Confermati i principi giurisprudenziali in tema di retribuzione del “tempo-tuta”.

Nota a Trib. Milano 4 luglio 2023 (R.G. n. 2956/2022)

Fabrizio Girolami

L’attività di vestizione e svestizione della divisa aziendale (c.d. “tempo-tuta”), il cui uso è imposto dal datore di lavoro nell’ambito della prestazione lavorativa, rientra nell’ambito dell’orario di lavoro e, come tale, va retribuito, essendo comunque “proiezione” del potere etero-direttivo del datore di lavoro. Inoltre, non rileva che, al fine di eludere, al fine di eludere l’obbligo retributivo per il periodo corrispondente all’espletamento delle relative attività, al lavoratore sia data la libertà di indossare la divisa nel proprio luogo di abitazione o, comunque, al di fuori dei locali aziendali, risultando tale soluzione contraria alla dignità dei lavoratori. Il lavoratore deve avere, infatti, diritto alla libera espressione della propria personalità, vestendo abiti di sua scelta nel percorso per e dal luogo di lavoro.

Lo ha stabilito il Tribunale di Milano, con sentenza 4 luglio 2023 (R.G. n. 2956/2022), in relazione a una controversia instaurata da alcune lavoratrici di una società appaltatrice del servizio di pulizia della Regione Lombardia, le quali avevano convenuto la società, chiedendo la condanna al pagamento delle differenze retributive relative al periodo impiegato per indossare e dismettere la divisa.

Il Tribunale milanese ha accolto il ricorso delle lavoratrici, affermando quanto segue:

  • in via preliminare, grava sul dipendente – il quale ritenga che il tempo impiegato per la vestizione e svestizione della divisa costituisca una attività aggiuntiva rispetto a quella effettivamente retribuita dal datore di lavoro – l’onere di fornire la prova sia dell’esecuzione di tale attività (rispettivamente prima e dopo l’orario di lavoro) sia la sua durata (cfr., in tal senso, Trib. Bari, Sez. lav., 21.02.2023, n. 552). Inoltre, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, nel lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (c.d. “tempo-tuta”) costituisce tempo di lavoro soltanto ove esso sia qualificato da “eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nella obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo (cfr., ex multis, Cass. 7.06.2021, n. 15763; Cass. 25.02.2019, n. 5437, in q. sito, con nota di P. COTI; Cass. 11.01.2019, n. 505, in q. sito, con nota di F. GIROLAMI; Cass. 24.05.2018, n. 12935; Cass. 28.03.2018, n. 7738, in q. sito, con nota di F. GIROLAMI; Cass. 22.11.2017, n. 27799; Cass. 14.11.2016, n. 23123, in q. sito, con nota di M.N. BETTINI; Cass., Sez. Un., 16.05.2013, n. 11828);
  • al fine di valutare la sussistenza di una “eterodirezione” occorre valutare la sussistenza di un’esplicita imposizione ai lavoratori “del tempo, modo e luogo della vestizione e svestizione”. In altre ipotesi, invece (come nel caso del lavoro all’interno delle strutture ospedaliere), anche in assenza di espresse direttive impartite dal datore di lavoro, il tempo di vestizione e svestizione della divisa, va computato nell’orario di lavoro giornaliero, con corrispondente diritto alla retribuzione, trattandosi di obbligo imposto da superiori esigenze di sicurezza e igiene ambientale, nonché di incolumità dello stesso personale addetto al servizio (cfr., tra le altre, Cass. 01.07.2019, n. 17635, in q. sito, con nota di GIROLAMI; Cass. 11.02.2019, n. 3901, in q. sito, con nota di M.N. BETTINI e F. BELMONTE; Cass. 22.11.2017, n. 27799, in q. sito, con nota di F. GIROLAMI; App. Torino 14.08.2019, n. 556, in q. sito, con nota di G.I. VIGLIOTTI);
  • il “tempo-tuta” se è imposto dal datore di lavoro rientra nell’orario e, come tale, va retribuito, in quanto l’elemento qualificante della “eterodirezione” si risolve “nel fatto stesso di imporre ai lavoratori l’utilizzo, per ragioni di sicurezza o, semplicemente, di riconoscibilità di una divisa aziendale nell’ambito della prestazione lavorativa”;
  • né assume rilievo, ai fini dell’elisione dell’obbligo retributivo per il periodo corrispondente allo svolgimento di tali attività, la circostanza “che il lavoratore possa ritenersi libero di indossare la divisa a casa, o comunque, al di fuori dei locali aziendali, risultando tale soluzione nella sostanza contraria alla dignità dei lavoratori”. Nel percorso dalla propria abitazione al luogo di lavoro, il lavoratore ha piena libertà “di indossare abiti civili, corrispondenti al proprio gusto individuale o alle proprie contingenti esigenze, quale espressione della propria personalità, che lo preservino dall’immediata identificazione in ragione della sua appartenenza lavorativa”. A tal fine, si rileva che “l’ingresso e l’uscita del lavoratore dal luogo di lavoro con indosso gli abiti aziendali” può costituire “una limitazione allo svolgimento di ulteriori attività di natura sociale o ricreativa, in assenza di preparazione presso i locali aziendali o facendo ritorno presso la propria abitazione”.

Sentenza

Trib. Milano 4 luglio 2023 (R.G. n. 2956/2022)

Fatto e Diritto
Con separati ricorsi al Tribunale di Milano, oggetto di successiva riunione, le ricorrenti (Omissis) convenivano in giudizio la società (Omissis) premettendo di essere state assunte dalla resistente (Omissis) con diverse decorrenze, inquadramenti contrattuali e orari di lavoro, allegavano di aver prestato la propria attività in favore della resistente presso l’appalto del servizio di pulizia della Regione Lombardia, di aver ricevuto indicazioni di indossare la divisa fornita nel locale spogliatoio, di usare la divisa solo in servizio, con espresso divieto per motivi igienico sanitari di utilizzarla altrove, di depositare la divisa a fine turno nell’apposito armadietto, di timbrare il cartellino ad inizio turno, solo dopo aver indossato la divisa, di presentarsi sul luogo di lavoro almeno venti minuti prima al fine di indossare gli abiti da lavoro e trattenersi presso i locali aziendali al termine della prestazione per dismettere e custodire gli abiti.

Richiamati i principi giurisprudenziali in tema di retribuzione del cd “tempo tuta”, avanzavano istanza per il pagamento di retribuzione, pari a 10 minuti giornalieri, con maggiorazione del 28%, relativamente al tempo quotidiano necessario al completamento delle operazioni di vestizione e svestizione, nelle misure variamente determinate per ciascuna delle lavoratrici.

La domanda appare in parte fondata e meritevole di accoglimento, per le ragioni e nella misura di seguito enunciata ed esposta.

Giova premettere, in punto di diritto, come gravi sul dipendente, che ritenga la vestizione e svestizione della divisa come un’attività aggiuntiva rispetto a quella effettivamente retribuita dal datore (e corrispondente, cioè, alla prestazione dell’attività lavorativa in favore del lavoro), fornire dimostrazione sia dell’esecuzione di tale attività di vestizione e svestizione (rispettivamente, prima e dopo l’orario di lavoro), sia la sua durata (Trib. Bari, sez. lav., 21 febbraio 2023, n. 552).

Secondo l’attuale opinione giurisprudenziale affinché, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (cd “tempo tuta”) costituisca tempo di lavoro, con conseguente maturazione del diritto alla retribuzione in capo al lavoratore, occorra che lo stesso sia qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria, inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore, la quale non dà titolo ad autonomo corrispettivo (in questo senso Cass. civ., sez. VI, 7 giugno 2021, n. 15763).

La riconduzione di tale attività all’eterodirezione datoriale va, secondo la giurisprudenza, qualificata in termini di esplicita imposizione ai lavoratori del tempo, modo e luogo della vestizione e svestizione. In altre situazioni, pure in assenza di espresse direttive impartite dal datore, si è ritenuto esistente il requisito qualificante dell’eterodirezione, sia pure in via tacita o esplicita quando, in ragione della tipologia dell’attività esercitata o della natura della divisa, l’obbligo di indossare la divisa nei locali aziendali in prossimità della prestazione lavorativa risultasse comunque giustificato da esigenze ulteriori, come l’igiene e la sicurezza (Trib. Bari, sez. lav., 19 maggio 2020, n. 1274).

Venendo al caso di specie, appare accertato, dalla ricostruzione dei fatti operati in sede di istruttoria testimoniale, che le ricorrenti, all’atto dell’ingresso nel palazzo della Regione, sede dell’appalto, avessero l’onere di strisciare il badge ai tornelli di ingresso ed in prossimità del montacarichi, recandosi poi al piano B1 del palazzo, dove indossavano la divisa di lavoro laddove non indossata a casa) nel locale spogliatoi, timbravano il cartellino marcatempo, prendevano il carrello in magazzino, per iniziare la prestazione lavorativa, regolarmente retribuita, sul piano ed in coincidenza con l’orario di inizio turno.

Vi è, inoltre, prova agli atti che la divisa aziendale fosse inizialmente composta da una casacca grigia con lo sfondo bianco a righe azzurre, successivamente sostituita da maglietta blu, felpa blu e pantaloni blu così come deve ritenersi acquisita la circostanza che il tempo intercorrente tra l’ingresso nei locali aziendali, il raggiungimento del locale adibito a spogliatoio, la vestizione e le ulteriori attività preparatorie prodromiche al turno fosse di circa dieci minuti, con medesimo tempo necessario per lo svolgimento delle simmetriche attività al termine del turno (riposizionamento carrelli, svestizione, uscita dai locali aziendali).

Ciò su cui le testimonianze acquisite discordano profondamente è, invece, l’esistenza di un’espressa indicazione aziendale nel senso della necessità di provvedere all’indossamento (ed alla svestizione) della divisa aziendale nel locale spogliatoio e di custodia all’interno degli armadietti ivi collocati.

Il teste (Omissis) affermava che alcuni lavoratori arrivavano già cambiati, che la cosa essenziale era che durante l’orario di lavoro i lavoratori avessero la divisa indosso ma non c’era alcun tipo di indicazione da parte dell’azienda di custodire la divisa nei locali aziendali ed indossarla in quella sede.

Il teste (Omissis) dichiarava, viceversa, che la divisa doveva essere indossata all’interno degli spogliatoi, e che ciò era frutto di un’espressa indicazione aziendale fornita da (Omissis).
Il teste (Omissis) affermava che assolutamente non esistevano direttiva aziendali se non quella di avere la divisa indosso all’atto dell’inizio del lavoro, e di non sapere se di fatto qualche lavoratore venisse vestito con la divisa da casa.

La teste Omissis affermava che non c’era nessuna direttiva che imponesse di vestirsi nei locali aziendali, ma di non aver mai visto alcuna lavoratrice che indossasse la divisa da casa, che tuttavia la richiesta di timbrare in ingresso prima della vestizione ed in uscita dopo la svestizione, per valorizzare questo tempo, non era stata accolta.

La teste (Omissis) dichiarava che le lavoratrici, anche in assenza di indicazioni circa la possibilità di indossare la divisa in casa propria, prima di fare ingresso in sede, la indossavano sempre negli spogliatoi aziendali.

Ritiene, tuttavia, il giudicante che, facendo applicazione, nel senso di cui si dirà, dei principi generali espressi in sede di legittimità, e consapevolmente discostandosi dalla concreta declinazione giurisprudenziale, la domanda in questa sede rivendicata dalle lavoratrici debba ritenersi fondata e meritevole di accoglimento.

Pur non essendovi, alla luce delle risultanze probatorie testé riassunte, univoca indicazione circa l’esistenza di direttive aziendali che imponessero indossamento, svestizione e custodia della divisa nei locali aziendali, né ulteriori elementi, attinenti alla tipologia dell’attività svolta o alle caratteristiche estrinseche della divisa, che depongano nel senso di un implicito obbligo di procedere a tali prodromiche attività all’interni dei locali, deve ritenersi come l’elemento qualificante dell’eterodirezione, dalla quale origina l’obbligo di retribuire l’attività preparatoria dei lavoratori, si risolva nel fatto stesso di imporre ai lavoratori l’utilizzo, per ragioni di sicurezza o, semplicemente, di riconoscibilità, di una divisa aziendale nel!’ambito della prestazione lavorativa.

Come osservato, in modo del tutto condivisibile, dal procuratore di parte ricorrente nel corso dell’udienza di discussione, l’imposizione di una divisa aziendale nello svolgimento della prestazione richiede, quale diretta ed inevitabile conseguenza della prescrizione, talune attività preparatorie e successive, funzionali al rispetto della regola eteroimpoista, che non possono che rientrare nell’ambito del tempo di lavoro regolarmente retribuito.

Né, ad avviso del giudicante, può ritenersi rilevante, ai fini dell’elisione dell’obbligo retributivo per il periodo corrispondente allo svolgimento di tali attività preparatorie, la circostanza che il lavoratore possa ritenersi libero di indossare la divisa a casa, o comunque, al di fuori dei locali aziendali, risultando tale soluzione nella sostanza contraria alla dignità dei lavoratori.

Deve, difatti, nel percorso dalla propria abitazione ai locali aziendali, affermarsi la piena prerogativa del lavoratore di indossare abiti civili, corrispondenti al proprio gusto individuale o alle proprie contingenti esigenze, quale espressione della propria personalità, che lo preservino dall’immediata identificazione in ragione della sua appartenenza lavorativa. Né, sotto altro profilo, può sottovalutarsi come l’ingresso e l’uscita del lavoratore dal luogo di lavoro con indosso gli abiti aziendali possa costituire una limitazione allo svolgimento di ulteriori attività di natura sociale o ricreativa, in assenza di preparazione presso i locali aziendali o facendo ritorno presso la propria abitazione.

Ne consegue, pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, dovendosi considerare l’attività di vestizione e svestizione di divisa aziendale, il cui uso è imposto dal datore di lavoro, di per sé stesso tempo di lavoro da retribuire, essendo comunque proiezione del potere eterodirettivo del datore di lavoro, l’accoglibilità della domanda delle ricorrenti, che hanno stimato il tempo occorrente per lo svolgimento di tali attività in dieci minuti giornalieri (circostanza che trova pieno riscontro nelle risultanze probatorie), con maggiorazione del 28% ai sensi dell’art. 33 CCNL Pulizie Multiservizi 2011, che moltiplicato per le giornate di lavoro effettivo, indicate in busta paga, escludendo ferie, ROL, malattia ed ex festività determina i seguenti crediti in favore delle ricorrenti, da riconoscersi con maggiorazione di interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo:
(Omissis).
Assumono, inoltre, le ricorrenti, che all’atto dell’assunzione, all’interno della relativa lettera, la società s1 sarebbe determinata ad individuare esclusivamente il numero delle ore settimanali distribuite dal lunedì al venerdì, senza alcuna collocazione delle stesse nell’arco della giornata/settimana, e che tale comunicazione non sarebbe pervenuta neanche nel corso del rapporto di lavoro, nonostante i ripetuti solleciti. Ciò integrerebbe, secondo la difesa delle ricorrenti, la fattispecie di cui all’art. 3 d.lgs. n. 61/2000, successivamente sostituito dall’art. 5 e ss. d.lgs. n. 81/2015, con insorgenza di un credito risarcitorio, ai sensi dell’art. 10 d.lgs. n. 81 cit., nella misura del 25% della retribuzione.

Eccepisce parte resistente la circostanza che per tutta la durata del rapporto le lavoratrici avrebbero osservato il medesimo orario, dovendosi ritenere dunque integrata la fattispecie di cui all’art. 5 comma 3 d.lgs. n. 81 cit., (indicazione della durata della prestazione e della collocazione mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite), che pertanto non vi sarebbe stato alcun pregiudizio per le ricorrenti e che, ad ogni modo, la quantificazione del risarcimento del danno risulterebbe palesemente esorbitante.

Le norme della cui applicazione si controverte recitano quanto segue:

Art. 5. Forma e contenuti del contratto di lavoro a tempo parziale

1. Il contratto di lavoro a tempo parziale è stipulato in ferma scritta ai fini della prova.

2. Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno.

3. Quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.
art. 10 comma 3 D.lgs. 81/2015:

Qualora nel contratto scritto non sia determinata la durata della prestazione lavorativa, su domanda del lavoratore è dichiarata la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla pronuncia. Qualora l’omissione riguardi la sola collocazione temporale dell’orario, il giudice determina le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato e della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro. Per il periodo antecedente alla pronuncia, il lavoratore ha in entrambi i casi diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta per le prestazioni effettivamente rese, a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno.

Ritiene il giudicante come delle norme in questione non possa darsi una lettura formalistica, dovendosi interpretare le stesse alla luce della ratio e delle esigenze di tutela ad essa sottese.

È evidente, in particolare, che la disciplina in oggetto tuteli il diritto del lavoratore a tempo parziale di conoscere, in via anticipata, in un tempo ragionevole, i propri turni di lavoro o, quantomeno, gli specifici meccanismi regolativi dei propri turni di lavoro, evitando comunicazione di turni con preavviso esigui che impediscano al lavoratore di programmare con sufficiente anticipo la propria vita, al fine cli soddisfare esigenze personali ed ulteriori esigenze lavorative (Cass. civ., sez. lav., 6 dicembre 2019, n. 31957).

Laddove, come nel caso di specie, pur in assenza di esplicita indicazione all’interno della lettera di assunzione, vi sia evidenza incontestata della circostanza che, per tutto il rapporto di lavoro, le lavoratrici abbiano, nell’ambito del proprio orario contrattuale, osservato il medesimo orario di lavoro all’interno dello stesso turno, fatto salvo lo svolgimento di lavoro supplementare, sulla base di esigenze di volta in volta concordate tra le parti, non possono dirsi integrati gli estremi per l’applicazione della norma, sia sotto il profilo della determinazione delle modalità di svolgimento della prestazione che della determinazione del danno risarcibile ex art. 10 che, come evidenziato, non può considerarsi in re ipsa ma subordinato alla dimostrazione di un effettivo pregiudizio, discendente dalla non conoscenza e prevedibilità della collocazione oraria della prestazione.
Sul punto, ci si riporta alle osservazioni svolte nella sentenza del Tribunale di Milano, sez. lav., 17 marzo 2022, n. 479, nella quale si osservava: “da un lato, che la ricorrente ha completamente omesso di dm, conto di quale sarebbe stato, in concreto, il pregiudizio subìto e ciò non già sulla base di astratte valutazioni ma rappresentando, eventualmente anche all’esito di una attività istrutto1ia, in che termini la violazione da parte della società avrebbe pregiudicato la sua persona, nonché i suoi affetti ed interessi. Tantomeno ha dato conto di aver perso potenziali occasioni lavorative per effetto della mancanza di ima concordata distribuzione dell’orario di lavoro”.

La domanda va, pertanto, sotto questo profilo respinta.

L’accoglimento parziale delle pretese induce alla compensazione, nella misura di un mezzo, delle spese di lite, con condanna di parte resistente al pagamento della restante metà delle spese di lite, che si liquida come in dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie parzialmente il ricorso e, per l’effetto, condanna (Omissis) al pagamento, in favore delle ricorrenti, per il titolo di cui alla parte motiva, delle seguenti somme:

(Omissis)
oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo; rigetta per il resto il ricorso;
dispone la compensazione, nella misura di un mezzo, delle spese di lite e, per l’effetto, condanna (Omissis) al pagamento, in favore delle ricorrenti, in solido tra loro, della restante metà delle spese di lite, che liquida in € 2.200,00 per compensi di avvocato, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario.

 

 

Tempo-tuta e obbligo retributivo in presenza di imposizione del datore di lavoro
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