cui carenza rende obiettivamente inutilizzabile la prestazione del dipendente non formato o formato solo a metà.
7. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile per la dirimente considerazione che il giudicato esterno preclusivo, invocato dall’odierno ricorrente con riferimento ad altro precedente inter partes, non risulta trascritto nel corpo del ricorso per cassazione, come è onere del ricorrente, avendo il giudice di legittimità ripetutamente affermato che il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che deduca l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione (Cass. n. 13988 del 2018, Cass. n. 15737 del 2017, Cass. n- 2617 del 2015).
8. In base alle considerazioni che precedono, il ricorso per cassazione deve essere respinto e le spese regolate secondo soccombenza.
9. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’art.13 d. P.R. n. 115/2002 (Cass. Sez. Un. n. 23535/2019),
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.