Il passaggio di consegne nel cambio turno, comprensivo del tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa da lavoro, va retribuito.

Nota a Cass. 31 agosto 2023, n. 25477

Flavia Durval

Il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa da lavoro ove tale operazione sia eterodiretta dal datore di lavoro va computato nell’orario di lavoro, con conseguente diritto alla retribuzione aggiuntiva.

Pertanto, se le modalità esecutive del c.d. tempo tuta sono imposte dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, “l’operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario dev’essere retribuito”. Tale soluzione appare coerente con la previsione contenuta nel D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 1, co. 2, lett. a), che recepisce le Direttive CE nn. 93/104 e 00/34, concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, secondo cui per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, con definizione sovrapponibile a quella ripetuta nella successiva Direttiva n. 2003/88/CE, art. 2, n. 1. (v. anche Cass. n. 34072/2021).

Con specifico riguardo al lavoro infermieristico, il cambio di consegne nel passaggio di turno ed il tempo impiegato per la svestizione e vestizione,  “in quanto connesso, per le peculiarità del servizio sanitario, all’esigenza della presa in carico del paziente e ad assicurare a quest’ultimo la continuità terapeutica, è riferibile ai tempi di una diligente effettiva prestazione di lavoro, sicché va considerato, di per se stesso, meritevole di ricompensa economica, quale espressione della regola deontologica, avente dignità giuridica, della continuità assistenziale” (così Cass. 22.11.2017, n. 27799). In sintesi, il cambio di consegne nel passaggio del turno costituisce “espletamento di mansione lavorativa giacché … è chiaramente connesso alle peculiarità del servizio espletato”.

È quanto ribadisce la Corte di Cassazione (31 agosto 2023, n. 25477) in linea con Cass. n. 1352/2016 relativa all’attività di assistenza presso una residenza per anziani, la quale, per sua natura, richiedeva che la divisa fosse necessariamente indossata e tolta, per ragioni di igiene, presso il luogo di lavoro e non altrove.

La sentenza di primo grado aveva riconosciuto ai lavoratori istanti, oltre a differenze retributive (rivenienti tra la retribuzione contrattualmente pattuita e quella percepita), la retribuzione corrispondente a 20 minuti al giorno di lavoro per il c.d. tempo di vestizione e di passaggio di consegne. La Corte di appello di Torino aveva confermato la condanna dell’appellante al pagamento della retribuzione per le operazioni di vestizione e svestizione (pur riducendone la durata a soli 10 minuti complessivi giornalieri).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 agosto 2023, n. 25477

FATTI IN CAUSA

1.Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Torino, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla (OMISSIS) soc. coop. a r.l. contro la sentenza del Tribunale della medesima sede, ha ridotto la condanna dell’appellante al pagamento della retribuzione per le operazioni di vestizione e svestizione di (OMISSIS) nel periodo 21.3.2008-31.12.2012 in una durata di 10 minuti complessivi giornalieri; per il resto confermava la sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto ai lavoratori istanti, oltre a differenze retributive (rivenienti tra la retribuzione contrattualmente pattuita e quella percepita), la retribuzione corrispondente a 20 minuti al giorno di lavoro per il c.d. tempo di vestizione e di passaggio di consegne.

2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale respingeva il primo motivo d’appello della datrice di lavoro, con il quale essa censurava la sentenza di primo grado, affermando che ai ricorrenti nulla competeva in relazione al differenziale tra orario di lavoro contrattuale e ore effettivamente lavorate, dovendosi applicare la disposizione di cui all’articolo 5 del Regolamento interno alla cooperativa. Rigettava, altresì, il secondo motivo di gravame, a mezzo del quale l’appellante censurava la sentenza del Tribunale, affermando l’insussistenza del diritto dei lavoratori alla retribuzione del c.d. “tempo di vestizione” e del c.d. “tempo di passaggio consegne”, salvo considerare, con riguardo alla sola (OMISSIS), corretta la riduzione del tempo a soli 10 minuti, non rientrando il cambio di consegne nell’ambito dell’attività lavorativa svolta da detta lavoratrice. Disattendeva, inoltre, il terzo motivo di doglianza, concernente la pretesa erronea ed assertivamente immotivata indicazione dei tempi di vestizione e passaggio di consegne. Infine, respingeva anche il quarto motivo d’appello, con il quale la società aveva ribadito la propria eccezione di prescrizione quinquennale dei crediti retributivi vantati dagli allora appellati.

3. Avverso tale decisione la (OMISSIS) coop a r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

4. Hanno resistito i lavoratori intimati con unico controricorso e successiva memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo la ricorrente denuncia: “(I) ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 142 del 2001, articolo 3, comma 1 e dell’articolo 6, comma 2, nonché (II) ex articolo 360, comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione degli articoli 115 c.p.c. e 2697 c.c., in particolare per non aver considerato la natura consensuale della clausola che consentiva la riduzione dell’orario di lavoro”.

2. Con il secondo motivo denuncia: “ex articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 66 del 2003, dell’articolo 115 c.p.c., nonché omesso esame di tutte le risultanze istruttorie al fine di negare il riconoscimento del c.d. “tempo tuta” e del “tempo per il passaggio di consegne” come orario di lavoro”.

3. Con il terzo motivo denuncia: “ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame delle circostanze di fatto decisive per la determinazione, in via subordinata, nel quantum del cd. “tempo tuta” e “tempo per il passaggio di consegne”.

4. Con il quarto motivo denuncia: “ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2948 c.c., avendo ritenuto la Corte d’appello che la prescrizione non decorra più in costanza di rapporto successivamente all’entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, in caso di datori di lavoro che occupano piu’ di 15 dipendenti – ex articolo 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c. per violazione e falsa applicazione degli articoli 2697 c.c. e 2729 c.c., per non aver considerato la mancata allegazione delle odierne resistenti in tema di c.d. “metus”; – ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2948 c.c. e dell’articolo 112 c.p.c., e/o ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver comunque correttamente accertato l’intervenuta prescrizione parziale delle pretese avversarie”.

5. Il terzo motivo di ricorso, che fa riferimento esclusivo al mezzo di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e gli altri per la parte in cui fanno riferimento alla medesima ipotesi sono inammissibili.

5.1. Occorre, infatti, ricordare che, per questa Corte, ricorre l’ipotesi di c.d. “doppia conforme”, ai sensi dell’articolo 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (in tal senso Cass. civ., sez. VI, 9.3.2022, n. 7724). È stato, inoltre, specificato che, nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dal comma 5 dell’articolo 348-ter del c.p.c., il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’articolo 360 del c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (così Cass. civ., sez. II, 14.12.2021, n. 39910; id., sez. III; 3.11.2021, n. 31312; id., sez. III, 9.11.2020, n. 24974).

5.2. Nel caso in esame, però, a fronte di decisioni di primo e di secondo grado tra loro senz’altro conformi, la ricorrente per cassazione neanche allega che le rispettive rationes decidendi di tali pronunce sarebbero almeno in parte differenti. Come premesso in narrativa, infatti, la Corte territoriale ha esclusivamente riformato nei parametri di quantificazione la condanna della società limitatamente alla posizione della lavoratrice (OMISSIS), ma nel resto ha integralmente confermato l’impostazione e le statuizioni del primo giudice.

6. Il primo motivo (cfr. pagg. 20-22 del ricorso), il secondo motivo (cfr. pagg. 25-30 del ricorso) e il terzo motivo (cfr. pagg. 31-33 del ricorso) presentano ulteriori profili d’inammissibilità per le parti (teste’ richiamate) in cui, in chiave di apparente deduzione di violazione e falsa applicazione di varie norme di diritto (sostanziale o processuale) o di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti”, propongono in realtà una critica di accertamenti fattuali compiuti dalla Corte territoriale, e alla stessa riservati; il che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.

7. Il primo motivo è, comunque, infondato per la parte in cui la ricorrente vi si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 142 del 2001, articolo 3, comma 1, e dell’articolo 6, comma 2.

7.1. La Corte di merito, infatti, ha anzitutto verificato in base ad accertamento di fatto incensurabile in questa sede che non ricorreva nella specie l’ipotesi di una crisi aziendale, e non ha mancato di considerare che “i lavoratori odierni appellati hanno stipulato con la (OMISSIS) un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno, con applicazione del CCNL Cooperative Sociali” Ma ha ritenuto che: “La sottoscrizione della clausola regolamentare di cui all’articolo 5 (sopra riportata), diversamente da quanto affermato dalla Cooperativa, non autorizza la stessa alla riduzione unilaterale dell’orario di lavoro associata alla riduzione dello stipendio perché si tratta di clausola nulla. Il contratto di lavoro subordinato tiene fermo l’obbligo, per la Cooperativa datrice di lavoro, di garantire ai propri soci lavoratori, l’effettivo svolgimento dell’orario di lavoro pattuito (cioè, dell’orario full-time), fatta salva l’ipotesi (insussistente nella specie) di oggettive situazioni di crisi aziendale deliberate dall’assemblea, ovvero comunque risultanti da elementi di fatto oggettivi”. Tale conclusione raggiunta dalla Corte d’appello, in base agli accertamenti operati, appare incensurabile in punto di diritto, avendo in precedenza osservato che “la clausola del Regolamento di cui si tratta, in base all’interpretazione datane dalla (OMISSIS), è nulla ai sensi della L. n. 142 del 2001, articolo 6, comma 2” (secondo cui: “Salvo quanto previsto alle lettere d), e) ed f) del comma 1, nonché dell’articolo 3, comma 2 bis, il regolamento non può contenere disposizioni derogatorie in pejus rispetto ai trattamenti retributivi ed alle condizioni di lavoro previsti dai contratti collettivi nazionali di cui all’articolo 3. Nel caso in cui violi la disposizione di cui al primo periodo la clausola è nulla”) (cfr. in extenso pagg. 14-19 della sua sentenza). Questa Corte di legittimità, infatti, ha affermato che, in tema di società cooperativa, con l’avvenuta sottoscrizione del contratto associativo il socio lavoratore aderisce alle disposizioni del regolamento interno che sia stato adottato dalla società ai sensi della L. 3 aprile 2001, n. 142, articolo 6, trovando conseguentemente applicazione le disposizioni di cui all’articolo 6, comma 1, lettera d) ed e) della legge cit., che consentono alla società, in caso di crisi aziendale, di deliberare una riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi e di prevedere forme di apporto anche economico da parte del socio lavoratore, al solo scopo di superare la difficoltà economica in cui versa l’impresa. Ne consegue che il principio generale dell’inderogabilità in pejus del trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva, può subire eccezioni esclusivamente nel caso di deliberazione del “piano di crisi aziendale”, che deve contenere elementi adeguati e sufficienti tali da esplicitare l’effettività dello stato di crisi aziendale, la temporaneità di esso e dei relativi interventi e lo stretto nesso di causalità tra lo stato di crisi aziendale e l’applicabilità ai soci lavoratori di tali interventi (così Cass. civ., sez. lav., 28.8.2013, n. 19832).

8. Infondato è il secondo motivo per la parte in cui vi si lamenta la violazione e falsa applicazione della normativa di cui al Decreto Legislativo n. 66 del 2003 (ed in particolare del suo articolo 1), avendo considerato il tempo necessario agli attuali resistenti per indossare gli indumenti da lavoro ed effettuare il passaggio di consegne alla stregua di orario di lavoro tenuto conto delle risultanze istruttorie emerse in corso di causa.

8.1. In base, infatti, all’accertamento confermato dai giudici d’appello (cfr. pag. 1921 dell’impugnata sentenza), appare incensurabile la loro valutazione giuridica del caso, anche in relazione alla disciplina richiamata dall’impugnante. In particolare, risulta puntuale il richiamo, già operato dal primo giudice, a Cass. civ., sez. lav., 26.1.2016, n. 1352, la quale, in relazione a fattispecie analoga a quella che ci occupa (relativa all’attività di assistenza presso una residenza per anziani, la quale, per sua natura, richiede che la divisa sia necessariamente indossata e tolta, per ragioni di igiene, presso il luogo di lavoro e non altrove), aveva affermato che va computato nell’orario di lavoro, con conseguente diritto alla retribuzione aggiuntiva, il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa da lavoro ove tale operazione sia eterodiretta dal datore di lavoro. Già in tale decisione di legittimità – confermandosi che, se le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, l’operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario dev’essere retribuito – , si era ritenuta coerente tale soluzione con la previsione contenuta nel Decreto Legislativo n. 8 aprile 2003, n. 66, articolo 1, comma 2, lettera a) (che recepisce le Direttive 93/104 e 00/34 CE, concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), secondo la quale per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”, con definizione sovrapponibile a quella ripetuta nella successiva Direttiva 2003/88/CE, articolo 2, n. 1). E tali principi sono stati più di recente confermati, in relazione al medesimo quadro normativo, da Cass. n. 34072/2021.

8.2. Con precipuo riferimento, poi, al “tempo per il passaggio di consegne”, questa Corte ha affermato che, in materia di orario di lavoro nell’ambito dell’attività infermieristica, il cambio di consegne nel passaggio di turno, in quanto connesso, per le peculiarità del servizio sanitario, all’esigenza della presa in carico del paziente e ad assicurare a quest’ultimo la continuità terapeutica, è riferibile ai tempi di una diligente effettiva prestazione di lavoro, sicché va considerato, di per se stesso, meritevole di ricompensa economica, quale espressione della regola deontologica, avente dignità giuridica, della continuità assistenziale (così Cass. civ., sez. lav., 22.11.2017, n. 27799). Ma il medesimo principio può trovare applicazione nel caso di specie, in cui gli attuali controricorrenti erano tutti soci lavoratori adibiti presso una R.S.A. gestita dalla cooperativa ricorrente. I giudici d’appello, infatti, hanno accertato che per essi il passaggio di consegne “costituisca espletamento di mansione lavorativa giacche’ il cambio di consegne nel passaggio del turno e’ chiaramente connesso alle peculiarità del servizio espletato dagli odierni appellati, eccezione fatta per la (OMISSIS) – che è adibita a mansioni diverse”.

8.3. La decisione gravata, perciò, è conforme a tutti i su riportati principi di diritto.

9. Parimenti infondato è il quarto ed ultimo motivo di ricorso, in punto di prescrizione.

9.1. Esattamente la Corte territoriale, in conformità anche ad una propria giurisprudenza, ha ritenuto, in merito all’incidenza sul regime della prescrizione delle modifiche alla disciplina dei licenziamenti introdotte dalla L. n. 92 del 2012, che in costanza di rapporto di lavoro la prescrizione dei crediti nella specie azionati dai lavoratori non potesse operare. Questa Corte di legittimità, infatti, nell’affrontare ex professo la relativa questione, di recente ha affermato il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012, e del D.lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto dell’articolo 2948 c.c., n. 4, e articolo 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro” (così Cass. civ., sez. lav., sent. 6.9.2022, n. 26246).

10. In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto con regolamento secondo soccombenza delle spese di lite, liquidate ai sensi del Decreto Ministeriale n. 147 del 2022.

11. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, comma 1 bis dell’articolo 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Lavoro infermieristico e c.d. tempo tuta (Cass. n. 25477/2023)
Tag:                                                 
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: