La fissazione dello stesso limite di altezza per i candidati di entrambi i sessi al concorso per Capo Treno costituisce una discriminazione indiretta in sfavore delle donne, salvo che tale requisito non sia in concreto funzionale alle mansioni da svolgere.
Nota a Cass. (ord.) 3 luglio 2023, n. 18668
Sonia Gioia
In materia di requisiti per l’assunzione, la previsione di un’altezza minima identica per i candidati di sesso sia femminile che maschile viola il principio di uguaglianza (artt. 3 e 37 Cost.), in quanto presuppone erroneamente l’insussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra gli uomini e le donne, e comporta una discriminazione indiretta in sfavore di queste ultime, vietata ai sensi degli artt. 25, co. 2 e 27, D. LGS. 11 aprile 2006, n. 198 (c.d. “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”), salvo che tale requisito non risulti oggettivamente giustificato o comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni previste dalla qualifica.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (ord. 3 luglio 2023, n. 18668, conforme ad App. Bari n. 1863/2019) in relazione ad una fattispecie concernente una lavoratrice che era stata esclusa dalla procedura di selezione di personale con qualifica di Capo Treno/Capo Servizi Treno, bandita da Trenitalia S.p.A., per difetto del requisito minimo di altezza, stabilito in 160 cm sia per gli uomini che per le donne.
Nel giudizio di merito, la Corte d’Appello, in conformità con il giudice di prime cure, aveva accertato che la fissazione del medesimo limite di altezza per i candidati di entrambi i sessi costituiva una violazione degli artt. 25, co. 2 e 27, D. LGS. n. 198 cit. (nella versione ratione temporis vigente, antecedente alle modifiche apportate dalla L. 5 novembre 2021, n. 162), poiché tale requisito, come emerso da CTU, non risultava “funzionale rispetto alle mansioni” cui sarebbe stata addetta la candidata qualora fosse stata assunta, condannando, di conseguenza, la società datrice all’assunzione della lavoratrice, atteso che la stessa aveva soddisfatto tutti i requisiti previsti dalla gara selettiva ed aveva riportato un giudizio finale di inidoneità basato soltanto sul deficit staturale.
Per quanto concerne l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, è vietata qualsiasi discriminazione, sia diretta che indiretta, basata sul sesso, indipendentemente dalle modalità di assunzione, qualunque sia il settore o il ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale.
In particolare, una discriminazione indiretta si configura quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (artt. 25, co. 2 e 27, D. LGS. n. 198 cit., come mod. dalla L. n. 162 cit.).
Ai fini dell’accertamento dell’esistenza di una violazione del principio di parità di trattamento, non è richiesto che il comportamento datoriale sia intenzionale, poiché la discriminazione opera sempre su di un piano puramente oggettivo, vale a dire in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.
Con riguardo alla previsione di limiti staturali ai fini dell’accesso al lavoro, la Cassazione ha precisato che una norma, regolamentare o collettiva, che preveda un’altezza minima identica sia per gli uomini che per le donne, senza tener conto della diversità di statura ontologicamente dipendente dal sesso, viola il principio di uguaglianza e costituisce una discriminazione indiretta a sfavore delle lavoratrici, salvo che tale requisito non risulti oggettivamente giustificato o comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni previste dalla qualifica.
La valutazione in ordine al carattere discriminatorio di tale limite staturale è riservata al giudice di merito, che è tenuto a valutare “in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni” attraverso l’accertamento di quali siano le attività a cui il lavoratore interessato potrebbe essere addetto e se le stesse potrebbero essere espletate nonostante una statura inferiore a quella richiesta (v., fra le tante, Cass. n. 14448/2023; Cass. n. 9095/2023, in q. sito con nota di C. GIAGHEDDU SAITTA; Cass. n. 8167/2020; Cass. n. 7982/2020; Cass. n. 27729/2019).
In attuazione di tali principi, la Cassazione, nel rigettare il ricorso di Trenitalia S.p.A., ha stabilito che la previsione di un medesimo limite staturale per uomini e donne configura una discriminazione indiretta in quanto non è oggettivamente giustificato né comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni derivanti dalla qualifica di Capo Treno, e, per l’effetto, ha condannato la società datrice all’immissione in servizio della candidata, a nulla rilevando che l’azienda si fosse attenuta ad una regola, di natura vincolante, imposta da un’autorità terza (vale a dire, l’Autorità di garanzia per la sicurezza).
Ciò, dal momento che “accertare la discriminatorietà del comportamento e dichiarare il diritto della lavoratrice discriminata ad essere assunta, senza ordinare l’assunzione nei confronti della società avrebbe comportato la mancanza della rimozione degli effetti lesivi” in violazione dell’art. 38, D. LGS. n. 198 cit., che prevede, laddove sia accertata una lesione del principio di parità di trattamento, “la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.
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Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE, ORDINANZA 3 luglio 2023, n. 18668
Svolgimento del processo
1.la Corte d’Appello di Bari, con la sentenza impugnata, ha confermato la decisione di primo grado nella parte in cui, nell’ambito di un procedimento ai sensi del d. lgs. n. 198 del 2006, aveva accolto la domanda proposta da A.A. nei confronti di Trenitalia Spa volta a far accertare che costituisse discriminazione indiretta di genere la sua esclusione dalla procedura di selezione per l’assunzione, presso la società, di personale con qualifica di Capo Treno/Capo Servizi Treno per difetto del requisito minimo di altezza, stabilito in mt 1,60 sia per gli uomini che per le donne candidate;
2. la Corte, in estrema sintesi, sulla scorta di una consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado, ha condiviso l’assunto del primo giudice secondo cui il requisito minimo di statura non fosse “funzionale rispetto alle mansioni cui sarebbe addetta la ricorrente qualora fosse assunta”;
in parziale accoglimento del gravame della A.A., la Corte territoriale ha, poi, dichiarato il diritto della stessa all’assunzione a tempo indeterminato, ordinando alla società di assumerla in servizio e condannando la società al pagamento delle retribuzioni previste dal CCNL di categoria dal 22 ottobre 2015 alla data della pronuncia, oltre accessori e spese;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con quattro motivi; ha resistito con controricorso l’intimata; la Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso;
la parte ricorrente ha comunicato memoria;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni.
Motivi della decisione
1.i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito: con il primo motivo si eccepisce la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 c.p.c. per difetto di giurisdizione del giudice ordinario, “essendo configurabile nel caso di specie una vera e propria carenza di potere giudice amministrativo (art. 360 c.p.c., n. 4)”;
col secondo mezzo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e ss. della L. n. 874 del 1986, del D.Lgs. n. 188 del 2003, del D.Lgs. n. 162 del 2007, nonché del decreto ANSF n. 1/2009 del 06 aprile 2009 e “di ogni altra norma e principio in materia di configurabilità dei presupposti per azione ex art. 38 d. lgs. n. 198/2006 e di litisconsorzio processuale necessario, con particolare riferimento al soggetto positore della regola applicata, e cioè l’ANSF”;
con il terzo motivo si denuncia: “violazione e falsa applicazione di tutte le norme e i principi rubricati al precedente motivo primo (ndr. così nel testo). Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 nn. 3 e 5, c.p.c.)”; si lamenta che il giudice di merito non abbia rilevato che, ai fini della decisione, non era necessario e consentito fare riferimento alla situazione fisica individuale della A.A., dovendo l’eventuale accertamento peritale essere riferito alla generalità dei soggetti con determinate caratteristiche fisiognomiche;
con l’ultimo motivo si lamenta la violazione degli artt. 1321 e 2908 c.c. e di ogni altra norma e principio in materia di emissione di sentenze costitutive e di “tutela reale” dell’interessato, poichè il giudice d’appello avrebbe erroneamente ritenuto di dover emettere, al fine di assicurare all’interessata una tutela piena, un ordine di costituzione del rapporto di lavoro, sebbene tale possibilità fosse esclusa dalla procedura indetta da Trenitalia;
2. il ricorso non può trovare accoglimento in quanto la sentenza impugnata è conforme a numerosi precedenti di questa Corte – da cui non è dato discostarsi per evidenti ragioni di uniformità di trattamento di casi analoghi – ai quali si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. per ogni ulteriore aspetto qui non esaminato (cfr. Cass. n. 23562 del 2007; Cass. n. 25734 del 2013; Cass. n. 26866 del 2017; Cass. n. 3196 del 2019; Cass. n. 27729 del 2019; Cass. n. 7982 del 2020; Cass. n. 8167 del 2020; da ultimo Cass. n. 14448 del 2023);
sin dalla prima pronuncia di legittimità richiamata si è affermato il principio, poi ribadito, secondo cui, in tema di requisiti per l’assunzione, per uomini e donne, in contrasto con il principio di uguaglianza perchè presuppone erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne e comporta una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime, il giudice ordinario ne apprezza, incidentalmente, la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni (in termini, Cass. n. 23562/2007 cit., in cui questa Corte ha cassato con rinvio la decisione della corte territoriale che si era limitata a ritenere, ai fini dell’assunzione alla Metropolitana di Roma, il requisito dell’altezza minima di m. 1,55 – previsto nel D.M. n. 88 del 1999, identico per uomini e donne – una garanzia sia per l’incolumità del personale in servizio sia per la sicurezza degli utenti, senza accertare a quali mansioni l’attrice potesse adeguatamente attendere nonostante l’altezza fisica inferiore rispetto a quella richiesta);
tanto sulla base dell’assunto della Corte costituzionale (sentenza n. 163 del 1993) secondo cui “ove i soggetti considerati da una certa norma, diretta a disciplinare una determinata fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate di caratteristiche non omogenee rispetto al fine obiettivo perseguito con il trattamento giuridico ad essi riservato, quest’ultimo sarà conforme al principio di eguaglianza soltanto nel caso che risulti ragionevolmente differenziato in relazione alle distinte caratteristiche proprie delle sottocategorie di persone che quella classe compongono”; per il Giudice delle leggi il principio di eguaglianza impone di verificare che non sussista violazione del criterio di “proporzionalità del trattamento giuridico previsto rispetto alla classificazione operata dal legislatore, tenendo conto del fine obiettivo insito nella disciplina normativa considerata: proporzionalità che va esaminata in relazione agli effetti pratici prodotti o producibili nei concreti rapporti della vita”;
3. ciò premesso in diritto, possono essere scrutinate più specificamente le singole doglianze poste dai primi tre motivi di ricorso;
3.1. l’eccezione di difetto di giurisdizione è inammissibile in quanto preclusa dalla formazione del giudicato implicito sulla questione; il giudice di primo grado ha reso una pronunzia nel merito del ricorso proposto dalla A.A. con implicita affermazione della propria giurisdizione; la società Trenitalia ha mostrato di prestare acquiescenza a detta statuizione che non risulta avere costituito specifico oggetto di impugnazione in sede di appello, risultando pacifico sia dal ricorso per cassazione che dalla sentenza impugnata che la questione non era stata sollevata “mediante l’atto di gravame” (v. in particolare pag. 2); trova applicazione, pertanto, la giurisprudenza di legittimità che riconosce la formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione in presenza di una pronunzia nel merito del giudice adito alla quale le parti abbiano prestato acquiescenza (v. tra le altre, Cass. Sez. Un. 28503 del 2017, Cass. n. 19498 del 2017, Cass. Sez. Un. 9693 del 2013, Cass. n. 19792 del 2011, Cass. Sez. Un. 2067 del 2011);
3.2. neppure è configurabile una carenza assoluta di potestas iudicandi, in quanto non vi è stato alcuno sconfinamento della sfera riservata al legislatore in tema di emanazione di norme per la sicurezza della circolazione dei treni in quanto l’accertamento della esistenza di una discriminazione di genere è frutto di un’attività interpretativa della disciplina di riferimento, che costituisce il proprium dell’attività giurisdizionale, alla luce della quale è stata ritenuta disapplicabile la norma secondaria;
vale rammentare l’orientamento di questa Corte per il quale, allorché in una controversia tra privati, attinente a diritti soggettivi, il giudice debba vagliare situazioni che presentano aspetti di pubblico interesse o possa trovarsi a scrutinare la legittimità di provvedimenti amministrativi, le questioni che insorgono circa i confini dei poteri al riguardo del giudice ordinario attengono, data l’estraneità della P.A. al giudizio, al merito e non alla giurisdizione, investendo l’individuazione dei limiti interni posti dall’ordinamento alle attribuzioni del giudice ordinario (Cass. Sez. Un. 6883 del 2019; Cass. n. 14762 del 2006);
3.3. le plurime denunce di violazione o falsa applicazione di norme di diritto sono infondate in quanto la sostanza del decisum – come premesso – è coerente con la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto come la previsione di un medesimo limite staturale per uomini e donne configuri una discriminazione indiretta ove non oggettivamente giustificato, nè comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni derivanti dalla qualifica attribuita;
i giudici del merito hanno svolto il sindacato incidentale richiesto, con un apprezzamento dei fatti che, sorretto da motivazione rispettosa del cd. minimo costituzionale, è sottratto al vaglio di questa Corte;
ne è derivata la disapplicazione della normativa secondaria, ritenuta non conforme al principio di non discriminazione, non risultando dirimente la circostanza, invocata dalla società ancora nella memoria conclusiva, di essersi attenuta ad una regola, di natura vincolante, stabilita da Autorità terza, poiché la discriminazione opera obiettivamente – ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta – ed a prescindere dall’intento soggettivo dell’autore (Cass. n. 6575 del 2016; da ultimo v. Cass. n. 9095 del 2023); inoltre, nel caso di discriminazione indiretta, la di Spa rità vietata è proprio l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima (cfr. Cass. n. 20204 del 2019);
3.4. consegue, altresì, l’infondatezza della doglianza con cui si deduce la legittimazione passiva necessaria della competente Autorità di garanzia della sicurezza, atteso che – come condivisibilmente evidenziato dalla Procura Generale – l’oggetto principale della domanda proposta dalla A.A. innanzi al giudice di merito era costituito dalla richiesta di accertamento della natura discriminatoria della condotta posta in essere da Trenitalia, per cui il ricorso è stato correttamente proposto nei riguardi del soggetto destinatario degli effetti della pronuncia richiesta, dal quale l’odierna controricorrente pretendeva di ottenere il “bene della vita” cui aspirava, non potendo considerarsi detta Autorità litisconsorte necessario nel giudizio;
3.5. sono inammissibili, infine, le censure contenute nel terzo motivo di ricorso, laddove, prospettando formalmente e promiscuamente violazioni di legge individuate per relationem “al precedente motivo primo” nonché omesso esame di fatti decisivi, nella sostanza sono volte ad un diverso apprezzamento nel merito delle circostanze di causa in relazione alla esclusione del carattere di funzionalità del requisito staturale rispetto alle mansioni connesse alla qualifica di Capo treno o Capo servizi treno;
in particolare, si invoca il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. trascurando di considerare che la disposizione non può essere evocata, ai sensi dell’art. 348 ter, u.c., c.p.c., con un ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado (cfr. Cass. n. 23021 del 2014; più di recente, tra molte, Cass. n. 7724 del 2022) nella parte in cui accerta la discriminatorietà della condotta datoriale; in questi casi il ricorrente, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (v., ex multis, Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 20944 del 2019; Cass. n. 268 del 2021; Cass. n. 29002 del 2021; Cass. n. 25027 del 2021);
4. premesso che la Corte territoriale non ha adottato una pronuncia costitutiva del rapporto di lavoro, ma ha, invece, dichiarato il diritto della lavoratrice all’assunzione e, conseguentemente, ordinato alla società di adempiere, immettendola in servizio, neanche il quarto motivo di ricorso può essere accolto;
sia perché non censura adeguatamente l’altra ragione, pure esposta dalla Corte territoriale a fondamento del decisum, secondo cui solo una tale pronuncia avrebbe “rimosso gli effetti del comportamento discriminatorio della soc. Trenitalia”; sia perché involge apprezzamenti di merito circa l’esistenza dell’obbligo, atteso che – secondo i giudici di appello – risulta “con certezza che la A.A. ha soddisfatto tutti gli altri presupposti della gara selettiva e ha riportato un giudizio finale di inidoneità basato soltanto sul requisito della statura inferiore a 160 cm”, mentre tutti gli “altri candidati idonei sono stati assunti”;
peraltro, posto che l’art. 38 del D.Lgs. n. 198/2006 prevede, in caso di discriminazioni nell’accesso al lavoro, “la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”, quale conseguenza dell’accertamento del comportamento lesivo, evidentemente accertare la discriminatorietà del comportamento e dichiarare il diritto della lavoratrice discriminata ad essere assunta, senza ordinarne l’assunzione nei confronti della società, avrebbe comportato la mancanza della rimozione degli effetti lesivi;
5. conclusivamente il ricorso deve essere respinto nel suo complesso; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 3.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese forfettario al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.