L’art. 3 del D.LGS. n. 23/2015, escludendo la possibilità della reintegrazione nell’ipotesi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, potrebbe essere incostituzionale.

Nota a Trib. Ravenna, ord. 27 settembre 2023 (R.G. n 2022/123)

Francesco Belmonte

L’impianto sanzionatorio previsto dal decreto sulle c.d. tutele crescenti, che preclude l’applicazione della tutela reale nei casi di insussistenza del fatto contestato alla base del licenziamento economico, comporterebbe un trattamento ingiustificatamente differenziato rispetto al licenziamento disciplinare, di cui all’art. 3, co. 2, e rispetto ai casi di lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del decreto in questione, nei cui confronti continua a trovare applicazione la tutela reale c.d. debole (art. 18, co. 7, Stat. Lav.).

A stabilirlo è il Tribunale di Ravenna ord. 27 settembre 2023 (R.G.n.20022/123), nell’ambito di un ricorso concernete l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per g.m.o., comminato ad un lavoratore assunto nel 2018 con contratto di somministrazione a tempo indeterminato, in quanto l’azienda non aveva assolto all’obbligo del repêchage.

La disciplina applicabile al licenziamento in controversia è quella dettata, in considerazione della data di assunzione del lavoratore, dall’art. 3, co. 1, D.LGS. n. 23/2015, secondo cui: “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.

Diversamente, la possibilità della reintegrazione è prevista, nella medesima ipotesi, unicamente per i licenziamenti disciplinari dal co. 2 della citata previsione, in base al quale: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il  licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché’ quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3”.

Quindi, in assenza di un elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento economico (tra cui rientra, per giurisprudenza oramai consolidata, anche il repêchage, v. Cass. n. 29102/2019 e soprattutto Corte Cost. n. 125/2022, in q. sito, con nota di F. BELMONTE), il lavoratore licenziato sotto la vigenza del decreto n. 23 può beneficiare unicamente di un ristoro economico, con la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro, sebbene quest’ultimo venga dichiarato illegittimo dal giudice.

Il Tribunale di Ravenna dubita della conformità costituzionale dell’impianto sanzionatorio delineato dall’art. 3 laddove prevede, per fattispecie analoghe, l’applicazione della sola tutela indennitaria per i licenziamenti economici (co.1) e limita la reintegrazione ai soli casi di licenziamenti disciplinari (co. 2).

Le questioni di legittimità costituzionale sono molteplici. Tra le tante, la prima è egualitaria e si pone in relazione all’art. 3, co. 1, Cost., con riguardo alla tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, co. 2 del decreto n. 23 per i licenziamenti disciplinari, “posto che si trattano in modo ingiustificatamente differenziato (a livello di tutele) situazioni del tutto identiche (o almeno omogenee), ossia il licenziamento per motivi disciplinari e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio la mancanza di giustificazione per insussistenza del fatto; tale differenza di tutele sarebbe determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto espulsivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto pretestuoso” (art. 3, co. 1, Cost.).

Si realizzerebbe, poi, un concomitante vulnus all’art. 24 Cost., posto che “al lavoratore, nella sostanza, non viene concesso – all’esito della dimostrazione processuale che un fatto non esiste – di avere le conseguenze che razionalmente spetterebbero in mancanza di valorizzazione dell’etichetta assegnata dalla controparte al licenziamento; egli invece è tenuto a subire conseguenze sostanziali e ultrattive di fatti pur processualmente accertati come inesistenti; secondo un meccanismo che è l’esatto contrario del concetto di deterrenza.”

“Altra questione riguarda, ex art. 3, co. 1, Cost., la notevole ed ingiustificata diversità di trattamento sostanziale (disuguaglianza…) tra i lavoratori ai quali si applica l’art. 18 L. n. 300/1970, ai quali in determinati casi spetta la reintegra per G.M.O. (valorizzandosi la gravità del vizio – insussistenza del fatto – e le dimensioni dell’impresa in base alla soglia numerica per l’applicazione della tutela reale) e i lavoratori soggetti al decreto n. 23, ai quali non spetta mai la reintegra e che vedono quindi eccessivamente penalizzati i propri diritti (…in rapporto alla irragionevolezza).”

Come è noto, a partire dalla riforma del 2012 la strada scelta dal legislatore in tema di tutele avverso i licenziamenti illegittimi è stata nel senso della graduazione delle tutele, in relazione alla gravità dei vizi del recesso.

“Tuttavia, una volta poste le fondamenta del sistema, il legislatore è vincolato al rispetto dei principi di ragionevolezza e uguaglianza, entrambi rinvenibili nell’art. 3, co. 1, Cost. Dunque, a parità di gravità del vizio deve necessariamente corrispondere un uguale trattamento sanzionatorio. E questo vieppiù in presenza di una identità di vizi, che corrisponde all’ipotesi in cui il giudice accerti che il fatto (soggettivo o oggettivo) posto alla base del recesso non esiste.”

“La scelta contraria effettuata dal legislatore nel 2012 (che aveva reso discrezionale la scelta di reintegra da parte del giudice solo in caso di motivo economico, mentre per i disciplinari permaneva l’obbligo) è già stata sanzionata con l’abrogazione per questo motivo dalla sentenza costituzionale n. 59/2021” (in q. sito, con nota di F. BELMONTE).

Nel decreto n. 23, al contrario, vi è un’opzione a monte di preclusione della reintegra per i licenziamenti economici.

“Anche qui il ragionamento, però, non può che essere il medesimo ed anzi, trattandosi di una radicale differenza di tutela sostanziale (totale preclusione per il G.M.O.), la linea argomentativa di cui alla sentenza n. 59/2021 ne esce addirittura rafforzata. Perché non è più una mera facoltà (in luogo di un obbligo) di reintegra che viene collegata alla qualifica (disciplinare o G.M.O.) data dal datore di lavoro al licenziamento, bensì dall’etichetta utilizzata dal datore discende la radicale esclusione del rimedio restitutorio del rapporto di lavoro.”

In altri termini, “l’individuazione della tutela applicabile rispetto ad una ipotesi di vizio identica (licenziamento, sia esso fondato su motivo soggettivo che oggettivo, completamente ingiustificato per insussistenza di un presupposto costitutivo della relativa fattispecie), o se si preferisce altamente omogenea, spetta non al giudice, bensì ad una delle parti.”

“Ciò che contrasta frontalmente con ogni logica, anche giuridica. Quindi il vizio riguarda l’art. 3, co. 1, Cost. sotto il profilo della disuguaglianza ingiustificata di trattamento tra il motivo soggettivo e il motivo oggettivo, in presenza degli stessi presupposti di vizio.”

“L’azzardo morale concesso al datore importa anche un problema di ragionevolezza della disciplina […], che però può essere speso utilmente anche in relazione all’aspetto egualitario, essendo evidente che l’esclusione della reintegra solo per il G.M.O. produce non solo un minore effetto deterrente per il datore di lavoro, bensì un effetto addirittura ammiccante l’illecito nel momento in cui gli si concede la possibilità di impedire la reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente qualificando in un certo modo piuttosto che in un altro un motivo – comunque inesistente – di licenziamento.”

A parere del giudice ravennate, “nulla rileva che nel 1° comma dell’art. 3, decreto n. 23 sia previsto un indennizzo monetario che nel massimo (36 mesi) può essere superiore all’importo di una eventuale monetizzazione della reintegra (12+15 mesi), in quanto, in disparte il fatto che non l’indennizzo di cui al 1° comma va liquidato dal giudice nel caso concreto (tenendo innanzi tutto conto dell’anzianità di servizio), la reintegra – ricostituendo il rapporto di lavoro – offre possibilità ed utilità compensative (produzione di reddito futuro; mantenimento della professionalità, ristabilimento della dignità del lavoratore e ritorno in azienda, con alleviamento dei pregiudizi non patrimoniali ordinariamente subiti dal licenziamento; risarcimento integrale del danno previdenziale) incomparabili con quelle del solo indennizzo monetario.”

Tale sistemazione giuridica è ritenuta dal giudice rimettente in contrasto anche con l’art. 24, co. 1, Cost., in quanto al lavoratore viene preclusa una tutela che gli spetterebbe (prevista dall’ordinamento giuridico per l’ipotesi di licenziamento per motivi soggettivi) sulla base della insindacabile qualificazione formale data al recesso dal datore di lavoro.

In ragione di tali argomentazioni, il Tribunale chiede al Giudice delle Leggi la parificazione delle tutele tra licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo, “con previsione che in entrambi i casi spetta la reintegra e con le stesse conseguenze sanzionatorie di cui al 2° comma dell’art. 3”.

Sentenza 

 

 

 

Licenziamenti economici e (nuova) questione di legittimità costituzionale
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