Lo stress sul luogo di lavoro anche quando non configura mobbing costituisce violazione dell’art. 2087 c.c. e comporta il risarcimento del danno alla salute.
Nota a Cass. 18 ottobre 2023, n. 28923
Giuseppe Rossini
“In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi”. Così, si esprime la Corte di Cassazione 18 ottobre 2023, n. 28923 (in senso conforme, v. Cass. (ord.) n. 3692/2023, in q. sito con nota di M.N. BETTINI; Cass. n. 33639/2022, annotata in q. sito da A. TAGLIAMONTE e Cass. n. 33428/ 2022, in q. sito con nota di P. COTI), ponendosi in linea con i giudici di merito.
Nella fattispecie, il demansionamento di una lavoratrice aveva determinato un danno alla salute ed all’integrità psicofisica della stessa ed il risarcimento del danno è stato riconosciuto quale conseguenza della complessiva condotta datoriale, non limitata al demansionamento (i cui effetti lesivi erano stati oggetto di autonomo ristoro) ma giudicata illegittima per violazione dell’art. 2087 c.c.
In particolare, la pronuncia di primo grado aveva condannato la società datoriale al risarcimento del danno da demansionamento nonché alla corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso in ragione della giusta causa delle dimissioni rassegnate dalla dipendente; mentre la Corte territoriale aveva escluso che fosse configurabile un’ipotesi di mobbing, mancando la prova di un disegno persecutorio nei confronti della lavoratrice. Ed aveva ritenuto che la superiore gerarchica avesse “posto in essere un progressivo e generalizzato svuotamento delle mansioni dei colleghi, non solo quindi in danno della attuale ricorrente, ma anche di altri dipendenti che avevano rassegnato le dimissioni ritenendo intollerabili le condizioni lavorative e l’ambiente creato dalla superiore”.
La Cassazione coglie l’occasione per precisare la nozione di mobbing, di straining e di perdita di chance, affermando che:
a) “è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. n. 3692/2023, cit.; n. 12437/2018 e n. 26684/2017) e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico… violazione dell’art. 2087 c.c. e quindi … responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 c.c. per il caso di dolo;
b) si concretizza lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. n. 18164/2018, annotata in q. sito da MP. BONI). Affinché lo straining integri la fattispecie del “mobbing” non basta la dequalificazione né plurime condotte datoriali illegittime, “essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione” (Cass. n. 10992/2020);
c) “la chance, intesa come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, per cui se, da un lato, la perdita di chance configura un danno concreto ed attuale, dall’altro, però, detto danno non coincide con il risultato utile al quale si aspirava e va, quindi, commisurato alla probabilità di conseguire il bene al quale aspirava il danneggiato” (v. Cass. n. 37002/2022; Cass. n. 13483/2018 e Cass. n. 4400/2004). Spetta al ricorrente provare, “anche per mezzo di dati valorizzabili ai fini del ragionamento presuntivo, la probabilità di ottenere il risultato utile sperato (v. Cass. S.U. n. 21678/2013 e Cass. n. 4014/2016) ed impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta” (Cass. n. 238/2007 e Cass. n. 3999/ 2003). Qualora tale onere sia assolto, il danno va liquidato in via equitativa (v. Cass. n. 7110/2023, in q. sito con nota di A. TAGLIAMONTE e n. 9392/2017). Il danno non coincide con le retribuzioni perse e, anche se l’ammontare delle stesse può costituire un parametro, “occorre comunque tener conto del grado di probabilità (Cass. n. 4014/2016 e n. 5119/2010) e della natura del danno da perdita di chance che è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale” (Cass. n. 1884/2022 e Cass. n. 2737/2015).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 18 ottobre 2023, n. 28923
Rilevato che:
1.La Corte d’appello di Milano ha respinto l’appello principale di T.P. e l’appello incidentale della (omissis) srl, confermando la pronuncia di primo grado che aveva condannato la società datoriale al risarcimento del danno da demansionamento (pari al 30% della retribuzione percepita dal 2007 al 2018 e al 70% della retribuzione relativa al periodo successivo e fino alle dimissioni) e del danno biologico (valutato in 6 punti percentuali e con personalizzazione al 40%, oltre che per inabilità temporanea), nonché alla corresponsione della indennità sostituiva del preavviso in ragione della giusta causa delle dimissioni rassegnate dalla dipendente (con rigetto delle residue domande, di riconoscimento di mansioni superiori di natura dirigenziale e di risarcimento del danno da perdita di chance, del danno pensionistico, del danno morale ed esistenziale).
2. La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha escluso che fosse configurabile la fattispecie del mobbing, per difetto di prova di un disegno persecutorio nei confronti della lavoratrice, ritenendo, invece, che la superiore gerarchica, signora V. , avesse posto in essere un progressivo e generalizzato svuotamento delle mansioni dei colleghi, non solo quindi in danno della attuale ricorrente, ma anche di altri dipendenti che, al pari della T. , avevano rassegnato le dimissioni ritenendo “intollerabili le condizioni lavorative e l’ambiente creato dalla superiore” (sentenza d’appello, pag. 11); ha negato il risarcimento del danno da perdita di chance (preteso fino alla data del pensionamento) per la genericità delle allegazioni della lavoratrice, consistenti in “mere illazioni e/o supposizioni, del tutto astratte” (sentenza, pag. 12); ha negato il risarcimento del danno esistenziale mancando qualsiasi “indicazione circa le opportunità perdute” dalla lavoratrice ed anche specificazioni sul “se e come (avesse) dovuto modificare le sue abitudini di vita, le sue aspirazioni, su come sono cambiate, se sono cambiate, le dinamiche familiari” (sentenza, pag. 13).
3. Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. (omissis) srl unipersonale ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.
4. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 2087,2043,2049,2059 c.c., degli artt. 113 e 116 c.p.c. nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio in ordine al mancato riconoscimento di responsabilità del datore di lavoro per la condotta mobbizzante e al mancato accoglimento delle conseguenti domande risarcitorie.
6. Si sostiene come il progressivo demansionamento facesse parte di una più ampia strategia aziendale volta all’allontanamento della dipendente, divenuta in modo specifico destinataria di “aggressioni verbali, urla, violazione della privacy (mediante lettura della posta…), privazioni di strumenti di lavoro (pc e telefono aziendale)” (ricorso, pag. 33), circostanze tutte desumibili dalle testimonianze raccolte.
7. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 2087 c.c. in relazione al mancato accertamento, da parte del giudice del merito, del carattere vessatorio e mortificante dei comportamenti subiti dalla lavoratrice.
8. Si assume che, pure escluso l’elemento persecutorio necessario per poter configurare una condotta mobbizzante, il giudice di merito avrebbe dovuto ritenere integrata la violazione dell’art. 2087 c.c. per la “antigiuridicità, la dannosità e la vessatorietà” dei comportamenti datoriali causativi di “conseguenze devastanti sulla salute psico-fisica della sig.ra T. e sulla sua condizione patrimoniale e lavorativa” (ricorso, pagg. 46-47).
9. Con il terzo motivo si addebita alla sentenza la violazione degli artt. 113,115 e 116 c.p.c. in relazione al difetto di motivazione, sotto il profilo della incongruenza e contraddittorietà, per quanto attiene alle domande risarcitorie e, specificamente, al risarcimento del danno da perdita di chance.
10. Riportati stralci della sentenza di primo grado (da cui si risulta che “la sig.ra T. prima di tali fatti era pacificamente responsabile di un servizio, aveva responsabilità manageriali e disponibilità di collaboratori che a lei riportavano, si vedeva assegnare budget da raggiungere e aveva autonomia nelle relazioni esterne e che dopo aver chiesto il part time si è vista immediatamente togliere ogni responsabilità di tipo manageriale, passata dopo un breve periodo di affiancamento al collega I. M. che andò a sostituirla a capo del servizio comunicazione e pubblicità, e si è vista assegnare unicamente attività operative seppure -in un primo tempo- di livello; dopo l’assenza per la maternità, e a seguito dell’arrivo della sig.ra V. …, il demansionamento della ricorrente si è ulteriormente aggravato, venendole tolta l’autonomia che ancora in precedenza connotava le pur ridotte mansioni cui era addetta. Quando infine, dopo un ulteriore periodo di assenza, la ricorrente era stata assegnata alla struttura della sig.ra L. , già sua sottoposta che nelle more aveva fatto carriera, gli unici incarichi della ricorrente erano stati quelli strettamente operativi e descritti dalla stessa teste” (ricorso pagg. 49-50), la ricorrente sostiene essere “evidente che se non fosse stata vittima delle indicate e accertate condotte lesive da parte del datore di lavoro, certamente avrebbe potuto, se non raggiungere i vertici aziendali, perlomeno continuare a svolgere il suo ruolo” (ricorso, pag. 51) e rivendica quindi il danno patrimoniale subito a causa della cessazione del rapporto di lavoro per le dimissioni riconosciute come assistite da giusta causa.
11. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
12. Secondo gli orientamenti maturati presso questa S.C. (v. da ultimo Cass. n. 3692 del 2023) si può ritenere che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 c.c. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 c.c. per il caso di dolo; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164). Ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass. n. 10992 del 2020).
13. La Corte di merito si è attenuta ai citati principi di diritto e le critiche mosse col motivo di ricorso in esame investono, anche mediante ampi riferimenti alle deposizioni testimoniali raccolte e alla c.t.u., la valutazione dei dati probatori oggetto delle decisioni di merito, con particolare riguardo all’elemento soggettivo datoriale, al di là dei limiti consentiti in questa sede e delineati, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, dalle S.U. con le sentenze n. 8053 e 8054 del 2014 e senza che sia configurabile la violazione delle regole di formazione della prova (su art. 116 c.p.c. v. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014).
14. Il secondo motivo è infondato.
15. Costituisce orientamento univoco quello per cui, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi (Cass. n. 3692 del 2023; n. 33639 del 2022; n. 33428 del 2022).
16. La sentenza d’appello (pag. 5) dà atto che il “primo giudice ha riconosciuto che il comportamento tenuto dall’Azienda nei confronti della T. (di cui il demansionamento costituiva solo un aspetto), pur non costituendo mobbing, per difetto di intento persecutorio nei confronti della dipendente, ha però determinato un danno alla salute ed all’integrità psicofisica della stessa”. Il risarcimento del danno alla salute è stato riconosciuto quale conseguenza della complessiva condotta datoriale, non limitata al demansionamento (i cui effetti lesivi sono stati oggetto di autonomo ristoro) ma, evidentemente, giudicata illegittima per violazione dell’art. 2087 c.c. Né parte ricorrente ha in alcun modo dedotto e argomentato la riferibilità del danno alla salute liquidato ad altra e diversa causale giuridica.
17. Neppure il terzo motivo di ricorso può trovare accoglimento.
18. Questa Corte (v. Cass. n. 13483 del 2018; n. 37002 del 2022) ha da tempo evidenziato che la chance, intesa come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, per cui se, da un lato, la perdita di chance configura un danno concreto ed attuale, dall’altro, però, detto danno non coincide con il risultato utile al quale si aspirava e va, quindi, commisurato alla probabilità di conseguire il bene al quale aspirava il danneggiato (v. Cass. n. 4400 del 2004 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione). Ciò comporta che grava sul ricorrente l’onere di provare, anche per mezzo di dati valorizzabili ai fini del ragionamento presuntivo, la probabilità di ottenere il risultato utile sperato (v. in motivazione Cass. n. 9472 del 2003; Cass. S.U. n. 21678 del 2013; Cass. n. 4014 del 2016) ed impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (Cass. n. 238 del 2007 in motivazione; Cass. n. 3999 del 2003; Cass. 11340 del 1998, n. 10748 del 1996). Ove detto onere sia stato assolto il danno, che non coincide con le retribuzioni perse, va liquidato in via equitativa (v. Cass. n. 7110 del 2023; n. 9392 del 2017; n. 24295 del 2016; n. 10030 del 2015; n. 18207 del 2014) ed a tal fine l’ammontare delle retribuzioni perse può costituire un parametro, ma occorre comunque tener conto del grado di probabilità (Cass. n. 4014 del 2016; n. 5119 del 2010; n. 14820 del 2007; n. 2167 del 1996) e della natura del danno da perdita di chance che “è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale” (Cass. n. 1884 del 2022; n. 2737 del 2015).
19. Con il motivo in esame la ricorrente reitera quelle che la Corte di merito ha definito “mere illazioni e/o supposizioni, del tutto astratte, inidonee a fondare pretese risarcitorie”, senza in alcun modo confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata che ha ritenuto non adempiuto l’onere di allegazione e prova come delineato dai citati precedenti di legittimità.
20. Non solo non ricorre la violazione delle invocate disposizioni di legge processuale (v. supra § 13) ma neppure è configurabile, nell’attuale assetto, il vizio di motivazione contraddittoria o incongrua, a meno che ciò non si traduca in una illogicità o contraddittorietà insanabile atta a integrare la violazione dell’art. 132, n. 4 (v. Cass., S.U. 8053 e 8054 del 2014 cit.; v. anche Cass. n. 2980 del 2023), requisiti neanche dedotti nel caso in esame.
21. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
22. La regolazione delle spese segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
23. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in Euro 10.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.