La condotta del dipendente pubblico che si allontani dal luogo di lavoro durante la pausa pranzo omettendo di timbrare il cartellino costituisce falsa attestazione della presenza in servizio avvenuta con modalità fraudolente ed è meritevole della massima sanzione disciplinare.

Nota a Cass. 2 novembre 2023, n. 30418

Sonia Gioia

In materia di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego, la falsa attestazione della presenza in servizio non si configura solo nelle ipotesi di materiale alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze ma in tutti i casi in cui venga posta in essere un’attività oggettivamente idonea ad indurre in errore l’amministrazione datrice di lavoro circa il rispetto dell’orario di impiego.

Ne consegue che anche l’allontanamento dall’ufficio, senza far risultare mediante timbratura del cartellino i periodi di assenza dal lavoro, ancorché verificatosi in coincidenza con l’orario della pausa pranzo, deve ritenersi una condotta fraudolenta diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale, idonea a giustificare l’irrogazione del provvedimento espulsivo ai sensi dell’art. 55 quater, co. 1, lett. a) e co. 1-bis, D. LGS. 30 marzo 2001, n. 165 e s.m.i. (concernente “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”).

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (2 novembre 2023, n. 30418, conforme ad App. Brescia n. 114/2022) in relazione ad una fattispecie concernente il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza in servizio intimato ad una dipendente del Ministero dell’Istruzione, impiegata in qualità di collaboratrice amministrativa, che in più occasioni si era allontanata dal luogo di impiego, per tutta la durata della pausa pranzo, omettendo di registrare, tramite badge, le uscite interruttive del servizio.

Nel giudizio di merito, la Corte d’Appello, in conformità con il giudice di prime cure, aveva confermato la legittimità del provvedimento disciplinare in quanto la condotta negligente della lavoratrice, “grave e reiterata” per le modalità con cui era stata realizzata, risultava irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di impiego e preclusiva della possibilità di continuare a far affidamento sul corretto espletamento delle proprie mansioni da parte della dipendente,  a nulla rilevando la circostanza che le assenze non registrate coincidevano effettivamente con l’orario della pausa pranzo e che si fossero protratte per un tempo sostanzialmente coincidente con la durata della pausa di almeno trenta minuti prevista per i lavoratori che prestano servizio in modo continuativo per un tempo superiore a 7 ore e 12 minuti  dall’art. 51 CCNL Comparto scuola.

Come noto, l’art. 55 quater D. LGS. n. 165 cit. ha introdotto e tipizzato alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a giustificare il licenziamento del pubblico dipendente, che si aggiungono agli istituti generali del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo.

Tra le fattispecie tipizzate di illeciti disciplinari, per le quali è prevista l’intimazione del provvedimento espulsivo, vi è quella disciplinata dall’art. 55 quater co. 1, lett. a), D. LGS. n. 165 cit., che prevede l’irrogazione del licenziamento in caso di “falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente”.

In particolare, come chiarito dall’art. 55 quater, co. 1-bis, D. LGS. n. 165 cit. (introdotto dal D. LGS. 20 giugno 2016, n. 116, concernente “Modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”) costituisce falsa attestazione della presenza in servizio “qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione” circa il rispetto dell’orario di lavoro (Cass. n. 17600/2021, annotata in q. sito da F. GIROLAMI).

Ne consegue che anche l’allontanamento dall’ufficio nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata e di uscita integra la fattispecie soprarichiamata, in quanto costituisce una modalità fraudolenta diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale e ad ingannare l’amministrazione di appartenenza circa la presenza in ufficio.

Ciò, dal momento che è falsa attestazione della presenza in servizio “non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio” e, più in generale, qualunque condotta che sia “oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro” circa la presenza sul luogo di impiego (Cass. n. 25750/216; Cass. 17367/2016).

Al verificarsi di una fattispecie legale tipizzata di illecito disciplinare, si pone “il problema di verificare i principi che il giudice deve applicare nel valutare la legittimità della sanzione irrogata dall’Amministrazione”, una volta accertato che il lavoratore abbia commesso un’infrazione, e, pertanto, se il datore di lavoro pubblico deve irrogare, senza spazi di discrezionalità, il provvedimento espulsivo quale “conseguenza automatica e necessaria” dell’infrazione o se, invece, deve “valutare l’effettiva portata dell’illecito tenendo conto di tutte le circostanza del caso concreto”, e quindi, di graduare la sanzione disciplinare, intimando il recesso solo nelle ipotesi in cui ricorrano gli elementi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Al riguardo, la Cassazione ha precisato che l’art. 55 quater, D. LGS. n. 165 cit., da un lato, “cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore”, mentre, dall’altro, consente di verificare, caso per caso, la sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, e, quindi, di valutare se ricorrono “elementi che assurgono a scriminante della condotta” (Cass. n. 18326/2016).

Ne consegue che anche in presenza di tutti gli elementi costituivi dell’illecito tipizzato dalla legge, il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità o adeguatezza del provvedimento sanzionatorio, tenendo conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati (C. Cost. n. 123/2020; Cass. n. 14199/2021, con nota in q. sito di F. DURVAL).

Nel caso di specie, la Corte ha confermato la legittimità del provvedimento espulsivo irrogato dall’amministrazione datrice di lavoro precisando che la condotta della dipendente, consistita nell’omessa timbratura del cartellino in occasione delle uscite interruttive del servizio, non può essere giustificata o comunque valutata con minor rigore solo perché posta in essere in coincidenza dell’orario della pausa pranzo, atteso che “era chiara a tutto il personale l’esistenza dell’obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo”.

Né stato ritenuta dirimente la prospettazione della modesta entità del danno subìto dall’amministrazione, coincidente con la retribuzione indebitamente maturata durante le uscite dalla scuola per motivi personali, dal momento che l’esigua entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del pregiudizio patrimoniale subìto dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del dipendente “sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro” (Cass. n. 8816/2017).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE, 2 NOVEMBRE 2023, n. 30418

Svolgimento del processo

1.La Corte d’Appello di Brescia, con la sentenza n. 114 del 2022, ha rigettato l’appello proposto da A.A. nei confronti del MIUR, dell’Ufficio scolastico territoriale di Brescia, nonché dell’Ufficio scolastico regionale della Lombardia, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Cremona.

2. Il giudice di primo grado aveva respinto il ricorso con il quale la lavoratrice, collaboratrice amministrativa presso l’Istituto “A. Ghisleri” di Cremona, aveva impugnato il licenziamento disciplinare che le era stato irrogato dal MIUR il 4 aprile 2019.

Il Tribunale aveva evidenziato che le condotte ascritte alla dipendente, che in cinque occasioni nell’anno 2017 si era allontanata dall’istituto Ghisleri per tutta la durata della pausa pranzo senza strisciare il badge sia all’uscita che al rientro, non erano contestate nella loro materialità e integravano la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater.

3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando un motivo di ricorso.

4. Resiste il MIUR con controricorso.

5. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte che ha confermato nella discussione in udienza pubblica.

Motivi della decisione

1.Con l’unico motivo di ricorso è dedotta la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 2106, 2119 e 1455 c.c., della norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1, lett. a), commi 1-bis e 3, così come da modifiche di cui al D.Lgs. n. 116 del 2016, dell’art. 12 del CCNL Comparto istruzione e ricerca triennio 2016-2018, nonché degli artt. 3 e 35 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La ricorrente afferma che la Corte d’Appello ha applicato l’art. 55-quater, comma 1, lett. a), commi 1-bis e 3, e ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui è da escludere qualsiasi automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva, ma erroneamente non avrebbe considerato gli elementi diretti ad attenuare l’intensità dell’elemento soggettivo e la gravità del comportamento assunto dalla lavoratrice in relazione alla sanzione disciplinare comminata.

La lavoratrice riporta in sintesi il contenuto delle disposizioni richiamate, rilevando che il giudice di secondo grado nell’effettuare la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa di recesso, avrebbe dovuto attenersi ad un giudizio rispettoso dei valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.

La Corte d’Appello non aveva fatto alcuna specifica valutazione della concretezza degli effetti addebitati alla lavoratrice.

La ricorrente ricorda che il procedimento disciplinare era conseguito ad indagini rivolte ad altri dipendenti.

Né vi era stato alcuna disfunzione del servizio lavorativo.

Il risarcimento del danno richiesto dalla Pubblica amministrazione era stato ridotto a 1.000 Euro con la sentenza pronunciata dalla Corte dei conti.

L’affermata gravità della condotta illecita contestata alla lavoratrice si poneva, dunque, in contrasto con gli artt. 35 e 3 Cost., atteso che il licenziamento costituisce estrema ratio.

Circa la dichiarata malafede della lavoratrice in ordine all’uscita da scuola in pausa pranzo, la Corte appariva disinvolta nel giudizio, la versione proposta dalla ricorrente, ed esprimendo in tal modo l’incompletezza di quella necessaria verifica che avrebbe dovuto porre in essere.

Nella specie, non poteva ravvisarsi la gravità della condotta illecita che, ai sensi degli artt. 2106, 2119 e 1455 c.c., può consentire il licenziamento.

2. Il motivo non è fondato.

Nella specie viene in rilievo il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata.

3. Questa Corte, nell’interpretare il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367 del 2016e Cass. n. 25750 del 2016).

Dell’art. 55 quater, il comma 1 bis – introdotto con il decreto n. 116 del 2016, illustra che “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso”.

La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare (Cass. n. 17600 del 2021) che il legislatore del 2009, con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, ha introdotto e tipizzato alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento.

La disposizione ha, dunque, introdotto una tipizzazione di illecito disciplinare da sanzionarsi con il licenziamento.

In particolare, questa Corte ha affermato che (Cass. n. 22075 del 2018) l’introduzione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1-bis (avvenuta con il D.Lgs. n. 116 del 2016) non ha portata innovativa, ma vale come interpretazione chiarificatrice del concetto di “falsa attestazione di presenza”.

È falsa attestazione (prima e dopo la riforma) non solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio. Nell’eventuale contrasto tra legge e contrattazione collettiva prevale – in quanto imperativa – la disciplina legale, anche se meno favorevole al lavoratore.

A fronte di una fattispecie legale, si pone, quindi, il problema di verificare i principi che il giudice deve applicare nel valutare la legittimità della sanzione irrogata dall’Amministrazione, una volta accertato che il lavoratore abbia commesso una delle mancanze previste dalla norma, e pertanto se il licenziamento sia una conseguenza automatica e necessaria, ovvero se l’amministrazione conservi il potere-dovere di valutare l’effettiva portata dell’illecito tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare, potendo ricorrere a quella espulsiva solamente nell’ipotesi in cui il fatto presenti i caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento.

Sul punto si è affermato (Cass., n. 18326 del 2016) che la norma cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta.

Ferma la tipizzazione della sanzione disciplinare (licenziamento) una volta che risulti provata la condotta, permane la necessità della verifica del giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione che si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso.

La disposizione normativa è stata, dunque, interpretata (si v., Cass., n. 14199 del 2021) alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106 c.c., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (nella citata sentenza si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123 del 2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal giudice rimettente).

4. La Corte d’Appello di Brescia ha affermato che, sotto il profilo oggettivo della condotta, seppure le assenze non registrate, accertate dalla Guardia di Finanza, coincidevano effettivamente con l’orario della pausa pranzo e si fossero protratte per un tempo sostanzialmente coincidente con la durata della pausa di almeno trenta minuti, prevista dal CCNL comparto scuola per i lavoratori che prestano servizio in modo continuativo per un tempo superiore a 7 ore e 12 minuti (art. 51), ciò non valeva a giustificare le condotte tenute dall’appellante.

Ed infatti il CCNL là dove afferma il diritto alla pausa pranzo non esonera il dipendente dall’incombenza di effettuare la timbratura quando interrompe il servizio per usufruire della pausa pranzo. Anzi, il CCNL relativo al comparto scuola per il quadriennio 2006-2009 ha previsto (art. 92, lett. g) l’obbligo di rispettare l’orario di lavoro e di adempiere alle formalità previste per la rilevazione delle presenze e di non assentarsi dal luogo di lavoro senza l’autorizzazione del dirigente scolastico.

La Corte d’Appello ricorda che il piano di lavoro del personale ATA per l’a.s. 2016/2017, inoltre, ribadiva che l’accertamento della presenza sul posto di lavoro del personale doveva avvenire tramite la timbratura elettronica del badge personale, che nel caso di dimenticanza del badge bisognava segnalare tempestivamente la cosa al DGSA (chiariva, altresì, che l’uscita durante l’orario di lavoro doveva essere preventivamente autorizzata dal DGSA e che in caso contrario il dipendente sarebbe stato considerato assente ingiustificato). Per di più, dalla comunicazione n. 98 del 17.01.2009 risultava che il personale ATA dell’Istituto (Omissis) fosse stato specificamente informato delle modalità di utilizzo del badge e dell’obbligo di procedere alla timbratura in ogni occasione di assenza dal luogo di lavoro per motivi personali.

Pertanto, la Corte d’Appello ha affermato che, in sostanza, le condotte tenute dalla lavoratrice non possono essere giustificate o comunque valutate con minor rigore solo perché poste in essere in coincidenza dell’orario della pausa pranzo, atteso che era chiara a tutto il personale l’esistenza dell’obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo.

5. Tale statuizione attua correttamente i principi sopra richiamati in quanto la Corte d’Appello non ha tratto l’intenzionalità della condotta fraudolenta della lavoratrice dalla circostanza in sé dell’uscita dall’ufficio in mancanza di previa autorizzazione e timbratura, che costituisce violazione presuntivamente grave, ma ha effettuato il contestuale e non frazionato esame degli elementi dedotti dalla lavoratrice e non contestati nella loro materialità, diretti a vincere tale presunzione, in particolare la coincidenza con la pausa pranzo, escludendone con specifiche argomentazioni la rilevanza.

La Corte d’Appello ha, dunque, affermato che la condotta negligente della lavoratrice, reiterata e grave per le modalità con le quali è stata realizzata, lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con l’amministrazione datrice di lavoro e giustifica la massima sanzione espulsiva.

Ciò, in coerenza con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (cfr., Cass., n. 8816 del 2017).

Quindi, correttamente la Corte d’Appello non ha ritenuto dirimente la prospettazione della minima misura del danno economico, parametrato alla retribuzione indebitamente maturata durante le uscite dalla scuola per motivi personali, attesa la gravità dell’inadempimento commesso dalla dipendente e il rilevante danno all’immagine dell’Amministrazione affermato anche dalla Corte dei conti.

6. Il ricorso deve essere rigettato.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio di cassazione che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

Omessa timbratura dell’uscita in pausa pranzo: giustificato il licenziamento del lavoratore
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